28.1.15

Gli ultimi censori di Pompei (Federico Zeri)

Una magnifica riflessione tra l'artistico, lo storico e il filosofico di Federico Zeri, in occasione del centenario dell'eruzione di Pompei. Vi si svelano alcune ragioni nascoste della secolare incuria per l'arte pompeiana e per gli scavi ov'è contenuta, al di là dell'azione o dell'inazione di questo o quel governo, ministro o sovrintendente. Il finale è poi tutto da meditare. (S.L.L.)
Satiro e menade. Pittura parietale pompeiana
Il 24 agosto dell'anno 79, a due mesi esatti dalla morte di Vespasiano e dall'accessione all'impero di Tito, la città di Pompei veniva sepolta dall'eruzione del Vesuvio; il diciannovesimo centenario dell'avvenimento è stato ampiamente ricordato, in Italia e fuori, dalla stampa e dalla Tv, secondo motivi (salvo rarissime eccezioni) di netto sapore drammatico-patetico. E' cioè il filone pompeiano cui dette l'avvio, nel 1834, il romanzo The last Days of Pompei dell'inglese Edward George Bulwer-Litton, un filone di grande fortuna, e che servì a far conoscere nel mondo la storia e gli avanzi della città vesuviana più ancora forse delle rovine stesse, il cui scavo nel frattempo si andava ampliando. A quel romanzo non mancarono di ispirarsi pittori "pompiers" e scultori: uno dei caratteri dell'intreccio, Nydia, venne raffigurato in un applauditissimo marmo dell'americano Randolph Rogers (che dal 1853 in poi lo replicò almeno un centinaio di volte) e rappresenta una fanciulla cieca che tenta di sfuggire al cataclisma affidandosi al solo senso dell'udito.
A questa tradizione (volta a spremere dal fruitore anche l'ultima goccia di empatia sentimentale) si sono riallacciati nel nostro secolo vari film dedicati alla morte di Pompei; e non c'è dubbio che gli aspetti umani della tragedia furono tali da suscitare anche oggi commozione, specie dopo che un ingegnoso sistema di gesso colato, ha consentito di ottenere le forme dei corpi delle vittime rimaste sotto la pioggia di ceneri e di lapilli, rivelandone le estreme convulsioni.
Tuttavia, un approccio del genere ha finito col viziare la lettura dei significati impliciti negli avanzi della città, lettura nella quale (parlo non degli specialisti storici o archeologi ma del visitatore medio) vengono privilegiati soltanto taluni aspetti della vita quotidiana, e specie quelli che si prestano ad un confronto, per altro assai facile, con il modo di vivere dei nostri giorni. Ne resta escluso il dato più intimo e più sottile presente in questo unicum documentario della cultura pagana e della sua concezione del mondo: ed è la (per noi) straordinaria, piena libertà con cui venivano affrontati e risolti il sesso e tutte le sue infinite modulazioni.
Allorché gli scavi di Pompei cominciarono a rivelare affreschi e oggetti di argomento erotico, e spesso sfrenatamente osceno, si pensò di essere capitati negli ambienti di un qualche lupanare; ma con il moltiplicarsi di ritrovamenti del genere (e anche di oggetti di uso quotidiano provvisti di elementi inequivocabilmente sessuali) si preferì stendere un velo silenzioso su dati così sconcertanti: i reperti in questione vennero celati, o con l'occultamento (per gli affreschi, dietro tavole) o con il trasporto nei "camerini segreti" del Real Museo Borbonico (oggi Museo Nazionale) di Napoli, dove si possono tuttora vedere. Una siffatta contro-eruzione di sessualità e di paganesimo non mancò di preoccupare le locali gerarchie ecclesiastiche, alle quali si deve la nascita, a poca distanza dagli scavi, del Santuario della Madonna del Rosario, allo scopo anche di combattere con l'immagine miracolosa della Vergine le diaboliche esalazioni emanate dalla fossa della città sepolta.
Oggi è assai indicativo della situazione italiana il confronto tra l'opulenza e il rigoglio del bruttissimo tempio cattolico iniziato nel 1876 (e successivamente ampliato su disegno di monsignor Spirito Chiappetta) e l'abbandono delle preziosissime rovine della città romana, devastate dalle erbacce e da vandali, oggetto di ripetuti furti, con gli affreschi e gli intonaci sgretolati dagli agenti atmosferici. Di recente, pare che le autorità preposte alla tutela di Pompei si siano mosse, iniziando un'opera di restauro e di documentazione; non resta quindi che da sperare.
Ma per tornare alla vena di erotismo che circola insistente negli avanzi tornati alla luce, essa doveva necessariamente risultare sconcertante se non anche incomprensibile agli scopritori del secolo scorso. In effetti, oltre a rivelarsi ad una società sessualmente repressiva sino al limite del maniaco, come fu la società ottocentesca, quei reperti di significato fallico, quelle scene di congiungimenti carnali non del tutto "secondo natura", male si addicevano all'immagine, allora corrente, del mondo greco-romano e del paganesimo: un'immagine edulcorata ed esangue, come fu quella trasmessa dall'archeologia neoclassica. E non per colpa del Winkelmann (uno dei fondatori del gusto neoclassico e della scienza archeologica), ma piuttosto del perbenismo della società napoleonica prima, poi di quella della Restaurazione, l'una e l'altra ammantate (la seconda sino a verso il 1830) di orpelli ellenistico-imperiali.
Del resto, ancora oggi sono pochi coloro che riescono ad immaginare il Partenone dipinto a colori vivaci o la statuaria classica non già bianca ma animata dalla policromia naturalistica, come certe sculture "pop": e sono queste remore che nascono anche in menti coltivate, le stesse però che continuano a considerare viziose o aberranti le immagini erotiche da cui sovente siamo confrontati nelle arti figurative greche e romane.
A costoro va ricordato che temi analoghi (spesso dotati di una straordinaria carica umoristica) già appaiono nella ceramica greca molti secoli prima degli affreschi e degli oggetti pompeiani, risalendo sino al V secolo avanti Cristo; e vi appaiono secondo un repertorio in cui temi di erotismo eterosessuale si alternano alla più aperta omosessualità, maschile e femminile, e a una ricca varietà di pratiche genitali, anali e orali. Ciò che più conta è però la totale assenza di malizia con cui vengono resi questi temi, l'assenza cioè di blasfemia elucubrativa, di segreto compiacimento, di vizioso, degli aspetti cioè che caratterizzano le immagini erotiche prodotte in età moderna (salvo quelle uscite dalla immediata cerchia di Raffaello, un ambiente cioè profondamente imbevuto di classicismo). Detto altrimenti: rispetto ai greci e ai romani, i facitori moderni di immagini erotiche hanno perso l'innocenza, e l'hanno persa per via delle religioni orientali e del loro diffondersi prima e del prevalere poi nell'area del mondo ellenistico romano.
Col mitizzare il sesso, identificandolo con il concetto di peccato, il giudaismo e la sua derivazione cristiana hanno scavato un solco che ci separa dagli antichi e dalla loro felicità genitale. In tal senso, fanno ridere anche i programmi di liberazione sessuale i quali non contemplano, e preventivamente, la liberazione dalle mitologie del Dio cui si offrono i prepuzi, o del Dio che per venire in terra deve forzatamente nascere da una Vergine. 

L'Europeo, 13 settembre 1979

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