Un'immagine dal film "La vita è meravigliosa" di Frank Capra |
E’ morto a 94 anni il New Deal, almeno la sua faccia allegra-promozionale. Quella che ci invitava a lottare, dentro ogni società di massa esistente o ipotizzabile, per il rispetto e la valorizzazione dell'individuo, della sua creatività, fantasia e magia. Frank Capra è passato alla storia del cinema come il maestro dell'individualismo come «bene e servizio sociale», cioè come il regista che più ha rispecchiato l'energia e la fantasia (è gli ha dato carne, sentimenti e cuore) con la quale il presidente democratico Franklin Delano Roosevelt invitava l'America, tutta, alla lotta e alla riscossa, dopo la tremenda crisi economica.
Capra avrebbe incarnato, visualizzato nelle metropoli, tra i dropout e nelle campagne, tra le «it» girls, e diffuso pubblicitariamente la parola d'ordine chiave di quegli anni: «L'unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura». Dal '33 al '39, nel primo settennale di F.D.R., Capra e la sua banda, James Stewart, Claudette Colbert, Jean Arthur, Gary Cooper, Clarke Gable, scodellano tre Oscar per la regia con Accadde una notte, '34; E' arrivata la felicità, '36 e L'eterna illusione, '37.
Fatto abbastanza inusuale per l'Academy Award, si trattava di tre commedie. Non di western, non di musical, non di gangster film, non di drammi sociali, sconvolti e realistici. E' stata la commedia e un umorismo che non irrideva mai i deboli, ma soli i potenti di ogni segmento sociale, a differenziare nel profondo la cultura di massa Usa tra le due guerre…
Frank Capra, da buon siciliano emigrato esperto in conflitti di classe, a differenza di quel che si ritiene, non è mai stato un populista. Sarebbe stato dall'altra parte della barricata rispetto a Roosevelt, sennò. Avrebbe cantato reazionariamente la purezza della cultura contadina e artigianale, mostruosizzato politicanti e banchieri come categoria, non come individui singoli, e non avrebbe lanciato tramite il Clarke Gable di Accadde una notte (un titolo già scandaloso per le società del lavoro e rurali) le famose canottiere nei grandi magazzini. Avrebbe cantato le lodi del buon vicinato, con tutto il suo retrogusto oscuro di razzismo e di ghettomania, invece di scatenare Joe Doe e i signori Smith nelle sue campagne politiche, per un partito leggero e per delle idee chiave chiare e accessibili all'uomo qualunque in rivolta (facendoci toccare con mano quelle nefandezze e quali pericoli demagogici sussistono nel modello americano di vita, e, vediamo proprio in questi giorni in Urss, non solo).
La sua correttezza, il suo umorismo, lo distanziano dal grande pubblico quando il grande patto, mai indolore, tra le classi nordamericane che si scontrano (ma con l'arbitro, come nel baseball) si incrina. Lo shock della guerra, il maccartismo, la disintegrazione del sistema dei megastudi di produzione, la fine del codice di censura lasciano Capra orfano dello studio che lui stesso aveva salvato con incassi super, la Columbia (oggi giapponese).
Capra mette in piedi una sua casa di produzione che scodellerà l'ultimo suo grande successo La vita è meravigliosa nel 1946. Questionacce legali gli strapperanno poi il film dalle mani. Ne deriverà quella polemica con Ted Turner che voleva colorizzare quel film a ogni costo e arrogantemente - come in un film di Capra - invece di aspettare, educatamente la sua morte. Del 1961 è l'ultimo suo lavoro, con Bette Davis, Angeli con la pistola. Poi gli omicidi Kennedy, Malcom X e Luther King, poi il Vietnam. Non si poteva più ridere dell'America. Anche se mai avrebbe sconfessato le ragioni che lo portarono al fronte antinazista come documentarista di Perché combattiamo. La democrazia è feroce, ma Capra, come Berke¬ley, Hawke, Dwan, Walsh e i grandi agitprop del new deal, ci ha dimostrato che solo la lotta di classe istigata e sviluppata a rischio, produce vera fantasia, ci fa sperare nell'utopia, nella fiaba impossibile, nell'eterna giovinezza, negli «Orizzonti perduti», nei «lavoratori industriali del mondo liberi». E non l'armonia delle società congelate. Altro che poeta dell'amore di classe.
“il manifesto”, 5 settembre 1991
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