Il 2015 si compiranno i
trent'anni dalla morte di Elsa Morante, figura grande e sottovalutata
della storia letteraria italiana. Tra gli articoli pubblicati in
occasione della sua scomparsa spicca questo di Alberto Asor Rosa. Vi
si ribadisce l'ingiusta e ingiustificata stroncatura che lo stesso
aveva confezionato per La Storia, il
romanzo che non piacque ai critici (o, almeno, ai più, fra di loro)
e che piacque, invece, a molti lettori, anche “ingenui”). Ma
l'analisi de L'isola di Arturo,
l'altro capolavoro di Morante, mi pare puntuale e suggestiva, tale da
stimolare e da arricchire una rilettura o una lettura ex
novo dell'opera.
In verità La
Storia, pubblicata nei primi
anni Settanta, una quindicina dopo L'isola,
ne è, in qualche modo, una verifica e una continuazione. Testimonia. con la fine del mito “insulare”, la sconfitta
irreparabile degli innocenti nella grande storia, fatto che contrariamente a quanto pensa Asor, è da raccontare e Morante racconta benissimo. (S.L.L.)
Al centro dell'universo
immaginativo (o forse sarebbe meglio dire mitico) di Elsa Morante c'è
sempre stato il problema di una diversità che non riesce a
collocarsi, a risolversi in un rapporto, in una vera "storia".
Com' è noto, nel romanzo che rende esemplare questo soggetto,
traducendo e trasformando una "storia" ne La Storia,
la Morante ha cercato di dare significazione universale alla sua
tematica. Non starò qui a spiegare perché questo tentativo sia
approdato ad una sovrabbondante e sostanzialmente posticcia
enfiagione degli spunti creativi originari (tale causa, del resto,
dovrebbe risultare in maniera abbastanza chiara ed accessibile da una
lettura attenta della parte più autentica e profonda della sua
personalità). Preferisco ricordare che, ad una diretta e fantasiosa
corrispondenza fra motivi archetipi, originari, e la peculiare
scrittura di questa autrice, si deve un libro come L'isola di
Arturo, uno dei cinque o sei romanzi importanti del nostro
dopoguerra. Con L'isola di Arturo risaliamo al 1957: siamo
molto in là nel tempo, in una fase di caduta della ricerca
neo-realista. Quando il libro apparve, sembrò - giustamente - che un
raggio di luce e di fantasia attraversasse l'atmosfera già un po'
opaca e polverosa della pur così recente Arcadia populista (con la
quale, tuttavia, la Morante conservava allora qualche rapporto, e
dirò più avanti lungo quale linea). Nell'Isola di Arturo l'
universo immaginativo della Morante è già compiutamente presente.
Non voglio dire che poi essa non abbia fatto nulla di nuovo; ma lì
c'è già tutto l' essenziale, e fresco, vivo, fantastico, come in
una illuminazione di primavera.
In Aracoeli, a
distanza di quasi venticinque anni, ritorna - non so se qualcuno l'
abbia già notato - qualcosa di quella tematica primitiva, ma come
raggelato nelle astuzie programmatiche di una progettazione tematica,
che ha perso la vivida qualità inventiva dell' opera precedente. Il
fatto è che la scrittura della Morante è altamente metaforica. Non
c'è nessun altro scrittore italiano contemporaneo dotato di una
capacità tanto sorprendente di stendere sulle storie e sui caratteri
dei personaggi questa rete di immagini allusive e di concrete
simbolizzazioni.
L'isola di Arturo
- mi rendo conto che è persino ovvio rilevarlo - è una metafora
della vita. Ma questa metafora - per così dire - non è una Grande
Metafora, una simbolizzazione di dimensioni ideologicamente molto
ambiziose: è, invece, un insieme discreto di metafore, una rete di
metafore, un labirinto di metafore, non sempre collegate
esplicitamente da una volontà superiore, ma piuttosto affidate, al
contrario, alla casualità un po' entusiasmante e un po' disperante
delle coincidenze e dell'imprevisto. Il "luogo" del romanzo
è, per l' appunto, un'isola, Procida: spazio circoscritto, anzi
recluso dal mondo; dove l'avventura del protagonista, prima bambino
poi adolescente, ha modo di svolgersi senza intoppi storici,
relazionali, in una sua purezza mitica e naturale insieme. Non a
caso, l'isola è sovrastata dalla mole cupa del Penitenziario,
simbolo della reclusione; e circondata dal fremito senza confini e
senza soste del mare, simbolo di una libertà, che però è anche
partenza, distacco, privazione (il padre che lascia periodicamente
l'isola, per i suoi misteriosi ma in realtà squallidi viaggi in
terraferma).
Il protagonista, che ha
il nome di una stella, compie, crescendo, una ricerca; ma i poli del
suo stesso mondo lo fronteggiano, ostili, nella loro superba
astrattezza. I poli sono quelli che ci si aspetterebbe, ovviamente,
di trovare in una qualsiasi storia d'iniziazione: Paternità e
Maternità, innanzitutto; e poi Sessualità e Amore. Non è qui la
novità vera dell'invenzione, non è nella struttura pura e semplice,
schematica, della vicenda; bensì nel variegato e articolato disporsi
delle "figure" secondo una logica fantastica
particolarmente prensile e concreta, e molto molto ricca dal punto di
vista immaginativo. Tutti i personaggi risultano, infatti, ad una
osservazione più attenta, spaccati in due, presenti e assenti al
tempo stesso, e al tempo stesso ostili ed amici, sfuggenti e
persuasivi, fonte di piacere e fonte di dolore. Il padre è
amatissimo, e sempre lontano, collocato dal fanciullo in un luogo
immaginario al di là dell'orizzonte; mezzo tedesco e mezzo
procidano; molto superbo e autorevole come maschio, e in realtà
omosessuale. La madre, scomparsa, sovrasta da universi lontani: è
una tomba non più visitata, una nostalgia incalcolabile di oggetti
perduti. La supremazia del padre è apparentemente incontrastata; in
realtà, predominante è la Maternità-femminilità pervasiva e
indeterminata, manifestazione estrema dell'"oscuro popolo delle
donne" - per cui, secondo il padre, bisogna essere contro
l'amore delle madri, e dunque anche contro "l' amore delle
donne". La giovanissima matrigna, prima detestata e poi amata,
provoca l'esplosione del sesso, e poi si ritira anch'essa, dolente,
nel mondo appartato e solitario, misterioso, della maternità,
producendo al padre omosessuale un secondo figlio, che ha i capelli
biondi del genitore e gli occhi neri del fratello (e infatti finirà
per chiamarsi anche lui Arturo). Questo intreccio di relazioni hanno
una dimensione in quello che potremmo definire il "reale
svolgimento dei fatti" e una, più profonda e sicuramente più
significativa, in una zona dell'esistenza dove i sentimenti e le
passioni si presentano sotto forma di pulsioni elementari e l'umano
si confonde spesso con l'animale e il naturale. Questo è veramente
l'aspetto poetico più propriamente morantiano, inconfondibile, dove
si recupera persino la tradizione neo-realistica del personaggio
umile (la matrigna Nunziatella), per influenzare (ed essere
influenzata) - ne sono assolutamente certo - gli esperimenti
narrativi pressoché coevi del giovane Pasolini. Gli idioti, i
fanciulli, gli ignoranti, le donne semplici, vivono in un mondo i cui
tratti non sono stati ancora disegnati dal regolo spietato degli
adulti e dei maschi (l'omosessualità resta sospesa a mezz'aria, come
una presenza inquietante, un'infrazione non completa, una specie di
verginità irrisolta e dolorosa: il padre di Arturo viene definito
"un animale doppio", "un cavallo grifone", una
"sirena").
La prosa della Morante è
una costellazione di microscopiche metafore, che mettono in
congiunzione l' estremità semplice del genere umano con il mondo
degli animaletti e dei fiori. La matrigna Nunziatella ha lo stesso
sguardo della cagna Immacolatella, il cuore che batte "simile a
un uccellino appena rubato dal nido", è sollecita come una
"gallinella", sembra "una bestiola selvatica dalla
pelliccia nera". Questi "frammenti di fiaba" si
compongono in un "teatro mitico", in una "fantasia",
in una alata immaginazione, che rinuncia volutamente ad ogni pretesa
di verisimiglianza narrativa, per immergersi in una dimensione del
racconto in cui sembra davvero di udire "lo scorrere presente
dei minuti, attraverso le distanze favolose del tempo, come un grande
respiro calmo", che è poi quello della natura, del mare. Non a
caso, l'ingresso del protagonista nell'età adulta, mentre segna il
suo distacco dal padre, dalla Maternità, dalla matrigna e
dall'Amore, comporta al tempo stesso l'uscita dall'Isola, la fine del
regno incantato chiuso in un cerchio dal mare e concluso dalla sua
impossibilità di svilupparsi in "storia".
Quando la "storia"
di Arturo davvero comincia, l'isola è scomparsa all'orizzonte e il
romanzo s'interrompe. Scrittrice mitica per eccellenza, la Morante
non aveva molti spazi al di fuori di quelli disegnati dalla mappa
archetipica, che abbiamo cercato di descrivere. La nostra opinione è
che "l'isola" ne rimanga l' espressione suprema: per
definizione, come Arturo, uscire dall'isola significa non avere più
una storia significativa da raccontare. Ma il mito, appunto, non ha
bisogno di valenze storiche per espandersi ed esprimersi: detto una
volta, è difficile ripeterlo; ma, ove sia stato detto, può bastare
a riempire una carriera intera di scrittore.
“la Repubblica”, 26
novembre 1985
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