La "brigata" dei narratori. Un'antica miniatura per il Decameron di Boccaccio |
Ho riletto recentemente Realtà e
stile nel "Decameron" di Mario Baratto nella ristampa
fattane dagli Editori Riuniti ad un decennio circa di distanza dalla
prima edizione (riproposta, del resto, pressoché integralmente): e
mi sono sorpreso a interrogarmi sulle qualità di durata e d'intatta
freschezza di un testo, il cui autore confessa, nell'Avvertenza
alla suddetta ristampa, di aver sempre diffidato "non certo del
metodo, ma di ogni furore teorico". Mi sono dato questa
risposta: che nell'avventura critica italiana contemporanea, densa di
dibattiti, acquisizioni e "infeudamenti" metodici e teorici
di ogni genere, un posto di assoluto rilievo dovrà essere riservato
a quelle personalità, non molto frequenti, che hanno concepito il
"mestiere del critico" principalmente come esercizio
d'interpretazione dei testi e come puntigliosa fedeltà allo spirito
dei classici, piuttosto che come dimostrazione di tesi preconcette e
difesa di posizioni ideologiche e politico-culturali.
Non che - s'intende - in Baratto manchi
una sicura preparazione metodologica e un' ampia esperienza
culturale: allievo di Luigi Russo, erede della parte migliore della
tradizione storicistica italiana (quella che, per l'appunto, sapeva
anch'essa mettersi al servizio di una effettiva cultura storica,
invece di usarla ai fini di una qualsiasi "battaglia delle
idee"), Baratto aveva poi conosciuto, durante una lunga
esperienza di studio e d'insegnamento in Francia, le aperture
problematiche di una critica sempre più insofferente delle formule
generiche e un po' stanche, a cui il nostro accademismo verso gli
anni '60 veniva volgendosi. Ma, forse perché delle problematiche
formalistiche e strutturalistiche aveva una conoscenza più diretta e
immediata, e quindi anche più disincantata, non ne aveva assorbito
meccanicamente le suggestioni metodiche, ma piuttosto l'incitamento a
scendere più in profondità nelle pieghe del testo, lasciando però
intatto il presupposto di ogni visione storica del fatto letterario,
e cioè il "farsi persona" dell'opera, quale prodotto
specifico e irripetibile di una determinata individualità creatrice.
Si presti attenzione alla struttura di
questo libro sul Decameron di Giovanni Boccaccio. Il suo punto
di partenza, il suo assunto metodico - che si potrebbe definire in
qualche modo classico, fra De Sanctis e Auerbach - è l'unità
strutturale del testo, fondata a sua volta sulla connessione tra
storicità della posizione boccacciana e le capacità d'invenzione e
rielaborazione, la moralità e le concezioni stilistiche e retoriche
dello scrittore trecentesco. Ma poi l'analisi, invece di restar
chiusa nelle assunzioni di carattere generale, si dispiega come
un'elencazione progressiva di assaggi (La novella esemplare,
Il contrasto, La commedia, Il gusto evocativo,
ecc.), ciascuno dei quali taglia trasversalmente quell'unità
presupposta e a poco a poco la restituisce per mezzo di una esemplare
concretezza e vitalità di osservazioni stilistiche, tematiche,
culturali, psicologiche e, perchè no?, di gusto (di buon gusto,
vorrei precisare).
Non c' è traccia, se non mediata, di
annose querelles storiografiche (Boccaccio medievale /
Boccaccio umanista; Boccaccio realista / Boccaccio retore; ecc.): se
è possibile usare questa formula, direi che l' apparato
metodologico-critico risulta perfettamente assimilato in un tentativo
di ricostruzione fedele dell'autore del Decameron, che passa
attraverso il tratteggio progressivo di tutti gli aspetti
fondamentali della sua concreta fisionomia scrittoria. Questo tipo di
"genio" critico è esattamente lo stesso che, in anni
ancora più lontani, aveva fatto di Baratto lo scopritore (o il
riscopritore fecondo) di alcuni dei nostri talenti teatrali più
autentici, come Ruzante, Aretino e Goldoni. Il filone della
"commedia", non a caso approfondito anche nel Decameron,
che nell'interpretazione di Baratto si presenta quasi come il lontano
archetipo teatrale delle più recenti invenzioni cinquecentesche e
settecentesche, costituisce infatti una specie di omaggio a quei
valori di autenticità, di freschezza, di anticonformismo e di
modernità, di cui la nostra storia letteraria è così povera, e che
il critico veneziano coglie invece istintivamente come per una
consonanza profonda di atteggiamenti e di mentalità.
Tutti quelli che conoscono Mario
Baratto sanno, inoltre, che egli è un raro esempio di coincidenza
tra l'essere critico e l'essere uomo, militante, amico, conversatore
e dispensatore di cultura. Le comunità intellettuali sono fatte
anche di queste cose, difficilmente descrivibili e ancor più
difficilmente trasmissibili; la cultura, quando è autentica, passa
attraverso tutti i pori della comunicazione, e la parola scritta,
purtroppo, ne costituisce solo una parte, anche quando è prestigiosa
e coerente, come in questo caso. Mario Baratto è morto il 10 maggio
scorso, al suo posto di lavoro e di responsabilità, è proprio il
caso di dirlo. Ma noi preferiamo continuare ad usare per lui il tempo
della presenza, quello che non passa: la letteratura è un bene
indefinibile, lo sappiamo, ma Baratto è fra quelli che hanno
insegnato ad averne una concezione vivente. Al di là dei singoli
debiti personali, che sono tanti, va ricordato per questo.
“la Repubblica”, 15 giugno 1984
Nessun commento:
Posta un commento