5.1.15

Italia 1915-1918. Scrittori in guerra (Giulio Cattaneo)

Ardengo Soffici in divisa da ufficiale
"Verranno i tedeschi, mi dissero verso l'ottobre '17: venticinque divisioni tedesche, trentacinque divisioni tedesche! Guardavo con impazienza i miei informatori: Dio poi mi ha punito della mia retòrica: ma questo è un resoconto e io devo registrare tutte le mie cattive azioni: allora alzai le spalle e dissi agli uomini: ... le pallottole della mitraglia bucano i tedeschi come bucano gli austriaci”. Queste parole sono nel Castello di Udine (apparso nel 1934) di Carlo Emilio Gadda, che nella guerra aveva trovato la compiuta immedesimazione del suo essere con la sua idea; ma potevano essere condivise da tutti i giovani scrittori, insofferenti della stabilità e della pace, che avevano partecipato alle manifestazioni per l' intervento nelle radiose giornate del '15, inneggiando a D' Annunzio accorso dalla Francia per salvare da una ruina e da una ignominia irreparabili la patria in punto di perdimento. 
Dopo più di due anni durissimi, quei giovani si erano resi conto che la guerra non assomigliava, come avevano sognato, ad una avanzata irresistibile nella parata delle bandiere al vento, al suono della marcia reale; ma perdurava la fiducia nello stellone d'Italia. Lo stesso Gadda, che aveva presentito la guerra come dolorosa necessità nazionale, confessava di non averla ritenuta così ardua. La tragedia di Caporetto colse impreparati e increduli uomini esperti di guerra come Ardengo Soffici, che aveva concluso il suo giornale di battaglia Kobilek parlando di stupefacente avanzata e di superba vittoria, proprio nel '17. 
A distanza di mezzo secolo, Gadda ricostruì con precisione, per una intervista, il suo ultimo giorno di combattente (che ora il lettore ha rivissuto grazie al taccuino fin qui inedito): “Il nemico aveva già passato il fiume, noi eravamo prigionieri in una sacca e cominciammo a togliere i percussori alle mitragliatrici. Ci addossammo al monte: un reparto di soldati tedeschi in alta uniforme di parata, la divisa blu e l'elmetto a chiodo, marciava davanti a noi come il giorno della festa imperiale. La sicurezza del generale Otto von Below aveva programmato, coi piani della battaglia, anche quella sfilata del disprezzo”. Caporetto significò per lui con la prigionia la fine del suo disciplinato servizio di soldato d'Italia: Caporetto e la notizia della morte del fratello, al ritorno nella patria vuota, si fusero in un unico blocco di dolore, di immaginazioni demenziali.
Fra le testimonianze di più autentico interesse letterario sulla grande rotta sono La ritirata del Friuli di Soffici e Giorni di guerra di Giovanni Comisso, ripubblicati ora da Longanesi & C. (pagg. 229). "Decifriamo i primi fonogrammi. Sorpresa dolorosa per le notizie che arrivano. Le nostre linee sono state arretrate davanti a Tolmino. Il nemico attacca da tutte le parti; avanza nella valle di Caporetto; cala dalla parte di Saga. L'ansia, l'angoscia di tutti qui, è terribile, sebbene dissimulata. Nelle facce pallide dei superiori, che s'intravedono mentre corrono da una stanza all'altra, danno ordini, spiccano ufficiali, ciclisti verso le linee, si legge l'inquietudine, il tormento dello spirito. Lorenzoni, il capitano Settimanni, il tenente Onofri ed io, ritti in mezzo alla stanza, ci guardiamo in faccia senza osare di comunicarci i nostri pensieri. Consultiamo in silenzio le carte appese ai muri... E' possibile?”. Così Soffici nelle sue note di un ufficiale della Seconda Armata; nelle pagine di Comisso è la confusione dei Comandi, fra l'incalzare degli avvenimenti e l'interrompersi delle comunicazioni. 
Nel diario di Soffici, l'occhio dello scrittore è attentissimo, nella proiezione cinematografica della rotta, a cogliere le sequenze del grande dramma in particolari minimi nitidissimi e nella sua vastità epica. Per la prima volta ebbi la sensazione intera della tragica enormità del fatto che si svolgeva, e il dolore di vederlo senza rimedio. Si pensava ai grandi e terribili avvenimenti della storia, dell' antichità: agli esodi biblici, alle migrazioni dei popoli, alle anabasi orientali, alle fughe caotiche davanti ai flagelli ed ai cataclismi. I Giorni di guerra di Comisso sono il libro di uno scrittore portato a rendere la fisicità della sua esperienza in una trascrizione di sensazioni elementari e di impulsi momentanei. Il mulo carico di due telefoni aveva preso un buon passo e noi dietro, decisi a fare presto, tra la bellezza dei boschi tutti rossi d' autunno, pestando le foglie cadute, estasiando per fuggenti attimi lo sguardo sullo splendore di fiori azzurri, lungo il torrente che correva con noi. Interminabile la valle e deserta. Non sono in lui i rovelli di Soffici che, per spiegarsi la disfatta, ricorre alla ipotesi del tradimento, come tutti i nazionalisti incapaci di accettare la sconfitta. 
In Comisso è soltanto qualche accenno di malinconia, la registrazione di un brivido che lo prese alla testa ascoltando al telefono le notizie del disastro. Queste due testimonianze si inseriscono nel capitolo ricco e intenso della letteratura della grande guerra, fra le lettere dal fronte di Serra, i taccuini di Slataper, due scrittori caduti nel '15, e Il porto sepolto di Ungaretti, il libro più nuovo della giovane poesia italiana. Gadda sosteneva che della sua retorica patriottarda e militaresca non lo aveva purgato la guerra, né il dopoguerra, né l'ora che volge (1933), ma, mezzo secolo dopo la fine del conflitto, il suo giudizio fu amaro: non credo più alle vittorie; ogni vittoria in guerra è una vittoria di Pirro. Caporetto restò per decenni come un incubo nella storia italiana, non compensato dalla vittoria del '18: una lezione durissima per quella generazione che Boine definì torbida e immatura.


“la Repubblica”, 21 ottobre 1987

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