Una magnifica riflessione
tra l'artistico, lo storico e il filosofico di Federico Zeri, in
occasione del centenario dell'eruzione di Pompei. Vi si svelano
alcune ragioni nascoste della secolare incuria per l'arte pompeiana e
per gli scavi ov'è contenuta, al di là dell'azione o dell'inazione
di questo o quel governo, ministro o sovrintendente. Il finale è poi
tutto da meditare. (S.L.L.)
Satiro e menade. Pittura parietale pompeiana |
Il 24 agosto dell'anno
79, a due mesi esatti dalla morte di Vespasiano e dall'accessione
all'impero di Tito, la città di Pompei veniva sepolta dall'eruzione
del Vesuvio; il diciannovesimo centenario dell'avvenimento è stato
ampiamente ricordato, in Italia e fuori, dalla stampa e dalla Tv,
secondo motivi (salvo rarissime eccezioni) di netto sapore
drammatico-patetico. E' cioè il filone pompeiano cui dette l'avvio,
nel 1834, il romanzo The last Days of Pompei dell'inglese
Edward George Bulwer-Litton, un filone di grande fortuna, e che servì
a far conoscere nel mondo la storia e gli avanzi della città
vesuviana più ancora forse delle rovine stesse, il cui scavo nel
frattempo si andava ampliando. A quel romanzo non mancarono di
ispirarsi pittori "pompiers" e scultori: uno dei
caratteri dell'intreccio, Nydia, venne raffigurato in un
applauditissimo marmo dell'americano Randolph Rogers (che dal 1853 in
poi lo replicò almeno un centinaio di volte) e rappresenta una
fanciulla cieca che tenta di sfuggire al cataclisma affidandosi al
solo senso dell'udito.
A questa tradizione
(volta a spremere dal fruitore anche l'ultima goccia di empatia
sentimentale) si sono riallacciati nel nostro secolo vari film
dedicati alla morte di Pompei; e non c'è dubbio che gli aspetti
umani della tragedia furono tali da suscitare anche oggi commozione,
specie dopo che un ingegnoso sistema di gesso colato, ha consentito
di ottenere le forme dei corpi delle vittime rimaste sotto la pioggia
di ceneri e di lapilli, rivelandone le estreme convulsioni.
Tuttavia, un approccio
del genere ha finito col viziare la lettura dei significati impliciti
negli avanzi della città, lettura nella quale (parlo non degli
specialisti storici o archeologi ma del visitatore medio) vengono
privilegiati soltanto taluni aspetti della vita quotidiana, e specie
quelli che si prestano ad un confronto, per altro assai facile, con
il modo di vivere dei nostri giorni. Ne resta escluso il dato più
intimo e più sottile presente in questo unicum documentario
della cultura pagana e della sua concezione del mondo: ed è la (per
noi) straordinaria, piena libertà con cui venivano affrontati e
risolti il sesso e tutte le sue infinite modulazioni.
Allorché gli scavi di
Pompei cominciarono a rivelare affreschi e oggetti di argomento
erotico, e spesso sfrenatamente osceno, si pensò di essere capitati
negli ambienti di un qualche lupanare; ma con il moltiplicarsi di
ritrovamenti del genere (e anche di oggetti di uso quotidiano
provvisti di elementi inequivocabilmente sessuali) si preferì
stendere un velo silenzioso su dati così sconcertanti: i reperti in
questione vennero celati, o con l'occultamento (per gli affreschi,
dietro tavole) o con il trasporto nei "camerini segreti"
del Real Museo Borbonico (oggi Museo Nazionale) di Napoli, dove si
possono tuttora vedere. Una siffatta contro-eruzione di sessualità e
di paganesimo non mancò di preoccupare le locali gerarchie
ecclesiastiche, alle quali si deve la nascita, a poca distanza dagli
scavi, del Santuario della Madonna del Rosario, allo scopo anche di
combattere con l'immagine miracolosa della Vergine le diaboliche
esalazioni emanate dalla fossa della città sepolta.
Oggi è assai indicativo
della situazione italiana il confronto tra l'opulenza e il rigoglio
del bruttissimo tempio cattolico iniziato nel 1876 (e successivamente
ampliato su disegno di monsignor Spirito Chiappetta) e l'abbandono
delle preziosissime rovine della città romana, devastate dalle
erbacce e da vandali, oggetto di ripetuti furti, con gli affreschi e
gli intonaci sgretolati dagli agenti atmosferici. Di recente, pare
che le autorità preposte alla tutela di Pompei si siano mosse,
iniziando un'opera di restauro e di documentazione; non resta quindi
che da sperare.
Ma per tornare alla vena
di erotismo che circola insistente negli avanzi tornati alla luce,
essa doveva necessariamente risultare sconcertante se non anche
incomprensibile agli scopritori del secolo scorso. In effetti, oltre
a rivelarsi ad una società sessualmente repressiva sino al limite
del maniaco, come fu la società ottocentesca, quei reperti di
significato fallico, quelle scene di congiungimenti carnali non del
tutto "secondo natura", male si addicevano all'immagine,
allora corrente, del mondo greco-romano e del paganesimo: un'immagine
edulcorata ed esangue, come fu quella trasmessa dall'archeologia
neoclassica. E non per colpa del Winkelmann (uno dei fondatori del
gusto neoclassico e della scienza archeologica), ma piuttosto del
perbenismo della società napoleonica prima, poi di quella della
Restaurazione, l'una e l'altra ammantate (la seconda sino a verso il
1830) di orpelli ellenistico-imperiali.
Del resto, ancora oggi
sono pochi coloro che riescono ad immaginare il Partenone dipinto a
colori vivaci o la statuaria classica non già bianca ma animata
dalla policromia naturalistica, come certe sculture "pop":
e sono queste remore che nascono anche in menti coltivate, le stesse
però che continuano a considerare viziose o aberranti le immagini
erotiche da cui sovente siamo confrontati nelle arti figurative
greche e romane.
A costoro va ricordato
che temi analoghi (spesso dotati di una straordinaria carica
umoristica) già appaiono nella ceramica greca molti secoli prima
degli affreschi e degli oggetti pompeiani, risalendo sino al V secolo
avanti Cristo; e vi appaiono secondo un repertorio in cui temi di
erotismo eterosessuale si alternano alla più aperta omosessualità,
maschile e femminile, e a una ricca varietà di pratiche genitali,
anali e orali. Ciò che più conta è però la totale assenza di
malizia con cui vengono resi questi temi, l'assenza cioè di
blasfemia elucubrativa, di segreto compiacimento, di vizioso, degli
aspetti cioè che caratterizzano le immagini erotiche prodotte in età
moderna (salvo quelle uscite dalla immediata cerchia di Raffaello, un
ambiente cioè profondamente imbevuto di classicismo). Detto
altrimenti: rispetto ai greci e ai romani, i facitori moderni di
immagini erotiche hanno perso l'innocenza, e l'hanno persa per via
delle religioni orientali e del loro diffondersi prima e del
prevalere poi nell'area del mondo ellenistico romano.
Col mitizzare il sesso, identificandolo con il concetto di peccato, il giudaismo e la sua derivazione cristiana hanno scavato un solco che ci separa dagli antichi e dalla loro felicità genitale. In tal senso, fanno ridere anche i programmi di liberazione sessuale i quali non contemplano, e preventivamente, la liberazione dalle mitologie del Dio cui si offrono i prepuzi, o del Dio che per venire in terra deve forzatamente nascere da una Vergine.
Col mitizzare il sesso, identificandolo con il concetto di peccato, il giudaismo e la sua derivazione cristiana hanno scavato un solco che ci separa dagli antichi e dalla loro felicità genitale. In tal senso, fanno ridere anche i programmi di liberazione sessuale i quali non contemplano, e preventivamente, la liberazione dalle mitologie del Dio cui si offrono i prepuzi, o del Dio che per venire in terra deve forzatamente nascere da una Vergine.
L'Europeo, 13 settembre 1979
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