Anna Maria Ortese |
«Spiegarti questo orrore
segreto di partecipare alla cultura italiana di buon livello – è
impossibile. Sai, sarebbe come rientrare malvestiti e invecchiati in
una casa di potenti – dove tutti sono sempre vestiti in modo
impeccabile, e soprattutto sono rimasti gli stessi».
Il senso di disagio
rispetto all’ambiente letterario italiano che Anna Maria Ortese
esprimeva in una delle lettere all’amico Dario Bellezza, da poco
raccolte in un volume curato da Adelia Battista e intitolato
Bellezza, addio (Archinto, pp. 103, euro 15), è pari solo a
quello per i decenni in cui il nome di questa straordinaria
scrittrice, dopo un esordio fortunato, è stato di rado pronunciato.
Di fianco alla sua opera,
in un giusto contrappasso, molti dei romanzi del Novecento mostrano
oggi i propri limiti quando non appaiono consunti dal tempo
trascorso, proprio come abiti fuori moda. Questo, ovviamente, solo
agli occhi di chi crede alla Letteratura, ossia per pochissimi,
perché – come Ortese notava in un lontano scritto sul carteggio di
Cechov e Gorki, ora ripubblicato da Monica Farnetti insieme ad altri
suoi splendidi scritti letterari, «non c’è forse, dopo l’Italia,
un altro Paese al mondo dove ciascun abitante abbia come massima
ambizione lo scrivere, e ce n’è pochi altri dove quel che ciascuno
scrive (…) scivoli, per così dire, sull’attenzione dell’altro,
come la pioggia su un vetro».
Se qualcosa ci mostra il
carteggio tra Ortese e Bellezza, testimonianza di un’amicizia
ventennale, è un grande e rarissimo esercizio di attenzione da parte
di quest’ultimo nei confronti dell’opera dell’amica. Della
scrittrice del Mare non bagna Napoli Bellezza condivide la
visione profondamente deformata e dolorosa del reale, la
compartecipazione alla sofferenza degli oppressi, ma soprattutto il
sentimento di mostruosità della condizione dello scrittore in un
mondo che «va diventando – o ritornando naturale e muto, salvo il
gran rumore del niente». Anche Bellezza si sentiva «una bestia che
parla», proprio come la verdastra protagonista del romanzo L’Iguana
(1965), l’esempio più brillante dell’inclassificabile
sperimentalismo ortesiano e in assoluto uno dei capolavori della
letteratura italiana del secolo scorso, che il poeta – morto di
Aids nel 1996 – volle sepolto con sé.
Il ritratto di Anna Maria
Ortese che emerge dal carteggio è quello di uno scrittore in lotta
con la parola («in certi giorni, la parola salta, scompare proprio
fisicamente»), alle prese con difficoltà esistenziali ed economiche
che solo il sussidio Bacchelli, ottenuto proprio su interessamento di
Bellezza e di altri intellettuali riuscirà in parte ad alleviare
prima del successo inaspettatto de Il cardillo addolorato (1993),
che farà della scrittrice ormai ottantenne un caso letterario
internazionale. In un universo abitato da apparizioni e visioni, il
mondo di una «zingara assorta in sogno», come ebbe a dire Italo
Calvino, scrivere per Ortese «è essere reali» e leggere diventa un
modo per intensificare questo senso di realtà altrimenti sempre
sfuggente. Lo mostrano proprio gli scritti giornalistici di Da
Moby Dick all’Orsa Bianca (Adelphi, pp. 187, euro 13) dedicati
ad altri grandi scrittori e pubblicati tra il 1939 e il 1994 su
giornali e riviste: «leggere una pagina di Cecov (sic), è come
mettere l’occhio su un vetro nitidissimo e guardare scorrere la
vita».
Per questa lettrice, che
nella sua postfazione Monica Farnetti rovesciando il titolo di una
celebre raccolta di saggi di Virginia Woolf, definisce una uncommon
reader, la letteratura è un modo di vedere la vita da
un’angolazione totalmente altra, e allo stesso tempo «un’esigenza
di verità, di resistenza al male, dovunque esso sia», come scrive a
proposito del Diario di Anna Frank.
Attraverso una scrittura
sorprendente, che nulla ha a che vedere con quella della critica
letteraria cui siamo oggi abituati, ma che si fa a sua volta vibrante
accadimento di letteratura, Ortese ci parla di quelli che considera
fratelli e sorelle maggiori: tra questi Elsa Morante, che come lei ha
creduto nella «inesistenza», Leopardi «che intese e sofferse tutte
le nostre disperazioni», ma soprattutto scrittori stranieri come
Thomas Mann ed Ernest Hemingway, «un pezzo di mare e di vento, un
pezzo di cielo, e una fitta di sole», cui è dedicato un commuovente
e insieme vitalissimo ricordo in occasione della sua morte.
Da lettrice davvero poco
comune, se non unica, Ortese non ci invita tanto al rispetto per la
grande letteratura, ma ci mostra come attraverso di essa ci si possa
educare alla libertà del pensiero.
“il manifesto”, 11
ottobre 2011
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