Non poteva che finire
così il maledetto 1917, l'anno della suprema stanchezza dei nostri
soldati, dell' angoscia per una guerra sempre più incomprensibile,
senza fine, impantanata nello spazio breve e immenso delle Alpi
orientali, dell'estremo Veneto, del Friuli. La febbre
dell'ammutinamento, sommosse politiche e sociali nelle retrovie (i
morti per il pane a Torino, le notizie dalla lontana Russia divenuta,
a febbraio, una repubblica), l'attesa della pace covando odio e
disperazione. Anche questo era il clima del terzo autunno di guerra,
questa l'aria che respiravano i soldati della Seconda Armata
attestata sull'Isonzo che alle prime, incerte luci dell'alba del 24
ottobre, furono investiti da un bombardamento breve ma di
un'intensità eccezionale. Poi il silenzio in una nebbia fittissima;
un muro piovigginoso, chiuso su Tolmino, Plezzo e Caporetto che forse
salvò la vita a migliaia di soldati italiani; il nemico aveva
infatti rinunziato ai gas asfissianti, la nebbia non li avrebbe fatti
disperdere nell' atmosfera. Ma le dense nubi stagnanti permisero alle
divisioni tedesche e austriache di affondare tranquillamente per
tutta la mattina nelle nostre linee fino a confondersi con le truppe
italiane colte di sorpresa. Iniziava così, a Caporetto, la
spedizione punitiva austro-tedesca che sarebbe durata fino al 2
dicembre provocando, come scrisse lo storiografo ufficiale dello
Stato Maggiore, Angelo Gatti, uno dei più improvvisi e vasti
disfacimenti di eserciti che ricordi la storia.
Da quel momento iniziava
la ritirata italiana, la fuga inebetita di migliaia di soldati e di
reparti che il generale Cadorna si affrettò a chiamare (in un
bollettino che non si ebbe però il coraggio di pubblicare
integralmente) vili; una ritirata che il ministro della guerra
Vittorio Alfieri così descriverà alla Camera dei deputati riunita,
ai primi di dicembre, in comitato segreto: “Era una folla, non
indisciplinata, ma soprattutto incosciente, dimentica del passato,
noncurante dell'avvenire, che collo sguardo atono moveva per le
grandi strade, senza sapere né dove andasse né perché. Chi ha
veduto quelle colonne non le dimenticherà mai! Invano si cercava in
quegli occhi un lampo di vita, invano un sintomo di coscienza, fosse
pure quella del ribelle!”.
Un linguaggio più
sfumato di quello di Cadorna, ma medesimo il giudizio.
Riapro il diario di mio
padre, testimone fra tanti della rotta di Caporetto, per cogliere un
frammento più umano delle primissime ore di sbalordimento:“Passano
soldati, curvi, con i loro elmetti, i fucili a bilanciarm, altri con
bidoni d' acqua. Ritornano alcuni feriti... non si lagnano, sono
belve, il viso contratto, pallidi, tremanti, nervosi, indifferenti,
come se quel pandemonio non li riguardasse. E l'inferno ci avvolge!
Uno squillo di tromba ci scuote; è il segnale stabilito nel caso il
nemico facesse uso di gas. Subito fuoco alla paglia e, mano alle
maschere, tappiamo il naso e la bocca! Guardiamo da dove viene, è
solo una nuvola, qualche bombola... Sono le 15”.
Di fronte a quel che
rappresenta Caporetto è difficile chiedere allo storico un giudizio
perentorio, anche perché da quella disfatta, che apparve allora
irrimediabile, si giunse un anno dopo (grazie anche, bisogna dirlo,
all' immediato accorrere in nostro aiuto di undici divisioni francesi
e inglesi) alla vittoria. Ma nessuno storico può negare che nei mesi
successivi a Caporetto fu persa l'ultima occasione per riflettere
finalmente sulla guerra e sulle richieste di giustizia, di democrazia
e di libertà che il 1917 aveva visto levarsi dappertutto e che erano
serpeggiate anche tra i nostri soldati. Caporetto fu molto più di
una grave crisi militare. Anzi, il crollo rivelò una vasta crisi
politica e sociale, sempre occultata e negata, maturata nel seno
stesso della guerra e tra i milioni di italiani in divisa che per la
prima volta nella storia dell' Italia unita si incontrarono tra loro
cercando di capire qualcosa del loro paese, una crisi che deflagrerà
nel dopoguerra coinvolgendo tutta la nazione.
Il primo segnale si ebbe
quasi subito, alla fine del 1917, durante uno dei comitati segreti
della Camera. Alla richiesta pressante dei deputati della sinistra di
individuare le responsabilità politiche e militari della rotta di
Caporetto, di informare l'opinione pubblica e di promuovere una
inchiesta parlamentare, la risposta fu la costituzione di un fascio
di difesa nazionale, appoggiato dal governo e sottoscritto da 158
deputati liberali e conservatori. L'iniziativa del fascio fu esaltata
(quanto è strana e contraddittoria la storia italiana) da Giovanni
Amendola; secondo le sue parole il fascio avrebbe bloccato, insieme a
quella richiesta, l'azione disfattista dei socialisti.
Da quel momento la
sinistra e il movimento operaio divenivano il nemico interno
(l'espressione fu coniata allora) da sconfiggere alla stessa stregua
di quello esterno. Una tesi che, nel dicembre dello stesso anno, ebbe
anche l'autorevole avallo culturale di un appello patriottico
anti-socialista firmato da ottanta professori dell' Università di
Roma. E questo avveniva non nelle ore febbrili della rotta, quando in
verità un brivido di paura percorse l' Italia e si temette di veder
apparire a Roma, da un momento all'altro, le avanguardie dell'armata
del generale Otto von Below. Evidentemente non c'erano altri e
migliori argomenti per rianimare la resistenza delle nostre truppe,
che d'altro canto già ai primi di dicembre si erano attestate sulla
riva destra del Piave su una linea lunghissima dai monti al mare,
attraverso la pianura padana fino a Venezia.
Con l'inquietante teoria
dei nemici interni si cercava in definitiva di dare una motivazione
ideologica alla necessità della ripresa militare. Certo, anche
sull'Italia incombeva l'ombra allarmante della Rivoluzione d'
ottobre. Ma in che chiave leggere, ad esempio, quanto il 10 novembre
scriveva nel suo diario un membro del governo, l' industriale Silvio
Crespi? La situazione alimentare è disastrosa. Nelle Calabrie non
c'è più pane da quindici giorni. Da tutti i prefetti giungono
telegrammi che chiedono farina per pane. Alcuni fanno balenare il
pericolo di una rivoluzione. Rispondo che chiederò l'applicazione
della legge marziale ovunque si accenni a rivoluzione. Chi scriveva
così non era il ministro dell'Interno o il capo della polizia, ma il
Commissario degli approvvigionamenti e consumi, cioè colui che più
di ogni altro avrebbe dovuto comprendere le ragioni del malessere
sociale che la guerra aveva acuito. Ma l'industriale, l'uomo di
governo, l'ideologo liberale si erano fusi perfettamente. La rotta di
Caporetto fu dunque soprattutto uno spartiacque politico. Sappiamo
bene quanti rivolgimenti provocò quella guerra in Europa e nel
mondo, e non vogliamo ingigantire la memorabile disfatta italiana. E'
un fatto però che la nostra borghesia liberale, che nel primo
decennio del Novecento aveva mostrato in alcuni settori della
cultura, dell'industria e della politica attenzione e sensibilità
per i problemi civili e sociali del paese, dopo Caporetto è come
chiusa in se stessa, in una patriottica grande paura, spegnendo in
tal modo ogni illusione su una sua capacità di evoluzione e facendo
della vittoria del 1918 il risvolto delle radiose giornate
interventiste del maggio 1915.
Con la differenza però
che mentre nel 1915 gli schieramenti contrapposti erano stati quelli
tra i neutralisti e gli interventisti (e all'uno o all'altro
appartenevano indifferentemente conservatori e progressisti), nel
1918 la contrapposizione sarà più sottile e si preciseranno meglio
i ruoli e i precisi confini di classe. La reazione a Caporetto fu,
insomma, una riscossa conservatrice che si confuse con la riscossa
militare lungo il Piave, e servì a unificare finalmente gli italiani
benpensanti nel rifiuto di una temibile democrazia.
“la Repubblica”, 21
ottobre 1987
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