Il testo che segue,
pubblicato con il titolo Modernismo: critico, dunque sono è
una recensione al volume di Romano Luperini Tramonto e resistenza
della critica, da pochissimo pubblicato per Quodlibet nel 2013.
Il libro è da leggere, se non altro da insegnanti e appassionati di
belle lettere. Le domande che propone l’articolo, oltre che un
avvio alla lettura, rappresentano ottimamente interrogativi di fondo
della cosiddetta cultura umanistica in questo passaggio storico.
(S.L.L.)
Esiste ancora la critica
letteraria? Non mi riferisco all'esercizio funzionale a superare,
secondo recenti disposizioni ministeriali, le cosiddette “mediane”
incaricate di santificare l'abilitazione all'insegnamento
universitario delle discipline letterarie. Esercizio privo di
un'udienza “reale” che non sia quella coatta (studenti,
commissari, valutatori di ogni sorta), obbligata cioè per ufficio
istituzionale, a percepirne, talora a pesarne, lo spessore culturale
minimo o massimo che sia. Intendo piuttosto la saggistica che, attiva
fino a qualche decennio fa, attraverso l'indagine su figure e vicende
della grande letteratura sollecitava idee e dibattiti culturali e
politici nella società civile.
Tali riflessioni
scaturiscono, inevitabili, leggendo l'ultimo libro di un veterano
dell'ermeneutica applicata ai testi letterari, Romano Luperini. Il
titolo eloquentissimo, Tramonto e resistenza della critica
(Quodlibet, Studio), prende atto da un lato dall'irrevocabile eclissi
del mandato sociale di quelli che oggi si definiscono “lavoratori
della conoscenza”; dall'altro ribadisce con altrettanta lucida
consapevolezza, l'imprescindibile urgenza di capire le ragioni di
quel declino. E insieme di rintracciare dentro le rovine della
condizione intellettuale, nella stagione del web, nuove identità che
possano restituire senso all'operatività critica.
Insomma il deprofundis
per quella, un tempo assai fervida e pugnace, forma di comunicazione
ormai sostituita dall'istantaneità giornalistica,
dall'intrattenimento televisivo, dalla effimera spettacolarità
dell'evento, per stare all'ambito accademico, dell'arroccamento
neotradizionalista su un'asfittica erudizione microfilologica. Che
non può equivalere alla mesta deprecazione del presente, o a
“nuotare nel fiume del tempo, tenendo continuamente rivolta
indietro la testa, verso la lontana sorgente azzurra del passato”,
secondo quanto proclamava cento anni fa l'inventore del futurismo,
Filippo Tommaso Marinetti. Il congedo dal compito di mediazione
culturale è opportuno declinarlo sulla tenace persistenza che la
cultura sia un “bene comune” e dunque abbia una intrinseca,
genetica, dimensione politica, riguardante l'esistenza e
l'immaginario di tutti.
Luperini, protagonista
per quasi dieci lustri, di tante energiche battaglie in difesa della
letteratura e del suo insegnamento di fronte alla “dissoluzione
della scuola e della università e della stessa civiltà italiana
(ma, in una certa misura anche europea)” è cauto a farsi illusioni
almeno sul “breve e medio periodo”. Eppure, libero da schemi
preconcetti, continua a mettere in gioco la sua carta, fiducioso che
qualcosa di fruttuosamente nuovo si muova.
Il libro è diviso in due
parti: la prima rilancia la lezione di grandi maestri come Adorno,
Benjamin, Auerbach, Said. Di quest'ultimo in particolare Luperini
sottolinea l'attenzione dedicata alla marginalità dell'intellettuale
come figurazione rappresentativa di tutte le marginalità inscenate
dalla globalizzazione in atto. Nella seconda parte, dedicata
all'esame di temi, opere e quadri storici della letteratura mondiale
fra Ottocento e Novecento, si propone l'impiego produttivo del temine
“modernismo”, sinora in uso in area anglosassone, per definire la
letteratura più innovativa dei primi decenni del ventesimo secolo.
Le pagine conclusive interrogano una questione cruciale, “il
ritorno alla realtà” dopo la fine del postmodernismo.
Luperini non ha smesso di
credere alla realtà, alla dura materia del mondo, anche quando
imperavano i teorici della derealizzazione, impegnati ad attribuire
maggior valore del pensiero sulle cose che alle cose stesse.
Un'operazione equivoca, tuttavia, avverte l'autore è quella di
scambiare come forme di realismo gli stereotipati format di
realtà che sono i reality show. La tendenza realistica
riaffiora, invece, con inedita efficacia espressiva, in alcuni
significativi romanzi americani come Underworld di DeLillo,
transfuga del postmoderno, e in alcune agghiaccianti opere italiane,
su cui spicca Gomorra di Saviano con la sua spuria,
ipermoderna epicità.
Il Mattino, 17 gennaio
2014
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