L'articolo per il centenario di Bruno qui riportato consta di due parti.
Nella prima Burgio polemizza contro la superficialità delle commemorazioni e lamenta l'assenza di un "uso politico alto" del pensatore. Cita tra l'altro un grande corsivo di Togliatti e lamenta che nessuno lo avesse ripreso per l'occasione. In verità un'ampia citazione c'era su "micropolis" di dicembre 1999, proprio alla vigilia del centenario, in una rubrica che non a caso si chiamava (e si chiama) La battaglia delle idee con la mia firma. Ma non è detto che un assiduo collaboratore del "manifesto", come Burgio, poi ne legga anche i supplementi regionali.
La seconda parte dell'articolo lamenta una sterile polemica tra il filologico e il deontologico. Mi pare che Burgio abbia tutte le ragioni dalla sua. (S.L.L.)
Non sarebbe stato male
se, nell'anniversario del rogo di Campo dei Fiori, qualcuno si fosse
ricordato di quel micidiale corsivo di Togliatti rivolto a monsignor
Olgiati dalle colonne di «Rinascita» cinquantanni fa. Giordano
Bruno vi era definito, con vibrante passione, «padre» del popolo
italiano, simbolo di libertà e di intransigente coerenza anche per
quanti nulla conoscono del suo pensiero. Erano altri tempi,
ovviamente. Non solo per il diverso atteggiamento delle gerarchie
ecclesiastiche, oggi finalmente disposte a un primo timido
ripensamento critico del proprio passato. Ma anche, soprattutto, per
la sopravvenuta indifferenza della cultura «laica» di questo paese,
in tutt'altre faccende affaccendata. Quelle pagine restano comunque
un insegnamento, fulminanti nella loro concisione, irriverenti,
maramalde, giocose come il tema stesso richiedeva. «Monsignore
egregio, veramente Ella ha fatto troppo onore alla rivista ch'io
dirigo e alla mia persona modesta». Quindi giù colpi di fioretto e
di sciabola, che, a ripensare al povero Olgiati, accade persino di
provare un moto di solidarietà.
«Rilegga a mente calma e
sensi riposati, e ci rifletta». A che cosa? Al fatto che Giordano
Bruno effettivamente è tra quanti «hanno aperto la strada» del
mondo moderno. Per ciò che disse, intanto (l'idea) che nessuna
autorità umana o divina abbia titolo per interdire la ricerca del
vero; quindi la convinzione che la scissione tra materia e forma sia
uno schema astratto, un impedimento alla comprensione dell'unità
reale del mondo e del suo continuo mutamento); per il modo e la
passione con cui lo disse, soprattutto, scegliendo di morire
(«martire della filosofia» lo definirà Hegel) pur di non rinnegare
le proprie convinzioni. E qui Togliatti non badava a spese. «Di lì
siamo passati e non potevamo non passare, perché di lì è passata
la ragione umana». Rifiuto dell'autorità e delle consuetudini,
entusiasmo dionisiaco per l'avventura intellettuale, sentimento
incoercibile della dignità del vivente, passione per il nuovo e per
la ricerca della verità: «Celebriamolo, dunque: egli è uno dei
nostri padri e ogni volta che a lui ritorneremo, più forte e meglio
sentiremo quanto gli dobbiamo».
Altri tempi davvero.
Quest'anniversario non sta passando invano, sia ben chiaro. Sono
stati organizzati convegni, spettacoli, concerti e una importante
mostra documentaria; hanno visto la luce o saranno presto pubblicati
testi critici e biografie ed edizioni bruniane di notevole rilevanza.
Ma è un fatto che proprio l'uso politico dell'opera e della figura
di Bruno è sin qui mancato, quell'uso politico alto che, almeno in
questo caso specifico, coincide con la messa a valore di una eredità
e con il suo non archeologico riconoscimento. In compenso non sono
mancate dispute e polemiche, delle quali in verità non si avvertiva
il bisogno. In particolare il dibattito si è acceso, raggiungendo
toni arroventati, intorno al «Meridiano» che raccoglie e commenta,
a cura di Michele Ciliberto, i Dialoghi filosofìci italiani...
Ciliberto è stato
accusato di essersi indebitamente appropriato del testo critico
stabilito da un altro illustre brunista, Giovanni Aquilecchia. La
tesi a sostegno dell'accusa è, all'apparenza, lineare e potente.
Aquilecchia non ha dato l'assenso alla pubblicazione del testo; la
Mondadori ha proceduto nonostante il rifiuto: legittima dunque l'ira,
sembra di poter concludere, e legittima anche l'imputazione, se non
nei toni (si è parlato di «pirateria legale», di «mal dissimulate
scorciatoie», persino di «filologia da fast food), certo
nella sostanza.
Se la disputa si fosse
fermata alla polemica giornalistica senza varcare la soglia delle
corti di giustizia, non per questo - verrebbe da pensare - la colpa è
meno grave: chi considererebbe con simpatia l'autore di un plagio,
colui che si impossessa con disinvoltura - così si è detto - del
frutto di un «lavoro di ricerca semisecolare»?
Un veto violato, questa
dunque la colpa. Ma un veto da chi posto? E perché? E poi: un veto
possibile? Un veto consueto? Lasciamo andare il fatto - che pur conta
- che il curatore di una edizione divulgativa (in questo caso
Ciliberto) non può essere tenuto responsabile delle relazioni che il
suo editore (qui la Mondadori) intrattiene con altri in tema di
diritti d'autore. Compito suo è scegliere il testo filologicamente
più attendibile; dire da che mani proviene (e Ciliberto questo fa,
dichiarando di avere «scelto come testo di riferimento l'edizione
dei dialoghi italiani curata da Giovanni Aquilecchia» presso le
Belles Lettres); quindi offrirlo al pubblico aggiungendovi
quanto ritiene utile - introduzione, commento, indici, bibliografia -
a una sua più agevole lettura. E tuttavia - si dirà (si è detto) -
Ciliberto sapeva della non disponibilità di un altro studioso a
concedere il testo: perché non ne ha tenuto conto?
Qui sta evidentemente il
nodo, e l'unico punto d'interesse della disputa, di per sé alquanto
malinconica. Non so se chi, nell'ultimo quarto di secolo, ha
pubblicato in toto o in antologia i Quaderni di Gramsci, abbia
ogni volta bussato alla porta di Gerratana, a impetrarne il consenso.
Ma, almeno per quanto riguarda la mia esperienza diretta, che quando
capitò a me di curare un'edizione commentata di Beccarla (Dei
delitti e delle pene), la mia preoccupazione fu d'indicare la
fonte critica del testo (l'edizione Francioni, nella fattispecie),
non certo di aprire una contrattazione. La quale avrebbe avuto
d'altronde un ben curioso aspetto, giacché avrebbe conferito al
filologo una paternità (e proprietà) del testo che, se le parole
hanno un senso, riguarda solo chi il testo ha concepito e scritto,
non quanti vi hanno successivamente lavorato al fine di restituirlo
alla forma originaria. E del resto, vorrà pur dir qualcosa che una
polemica come questa divampata intorno al «Meridiano» di Bruno non
abbia precedenti. Delle due l'una: o in passato vigeva un diverso
grado di liberalità, del cui desolante eclissarsi l'odierna polemica
è segno o ci si è
sin qui sempre regolati
in altro modo, ritenendo che ufficio delle edizioni critiche sia
proprio offrire una base testuale certa al lavoro di diffusione dei
testi e della cultura.
Ma basta così. Altro che
padri e martiri ed eroi del nuovo! I tempi ci regalano un'aggressione
di inconsulta violenza (si è gridato allo scandalo, si è parlato di
immoralità e di truffa) perché si sono pubblicati testi bruniani in
una edizione di enorme tiratura che l'eretico frate non avrebbe mai
immaginato (pare si siano vendute già settemila copie dei Dialoghi,
e chissà che non sia proprio questa una chiave della lite). Meglio
tornare a Togliatti e al buon Olgiati, che per lo meno si urtavano
per nobili ragioni. «La parte avanzata del popolo, non vi è dubbio,
ha fatto suo Giordano Bruno, anche senza nulla sapere del suo
pensiero, ma solo conoscendo il martirio che voi gli avete inflitto»,
scriveva implacabile il primo. Inducendo forse, nel secondo, un
dubbio sulla opportunità di fiamme che spensero una vita per
accendere un mito di inesausta potenza.
"il manifesto", 29 giugno 2000
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