Dino Campana |
Non abbiamo grazia
abbastanza per compensare la grazia dei poeti che ci lasciano varcare
la soglia del proprio laboratorio. Perché l’officina alchemica dei
poeti è la loro stessa animacorpo. Lì è dove essi compiono il
miracolo di rifare il mondo con le parole. Leggere dunque che una
figura totemica come Andrea Zanzotto si sia accostata con
circospezione a Dino Campana, come se Campana incarnasse un principio
di fuoco e dissonanza, è cosa che fa spazio nel nostro cuore, perché
conferma che i poeti mantengono vivo il sentimento del mito e del
«timore». Non della idolatria, non del divismo, bensì del mito
greco, quello radicale, che ha espresso incomparabilmente e una volta
per tutte le immutabili fondamenta umane.
Nella terra di Euripide
il pubblico assisteva alla messa in scena dei propri istinti, non
solo i più incivili ma anche quelli apparentemente più innaturali,
quali quelli di una madre tragica che arrivava a uccidere i propri
figli per causa di strazio d’amore. Anzi, peggio: per causa di
vendetta d’amore. Forse così, osservando fuori di sé la propria
anima nuda, anzi che la ferocia del proprio giudizio morale si poteva
produrre una qualche affinità, una qualche compassione, un qualche
commosso perdono, contemporaneo a quello che si dava a chi stava
soffrendo sulla scena: un poeta aveva preso in carico il nostro
inconfessabile segreto e lo stava ponendo sotto i nostri occhi. Lo
strazio, il desiderio sono comuni. Le sue parole, il nostro
salvacondotto. Ma l’azione la simula un altro, che occupa il posto
del nostro dolore. E così io mi sento provvisoriamente salvo.
Oggi abbiamo i tabù
della morte, che rendono ipertrofica e dunque inefficace
l’esposizione della morte. E abbiamo le dimensioni esangui della
televisione. E una rete invisibile nella quale gettare una quantità
istantanea di parole così abbondante da annullarle tutte. Abbiamo
l’ambizione e dunque la solitudine. Vorremmo tutti essere un io che
agisce sotto gli occhi di tutti. Ed ecco l’esemplarità di Zanzotto
che si accosta a Campana – stampo, secondo lui, della più nobile
follia italiana novecentesca, come ricorda Niva Lorenzini nella sua
bella e onesta postfazione al volume (Andrea Zanzotto, Il mio
Campana, a cura di Francesco Carbognin, Clueb, 2011) – con il
rispetto che si deve a un portatore di segreti. Ecco ancora un uomo
che racconta di un io che si sottrae dalla scena mondana e, sebbene
bambino già percosso dalla nota «inappartenenza» dei poeti, ubiquo
al pari di Hölderlin rispetto al mondo, cerca la solitudine boschiva
per trovare nell’autosufficienza del paesaggio le voci degli
immortali. Quello del quale riferisce Zanzotto è un isolamento
ontologico, opposto a quello identitario che Massimo Raffaeli così
acutamente dice: quanto all’identità, mi fa venire in mente la
radice greca che la connette all’«idiozia», cioè allo stato di
minorità politica.
Dalla solitudine dei
poeti emana infatti una voce collettiva, politica, ovvero aperta alla
dimensione pubblica, civica; ancora di più, con Jean Cocteau: una
voce umana. Più volte ho riflettuto sulla differenza tra anima e
psiche e ho finito per considerare «psiche» la superficie, la
confezione sociale dell’anima, la mera somma dei comportamenti,
mentre chiamerei «anima» quanto di immutabile in noi, le
caratteristiche con le quali abbiamo aperto gli occhi la prima volta
e che nessuno degli eventi nei quali siamo incorsi ha potuto
modificare. Ovvio azzardare che la voce dei poeti parli da questo
nucleo immutabile e allo stesso nucleo, custodito negli altri, si
rivolga – e che esso sia un nucleo comune, una scarna serie di
elementi umani collettivi. Riflettendo intorno a riflessioni simili,
in questo volumetto leggero leggero Zanzotto si prende il tempo per
affermare che c’è una quantità enorme di persone (specie tra
quelle che ci governano) catalogabili psichiatricamente.
Lo fa perché Campana lo
costringe a parlare di «follia». Zanzotto ragazzo, ci dice Zanzotto
adulto, operò una incursione nello snodo cruciale poesia-follia
frequentando contemporaneamente Hölderlin, Rimbaud e Campana.
Rendendo conto di questa sua certa affinità col terribile, Zanzotto
arriva ad affermare che Campana ha il diritto di infischiarsene delle
regole e ha diritto a essere imperfetto, perché ciò che lo
necessita non è una comune simmetria, non è nemmeno il regolare
ardore metrico dei poeti, ma una urgenza che va lasciata esposta:
spuria e viva come un pesce fuor d’acqua. Dunque in Campana stanno
una libertà e una solitudine maggiori, un «io» maggiore. Campana è
stato altrove e, ritornando a singhiozzi presso di noi che abbiamo
eretto intorno alla nostra vita le rassicurazioni della norma, ci
dice – anzi, ci scrive cos’ha visto. Le parole sono il
salvacondotto di Campana, come lo sono di Rosselli e di tanti altri
pionieri in contatto forse più continuo con le interferenze degli
immortali. Data questa lauta e cruciale premessa Zanzotto non poteva
che chiudere sostenendo che la poesia – questa non catalogata
divinità, questa stella che non avrebbe dovuto esserci – oggi
(siamo nell’oggi già abbastanza «odierno» del 2002, quando a
Zanzotto venne consegnato il premio Campana per Sovrimpressioni)
viene respinta nel margine attraverso la tecnica del
«riassorbimento», attraverso il sostenere, cioè, che tutto è
poesia, senza introdurre ulteriori, necessarie divisioni.
Ma la poesia alla quale
si riferiscono i poeti è questa conoscenza che si ottiene attraverso
le parole che sono costretti a scrivere da una cieca ossessione,
confessa Zanzotto. Non è il geyser di riconoscenza senza nome che ci
sgorga in petto quando vediamo la vita nel suo stato di semplicità,
né è il tramonto che ci tiene a bagno nel rosso di un sole enorme.
Quello è il sentimento, che sta prima delle parole e non deve
tradursi per forza in parola. La poesia è suscitare quel sole e quei
bambini attraverso il mezzo poverissimo delle parole, è parole che
risplendono chiare come quel sole e quei bambini e danno la stessa
calma certezza di finitudine che scavalca se stessa. Questo mi sembra
dire Zanzotto. Di questo Campana. Di questa immersione, della doppia
vista di un poeta lasciata al suo stato di ferita lampante. Della
attrazione verso una irrinunciabile rinuncia.
“il manifesto”, 9
ottobre 2011
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