24.1.15

Uguale o diverso? In causa contro la Monsanto (Paola Desai)

Jim Gerritsen
Un piccolo agricoltore americano contro il gigante Monsanto. E’ Jim Gerritsen, che coltiva una piccola proprietà a Bridgewater, località rurale del Maine, negli Stati uniti.Gerritsen è anche il presidente della organic Seeds Growers and Trade Association, Associazione dei coltivatori di sementi biologiche. E secondo la rivista “Utne Reader’s” è anche uno dei «utopisti che stanno cambiando il nostro mondo». Questo perché l’associazione che presiede, con il sostegno legale della public Patent Foundation (Fondazione per i brevetti pubblici) in marzo ha avviato una causa legale contro Monsanto, uno dei più possenti gruppi industriali dell’agrochimica e biotecnologie al mondo.
Alla causa lanciata dall’Associazione dei produttori di sementi biologiche si sono aggiunte in seguito altri 82 soggetti tra produttori e commercianti di sementi e piccoli agricoltori: i querelanti ora rappresentano oltre 270mile persone. La loro azione legale contesta la validità dei brevetti di Monsanto sui semi geneticamente modificati; inoltre vogliono cautelarsi da possibili azioni legali del gruppo industriale nel caso che i loro raccolti risultino contaminati dalle varietà transgeniche.
E’ una vecchia questione: Monsanto ha più volte fatto causa ad agricoltori che accusa di coltivare le sue varietà geneticamente modificate (e coperte da brevetto), senza pagare le dovute royalties.Ma in molti casi i coltivatori in questione non hanno affatto usato sementi Monsanto. Anzi, magari non volevano affatto usarle: il fatto è che i pollini volano, da una pianta transgenica vanno a fecondare una vicina pianta della corrispondente specie «non modificata»: è detta «impollinazione incrociata».
«Il punto di vista di Monsanto è che in questo caso noi abbiamo la loro tecnologia – anche se non la vogliamo e ha valore zero sul mercato del biologico», spiega Gerritsen al giornale “The Portland Press Herald”, del Maine: «Noi pensiamo invece che [Monsanto] deve trattenere il proprio inquinamento dal proprio lato della staccionata».
Per un coltivatore biologico, trovare nei propri campi specie transgeniche è un danno e una beffa. Infatti per definire «biologica» una coltivazione, oltre a evitare una lunga lista di pesticidi e input chimici, bisogna che non contenga organismi geneticamente modificati. Se non sarà certificato «biologico», il loro prodotto non può essere smerciato in quel mercato. Insomma: perdono il loro mercato, e per di più devono affrontare le ritorsioni legali del colosso agro-chimico.
I portavoce Monsanto ribattono che l’azienda non ha «mai fatto causa, e si è impegnata a non fare causa, ai coltivatori in caso di presenza inavvertita di tratti biotecnologici nei loro campi», quando questi tratti biotecologici si trovino nei loro campi «in conseguenza di atti non intenzionali». Di cause invece Monsanto ne ha intentate molte (una, quella contro il coltivatore di colza Percy Schmeiser, è rimasta famosa): tutto sta nelle parole «inavvertito», «non intenzionale», perché provare in tribunale che uno non intendeva coltivare sementi Monsanto richiede tempo e soldi per avvocati. Nel 2005 il Center for Food Safety, gruppo statunitense di sostegno all’agricoltura biologica e sostenibile, aveva contato ben 90 azioni legali mosse da Monsanto contro coltivatori americani. Così ora l’Associazione dei coltivatori biologici reagisce, e sfida i brevetti Monsanto in tribunale.
Dicono: quando rifiutano di etichettare i cibi transgenici, i produttori di piante geneticamente modificate dicono che sono «sostanzialmente equivalenti» a quelle tradizionali; ma quando chiedono il brevetto, dicono che i geni modificati creano una varietà nuova e unica. «Allora cos’è, uguale o diversa?». Gerritsen aggiunge: i produttori di sementi modificate pretendono di controllare il mercato, una concentrazione di potere e «avidità delle corporations» come quella contro cui si batte il movimento Occupy Wall Street - in cui spera molto.


“il manifesto”, 12 novembre 2011 – rubrica terra terra

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