5.1.15

Caporetto. L'ora dei vili (Lucio Villari)

Non poteva che finire così il maledetto 1917, l'anno della suprema stanchezza dei nostri soldati, dell' angoscia per una guerra sempre più incomprensibile, senza fine, impantanata nello spazio breve e immenso delle Alpi orientali, dell'estremo Veneto, del Friuli. La febbre dell'ammutinamento, sommosse politiche e sociali nelle retrovie (i morti per il pane a Torino, le notizie dalla lontana Russia divenuta, a febbraio, una repubblica), l'attesa della pace covando odio e disperazione. Anche questo era il clima del terzo autunno di guerra, questa l'aria che respiravano i soldati della Seconda Armata attestata sull'Isonzo che alle prime, incerte luci dell'alba del 24 ottobre, furono investiti da un bombardamento breve ma di un'intensità eccezionale. Poi il silenzio in una nebbia fittissima; un muro piovigginoso, chiuso su Tolmino, Plezzo e Caporetto che forse salvò la vita a migliaia di soldati italiani; il nemico aveva infatti rinunziato ai gas asfissianti, la nebbia non li avrebbe fatti disperdere nell' atmosfera. Ma le dense nubi stagnanti permisero alle divisioni tedesche e austriache di affondare tranquillamente per tutta la mattina nelle nostre linee fino a confondersi con le truppe italiane colte di sorpresa. Iniziava così, a Caporetto, la spedizione punitiva austro-tedesca che sarebbe durata fino al 2 dicembre provocando, come scrisse lo storiografo ufficiale dello Stato Maggiore, Angelo Gatti, uno dei più improvvisi e vasti disfacimenti di eserciti che ricordi la storia.
Da quel momento iniziava la ritirata italiana, la fuga inebetita di migliaia di soldati e di reparti che il generale Cadorna si affrettò a chiamare (in un bollettino che non si ebbe però il coraggio di pubblicare integralmente) vili; una ritirata che il ministro della guerra Vittorio Alfieri così descriverà alla Camera dei deputati riunita, ai primi di dicembre, in comitato segreto: “Era una folla, non indisciplinata, ma soprattutto incosciente, dimentica del passato, noncurante dell'avvenire, che collo sguardo atono moveva per le grandi strade, senza sapere né dove andasse né perché. Chi ha veduto quelle colonne non le dimenticherà mai! Invano si cercava in quegli occhi un lampo di vita, invano un sintomo di coscienza, fosse pure quella del ribelle!”.
Un linguaggio più sfumato di quello di Cadorna, ma medesimo il giudizio.
Riapro il diario di mio padre, testimone fra tanti della rotta di Caporetto, per cogliere un frammento più umano delle primissime ore di sbalordimento:“Passano soldati, curvi, con i loro elmetti, i fucili a bilanciarm, altri con bidoni d' acqua. Ritornano alcuni feriti... non si lagnano, sono belve, il viso contratto, pallidi, tremanti, nervosi, indifferenti, come se quel pandemonio non li riguardasse. E l'inferno ci avvolge! Uno squillo di tromba ci scuote; è il segnale stabilito nel caso il nemico facesse uso di gas. Subito fuoco alla paglia e, mano alle maschere, tappiamo il naso e la bocca! Guardiamo da dove viene, è solo una nuvola, qualche bombola... Sono le 15”.
Di fronte a quel che rappresenta Caporetto è difficile chiedere allo storico un giudizio perentorio, anche perché da quella disfatta, che apparve allora irrimediabile, si giunse un anno dopo (grazie anche, bisogna dirlo, all' immediato accorrere in nostro aiuto di undici divisioni francesi e inglesi) alla vittoria. Ma nessuno storico può negare che nei mesi successivi a Caporetto fu persa l'ultima occasione per riflettere finalmente sulla guerra e sulle richieste di giustizia, di democrazia e di libertà che il 1917 aveva visto levarsi dappertutto e che erano serpeggiate anche tra i nostri soldati. Caporetto fu molto più di una grave crisi militare. Anzi, il crollo rivelò una vasta crisi politica e sociale, sempre occultata e negata, maturata nel seno stesso della guerra e tra i milioni di italiani in divisa che per la prima volta nella storia dell' Italia unita si incontrarono tra loro cercando di capire qualcosa del loro paese, una crisi che deflagrerà nel dopoguerra coinvolgendo tutta la nazione.
Il primo segnale si ebbe quasi subito, alla fine del 1917, durante uno dei comitati segreti della Camera. Alla richiesta pressante dei deputati della sinistra di individuare le responsabilità politiche e militari della rotta di Caporetto, di informare l'opinione pubblica e di promuovere una inchiesta parlamentare, la risposta fu la costituzione di un fascio di difesa nazionale, appoggiato dal governo e sottoscritto da 158 deputati liberali e conservatori. L'iniziativa del fascio fu esaltata (quanto è strana e contraddittoria la storia italiana) da Giovanni Amendola; secondo le sue parole il fascio avrebbe bloccato, insieme a quella richiesta, l'azione disfattista dei socialisti.
Da quel momento la sinistra e il movimento operaio divenivano il nemico interno (l'espressione fu coniata allora) da sconfiggere alla stessa stregua di quello esterno. Una tesi che, nel dicembre dello stesso anno, ebbe anche l'autorevole avallo culturale di un appello patriottico anti-socialista firmato da ottanta professori dell' Università di Roma. E questo avveniva non nelle ore febbrili della rotta, quando in verità un brivido di paura percorse l' Italia e si temette di veder apparire a Roma, da un momento all'altro, le avanguardie dell'armata del generale Otto von Below. Evidentemente non c'erano altri e migliori argomenti per rianimare la resistenza delle nostre truppe, che d'altro canto già ai primi di dicembre si erano attestate sulla riva destra del Piave su una linea lunghissima dai monti al mare, attraverso la pianura padana fino a Venezia.
Con l'inquietante teoria dei nemici interni si cercava in definitiva di dare una motivazione ideologica alla necessità della ripresa militare. Certo, anche sull'Italia incombeva l'ombra allarmante della Rivoluzione d' ottobre. Ma in che chiave leggere, ad esempio, quanto il 10 novembre scriveva nel suo diario un membro del governo, l' industriale Silvio Crespi? La situazione alimentare è disastrosa. Nelle Calabrie non c'è più pane da quindici giorni. Da tutti i prefetti giungono telegrammi che chiedono farina per pane. Alcuni fanno balenare il pericolo di una rivoluzione. Rispondo che chiederò l'applicazione della legge marziale ovunque si accenni a rivoluzione. Chi scriveva così non era il ministro dell'Interno o il capo della polizia, ma il Commissario degli approvvigionamenti e consumi, cioè colui che più di ogni altro avrebbe dovuto comprendere le ragioni del malessere sociale che la guerra aveva acuito. Ma l'industriale, l'uomo di governo, l'ideologo liberale si erano fusi perfettamente. La rotta di Caporetto fu dunque soprattutto uno spartiacque politico. Sappiamo bene quanti rivolgimenti provocò quella guerra in Europa e nel mondo, e non vogliamo ingigantire la memorabile disfatta italiana. E' un fatto però che la nostra borghesia liberale, che nel primo decennio del Novecento aveva mostrato in alcuni settori della cultura, dell'industria e della politica attenzione e sensibilità per i problemi civili e sociali del paese, dopo Caporetto è come chiusa in se stessa, in una patriottica grande paura, spegnendo in tal modo ogni illusione su una sua capacità di evoluzione e facendo della vittoria del 1918 il risvolto delle radiose giornate interventiste del maggio 1915.
Con la differenza però che mentre nel 1915 gli schieramenti contrapposti erano stati quelli tra i neutralisti e gli interventisti (e all'uno o all'altro appartenevano indifferentemente conservatori e progressisti), nel 1918 la contrapposizione sarà più sottile e si preciseranno meglio i ruoli e i precisi confini di classe. La reazione a Caporetto fu, insomma, una riscossa conservatrice che si confuse con la riscossa militare lungo il Piave, e servì a unificare finalmente gli italiani benpensanti nel rifiuto di una temibile democrazia.


“la Repubblica”, 21 ottobre 1987  

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