Festa grande d’aprile è il titolo di un testo teatrale composto da Franco Antonicelli e rappresentato in diverse città d’Italia in occasione del ventennale della Liberazione, nel 1965. Sulla rivista dell'ANPI, “Resistenza”, Antonicelli pubblicò, nel gennaio del 1965, un articolo che spiega le intenzioni della pièce. L’articolo è stato riproposto da “La Stampa” il 25 aprile 2010. E’ da lì che l’ho rispreso. (S.L.L.)
Franco Antonicelli e Ferruccio Parri |
Quando scrivevo Festa grande d'aprile io avevo alcuni intenti. Pensavo anzitutto che fosse necessario ricordare ancora la tragedia del popolo italiano (quella che chiamo «una tragedia perfetta», perchè comincia con un delitto, culmine di una crisi, e finisce con una purificazione). Naturalmente ricordavo a vent'anni di distanza, senza odio e col pudore nei riguardi dei miti, della retorica dell'orrore, e della retorica del fallimento e della delusione. Perché ricordare? Perché da quei ricordi, ammesso che la conoscenza storica degli avvenimenti sia egualmente diffusa (il che non è affatto, anzi lamentiamo che non sia) scaturisca tutta la possibile lezione, che è insieme morale e politica.
Ho scelto alcuni fatti essenziali e ne ho spremuto la lezione per il presente. Non credo che quei fatti siano stati semplicemente rievocati sotto la guida di un sentimento elegiaco. Il padre che si arrampica sugli specchi per non dire (o perché non sa dire) se lavarsene le mani, cioè sfuggire alla responsabilità della scelta (è la scena del «Gesto di Pilato»), sia degno o indegno dell'uomo, e di conseguenza si riempie la bocca della parola «coscienza», della coscienza che non si macchia perché non si espone mai (ed elabora una sua convinta tesi che lo star fuori dai conflitti richieda più coraggio che il prender parte), bene, questo padre è vivo ancora oggi, e' l'uomo delle schede bianche, dell'«al di sopra della politica», che conosciamo benissimo. E' l'oscuro corresponsabile del fascismo che passa vittorioso. I frondisti (la scena «Piccola Fronda») verbosi, velleitari, sono la gelatina che conosciamo: non molto più rispettabili dei vili e degl'indifferenti. Ho scelto la figura di De Bosis per onorare il martire volontario e isolato, la protesta eroica, che non è mai sterile, e tuttavia è condannata alla sconfitta politica. La sua storia, per contrasto, appartiene esemplarmente al motivo che circola in tutto il mio testo: la fede nell'azione comune, nella grande lotta unitaria contro quel nemico che si arriva a riconoscere identico per tutti. Fino a quando l'antifascismo non ha accettato (e non accetterà) la partecipazione della classe operaia alle battaglie decisive, ha perduto (e perderà). Il timore che l'esercito dei lavoratori si muova e proceda senza più fermarsi è alla base di tutte le inerzie, i compromessi e i pericoli di soluzioni rovinose di ieri e di oggi. Lo dico in modo soltanto emotivo ed embrionale nella scena di Gramsci, lo ripeto nell'episodio della guerra di Spagna. In «Officina 19» e oltre; persino nella canzone La vittoria è nell'unità che cantano gli operai rivolgendosi al pubblico alla fine del «primo tempo». Che la grandezza della patria non sia, non debba essere più una grandezza militare, e nemmeno l'onore della bandiera sia semplicemente un onore militare è gridato, perfino con esasperazione, nella scena del ritorno dalla Russia e delle «mele del duce». Che ciò che divide gli uomini non siano le diversità nazionali o razziali ma quelle ideologiche e morali è detto ovunque. E anche, che la patria è ciò che non è diviso e non divide. Credo di avere battuto e ribattuto sull'indegnità e sulle insidie sempre latenti dell'antisemitismo (e di ogni razzismo): non mi pare che si tratti di pericoli sventati, di timori fantastici.
Dico anche in Festa grande che la verità va cercata da sé e non attesa, come non si attende la salvezza da nessuno; e che il soldato non è un burattino, né il cittadino né l'uomo vanno mai dimenticati in lui; e che dopo la liberazione ci sarebbe stato bisogno di un'altra lotta e non sembrava legittima la pretesa degl'intellettuali di leggersi in pace Eschilo, lontani dagl'impegni degli altri uomini. Una sola guerra é ancora possibile concepire (tollerare), dico nella Trincea d'Aragona: la guerra civile. Parola brutta, fatto brutto, di cui vogliamo la scomparsa, per opera nostra. Ma è la sola contesa di cui possiamo darci una dolorosa ragione: la guerra contro ogni forma di oppressione. Quale democratico non pensa che le vere rivoluzioni non sono una vendetta e non sono, se non sciaguratamente, un puro scatenarsi tempestoso, ma il frutto di un lavoro ordinato e profondo (parlo, nel mio testo, di «lavoro leale», parlo del dovere dello studio)? Eppure, ammetto che anche la tempesta possa essere necessaria e feconda. E' questa la più sincera delle mie convinzioni e sentivo il bisogno di parteciparla.
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