C'è un paese della
nostra memoria collettiva — e inconscia — di cui il tempo, i
secoli non riescono a cancellare l'immagine. La attenuano, la
corrodono, ne rendono sbiaditi e opachi i colori come accade ai
capolavori morenti di certe grandi pitture sui muri delle antiche
chiese. Ma basta un guizzo, un'occasione di luce, l'aprirsi di una
fenditura improvvisa nella parete del giorno e delle abitudini, un
capriccio, insomma, o un crollo improvviso delle regole che
stabiliscono i ritmi del nostro faticoso aggiornamento
all'informazione — e anche al conformismo — di oggi, perché
quell'immagine rinasca dentro di noi, arcaica e affascinante, con
tutte le sue vernici miracolosamente fresche e vivide, in un odore di
stoffa, legno, mastice, olio da lumi.
E' infatti l'immagine di
un paese posticcio, costruito con materiali che fingono apparenze di
realtà. E quanto più quelle apparenze risultano false e in mezzo ad
esse guizzano, con effetti di calcolato artificio, figure illusorie,
antichi prototipi della sentimentalità e della buffoneria umane,
alcuni dei quali ad aumentare l'inganno celano a metà o per intero
il volto dietro una maschera, tanto più, cresce in noi lo
struggimento, un'oscura nostalgia per quel mondo inventato, per quel
paese collocato al sicuro, fuori dalla natura; e condensatosi quattro
secoli fa sui palchi issati nelle piazze dei mercati in mezzo al
popolo e nei freddi saloni dei palazzi principeschi, davanti
all'occhio vorace o ironico del potere.
Mondo enigmatico
E' il paese, lo si sarà
già capito, della Commedia dell'Arte. capitolo fondamentale, fonte
remota e tutta italiana del teatro moderno. Le chiavi — cioè gli
studi — per riaprire le porte di quel mondo così seducente ed
enigmatico, sono ormai innumerevoli; e dotte, intarsiate, eleganti,
guidano a ricche bibliografie, danno l'accesso a iconografie
preziose. Alcune di queste chiavi sono magari un po' più difficili
da manovrare; altre più dolci e scorrevoli, basterebbe citare
un'opera classica.
Il mondo di Arlecchino
di Alessandro Nicoli, che è un
vero e proprio romanzo-saggio della Commedia dell'Arte,
rapportata anche al mondo della drammarurgia elisabettiana, tant'è
vero che il capitolo primo è un singolare confronto tra i personaggi
di Amleto e di Arlecchino, che hanno almeno un anno in comune, quel
1601 in cui l'eroe di Shakespeare nacque sulla pagina e la maschera
italiana apparve per la prima volta in un ritratto databile.
C'è ora, ripubblicato
dopo tre secoli e mezzo e dunque a disposizione del pubblico più
vasto, non più recondita lettura riservata ai ricercatori, Il
Teatro delle Favole Rappresentative di Flaminto Scala, la prima
raccolta di scenari della Commedia dell'Arte apparsa a stampa nel
1611 a Venezia; e aveva per sottotitolo “La ricreazione comica,
boscareccia e tragica divisa in cinquanta giornate”. Distribuita in
due volumi dalle edizioni del Po-lifilo la ripubblicazione di
quest'opera fondamentale è un'iniziativa meritoria dell'Istituto del
Teatro dell'Università di Roma, diretto da Giovami Macchia. Ha
curato i testi e vi ha premesso un lungo e illuminante saggio (oltre
che una serie di appendici con documenti coevi agli scenari dello
Scala) Ferruccio Marotti.
Chi fu Flaminio Scala?
Un attore delle grandi compagnie dell'Artv, forse non dei più,
famosi (il suo nome in commedia era Flavio, come ruolo una specie di
secondo Innamorato) vissuto fra il 1547 e il 1621. Ma soprattutto
egli fu un testimone del periodo più splendido di quel teatro,
quando le compagnie dei Gelosi (la più illustre, quella di Francesco
e Isabella Andreini), degli Accesi, dei Desiosi, degli Uniti, dei
Fedeli, dei Confidenti (che egli diresse, più che sessantenne}
correvano per l'Italia e l'Europa, contese dalle Corti. «Dramaturg»
fecondissimo, inventore inesauribile oltre che adattatore e
collazionatore di trame, nella sua raccolta egli ci dà una specie di
affascinante cristallizzazione di quel mondo fantastico e di quella
cultura teatrale che erano in realtà in continuo movimento, metalli
ancora allo stadio fluido nel crogiuolo di un pianeta in formazione.
Giochi d'incastro
Allora noi possiamo di
quei metalli riconoscere le varie vene, prima che si fondano e si
solidifichino nella lega dello spettacolo: la vena rossa, tra
sulfurea e fegatosa, di Pantalone, il Magnifico, maschera che alterna
all'onesto bagliore di un'età attempata e cauta il torbido, ma
soprattutto il ridicolo, di cupidigie tardive: la vena nera e obesa,
m cui galleggia la bianca gorgiera pieghettata, gorgogitante di
borborigmi latini, del Dottore; la vena, che è piuttosto una
cascata, tumultuosa e fragorosa, dei servi; la vena color madreperla,
stilizzata e canora, degli Innamorati, gli Orazi, i Flavi, le
Isabelle, le Flaminie; il burbanzoso fumacchio-pennacchio spagnolesco
del Capitano, che poteva anche diventare uno degli Innamorati,
solitamente deluso.
Queste e altre molteplici
condensazioni fantastiche troviamo negli scenari dello Scala,
disposte in giochi d'incastro sempre diversi ma in modo che si
sviluppino ogni volta alcuni temi fondamentali: la sconfitta dei
vecchi in amore, non senza eruzioni di rabbiosa o disperata o
frustrata sensualità, in genere crudelmente e buffonescamente
punita; l'intrigo ghiotto e astuto dei servi che si alleano agli
innamorati, ma senza opporsi frontalmente ai vecchi, giocandoli per
vie oblique, eseguendone disastrosamente i comandi; le gelosie, gli
equivoci, i contrasti amorosi fra i giovani, sciolti poi nei
matrimoni finali cui spesso si aggiungono, in chiave comica e
d'allegra carnalità popolana, le nozze servili, di Arlecchino e
Pedralino e Burattino con Pasquella, Olivetta o Franceschina.
Ma ciò che fa il fascino
e l'interesse di queste pagine è proprio la loro essenza
drammaturgica, la loro struttura di traliccio, di canovaccio esteso,
tanto più ampio e particolareggiato e stilisticamente raffinato di
quella breve traccia o promemoria che i comici dell'arte trovavano
appuntata al retro d'una quinta e cui davano un'occhiata rapida, al
lume d'un lucignolo fumoso, prima d'entrare in scena.
E' come se anche noi ci
trovassimo al di là di quella quinta, a seguire da vicino (di
fianco) il nascere dell'improvvisazione, sulla scorta di precisi
suggerimenti, di guizzanti ipotesi che prefigurano figurano parola e
gesto. Gli scenari dello Scala, infatti, programmano l'intera linea
dello spettacolo, modulano l'arco della battuta senza comporne le
frasi, semplicemente elencandone gli argomenti, danno via libera al
lazzo, ma minuziosamente lo descrivono, scoprendone la specificità
tecnica, il rigore professionistico. Sono quadranti d'orologio su
cui la lancetta del tempo drammaturgico procede secondo vari ritmi,
ora lenti e patetici, ora rapidi e clowneschi, regolando così
l'estro inventi vo degli interpreti.
Allora attraverso la
pagina (poiché vi si descrivono azioni, non vi si concertano
dialoghi; « e le commedie», scrive lo Scala, «nell'azzioni
consistono propriamente et in sustanzia, e nelle narrazioni per
accidente» e «gli affetti si muovono più agevolmente dai gesti
che dalle parole») noi soprat£ tutto vediamo. E l'enorme materiale
fantastico che questi meccanismi (mossi a "mano, si vorrebbe
dire, o a fiato; e come lubrificati da un secolare sudore istrionico)
ci si dispone davanti in una prospettiva emblematica, riassuntiva e
insieme anticipatrice di secoli di teatro,
II barbaglio del
romanzesco scocca bianco nella Pazzia d'Isabella, uno degli
scenari più famosi, che faceva delirare le corti e le piazze intorno
al bel torso nudo della protagonista che si stracciava «tutte le
vestimenta d'attorno» e andava gridando che «ho veduto l'arcobaleno
far un seviziale all'isola d'Inghilterra, che non poteva
pisciare». La teatralità di cui è sempre carica la mimesi della
follia liberava e faceva scoppiare la buffonerìa dell'osceno mentre
fissava in mosaici allibiti, fra comici e lividi, il flusso dei
non-sense: «come piacque al suo fatal destino quella poveretta
dell'Orsa Maggiore si calzò gli stivali d'Ortofilace et andò a
pigliar ostreghe e cappe longhe nel golfo di Laiazzo, in ver Soria,
che la cosa sia o non sia, sia voga, voga sia, e sia col malanno che
Dio vi dia». Così straparla un'altra forsennata, la principessa
Alvira, in una delle opere «reali, pastorali e tragiche» che, a
seguito dei quaranta canovacci per commedie, concludono la raccolta.
Qui già siamo al
meraviglioso, all'enfasi e alla macchineria della scena barocca. Gli
oggetti, cioè le «robbe per la tragedia» o per «l'opera»,
diventano fantastici, esotici o appartengono al repertorio
astronomico e nautico: «una luna finta che tramonti» e «apparisca
tutta macchiata di sangue», «una bellissima nave», «un
terramoto», «quattro abiti da spiriti», «una cappa marina che
nasca», «verga e libro per lo mago».
Luna finta
In mezzo a questa
patetica rigatteria dell'immaginazione compaiono talvolta timidamente
una Flaminia e un Orazio ma in genere gli Innamorati hanno cambiato
nome. Resistono le maschere; meno Pantalone, che può essere un ricco
possidente in Arcadia o un ambasciatore di qualche re; sempre
Arlecchino, magari camuffato da pastore o trasformato in gru
selvatica per via d'incanti, a punizione della sua malalingua.
C'è poi la questione di
fondo che fa l'importanza della ricomparsa di questo libro, a oltre
tre secoli dalla sua prima pubblicazione, in un momento di radicale
rianalisi dell'identità stessa del fenomeno teatrale. Cosa sono gli
scenari di Flaminio Scala, commedie autosufficienti nello spazio
della pagina, o notazioni su spettacoli perduti? Certo, una
rivalutazione della Commedia dell'Arte come metodologia di
palcoscenico e chiave per l'invenzione di una nuova drammaturgia,
anche se è un fenomeno ricorrente nella evoluzione dello spettacolo
in questo secolo, si inserisce con naturalezza nell'attuale fase
degli studi sul teatro e anche nel suo momento operativo, nel fervore
di ricerca e di laboratorio che investe tutti i teatranti più
attenti. Basta pensare ai risultati ottenuti su questa strada,
proprio risuscitando le maschere dell'antica Commedia, da Ariane
Mnouchkine con il suo Théàtre du Soleil.
Questi scenari, i più
elaborati e complessi fra quanti sono arrivati fino a noi, possono
essere paragonati, come scrive il Marotti, a delle partiture di
spettacoli, dove tutti i materiali espressivi, gesto, scena, azione e
anche, ma sì, la parola, figurano con un loro segno, anche se
approssimativo; mentre invece il testo scritto della commedia ci
restituirebbe fedelmente solo l'involucro verbale dello spettacolo,
dunque una sola delle sue componenti. E' vero. Ciò non toglie che se
leggo La Mandragola, tale è la forza rappresentativa di quei
dialoghi, che vedo comunque uno spettacolo; interiore, personale e
dunque variabile, ma uno spettacolo. E non avviene anche con questi
scenari? Non deve il lettore aggiungerci il contributo della, propria
immaginazione? Il fatto è che essi possono servire da modelli per
una ricerca di espressività totale dell'attore. Qui sta il senso —
e il fascino — della loro inquietante presenza nel laboratorio del
teatro moderno.
“Corriere della Sera”,
26 aprile 1977
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