Ardengo Soffici in divisa da ufficiale |
"Verranno i tedeschi, mi
dissero verso l'ottobre '17: venticinque divisioni tedesche,
trentacinque divisioni tedesche! Guardavo con impazienza i miei
informatori: Dio poi mi ha punito della mia retòrica: ma questo è
un resoconto e io devo registrare tutte le mie cattive azioni: allora
alzai le spalle e dissi agli uomini: ... le pallottole della
mitraglia bucano i tedeschi come bucano gli austriaci”. Queste
parole sono nel Castello di Udine (apparso nel 1934) di Carlo
Emilio Gadda, che nella guerra aveva trovato la compiuta
immedesimazione del suo essere con la sua idea; ma potevano essere
condivise da tutti i giovani scrittori, insofferenti della stabilità
e della pace, che avevano partecipato alle manifestazioni per l'
intervento nelle radiose giornate del '15, inneggiando a D' Annunzio
accorso dalla Francia per salvare da una ruina e da una ignominia
irreparabili la patria in punto di perdimento.
Dopo più di due anni
durissimi, quei giovani si erano resi conto che la guerra non
assomigliava, come avevano sognato, ad una avanzata irresistibile
nella parata delle bandiere al vento, al suono della marcia reale; ma
perdurava la fiducia nello stellone d'Italia. Lo stesso Gadda, che
aveva presentito la guerra come dolorosa necessità nazionale,
confessava di non averla ritenuta così ardua. La tragedia di
Caporetto colse impreparati e increduli uomini esperti di guerra come
Ardengo Soffici, che aveva concluso il suo giornale di battaglia
Kobilek parlando di stupefacente avanzata e di superba vittoria,
proprio nel '17.
A distanza di mezzo secolo, Gadda ricostruì con
precisione, per una intervista, il suo ultimo giorno di combattente
(che ora il lettore ha rivissuto grazie al taccuino fin qui inedito):
“Il nemico aveva già passato il fiume, noi eravamo prigionieri in
una sacca e cominciammo a togliere i percussori alle mitragliatrici.
Ci addossammo al monte: un reparto di soldati tedeschi in alta
uniforme di parata, la divisa blu e l'elmetto a chiodo, marciava
davanti a noi come il giorno della festa imperiale. La sicurezza del
generale Otto von Below aveva programmato, coi piani della battaglia,
anche quella sfilata del disprezzo”. Caporetto significò per lui
con la prigionia la fine del suo disciplinato servizio di soldato
d'Italia: Caporetto e la notizia della morte del fratello, al ritorno
nella patria vuota, si fusero in un unico blocco di dolore, di
immaginazioni demenziali.
Fra le testimonianze di
più autentico interesse letterario sulla grande rotta sono La
ritirata del Friuli di Soffici e Giorni di guerra di
Giovanni Comisso, ripubblicati ora da Longanesi & C. (pagg. 229). "Decifriamo i primi fonogrammi. Sorpresa dolorosa per
le notizie che arrivano. Le nostre linee sono state arretrate davanti
a Tolmino. Il nemico attacca da tutte le parti; avanza nella valle di
Caporetto; cala dalla parte di Saga. L'ansia, l'angoscia di tutti
qui, è terribile, sebbene dissimulata. Nelle facce pallide dei
superiori, che s'intravedono mentre corrono da una stanza all'altra,
danno ordini, spiccano ufficiali, ciclisti verso le linee, si legge
l'inquietudine, il tormento dello spirito. Lorenzoni, il capitano
Settimanni, il tenente Onofri ed io, ritti in mezzo alla stanza, ci
guardiamo in faccia senza osare di comunicarci i nostri pensieri.
Consultiamo in silenzio le carte appese ai muri... E' possibile?”.
Così Soffici nelle sue note di un ufficiale della Seconda Armata;
nelle pagine di Comisso è la confusione dei Comandi, fra l'incalzare
degli avvenimenti e l'interrompersi delle comunicazioni.
Nel diario
di Soffici, l'occhio dello scrittore è attentissimo, nella
proiezione cinematografica della rotta, a cogliere le sequenze del
grande dramma in particolari minimi nitidissimi e nella sua vastità
epica. Per la prima volta ebbi la sensazione intera della tragica
enormità del fatto che si svolgeva, e il dolore di vederlo senza
rimedio. Si pensava ai grandi e terribili avvenimenti della storia,
dell' antichità: agli esodi biblici, alle migrazioni dei popoli,
alle anabasi orientali, alle fughe caotiche davanti ai flagelli ed ai
cataclismi. I Giorni di guerra di Comisso sono il libro di uno
scrittore portato a rendere la fisicità della sua esperienza in una
trascrizione di sensazioni elementari e di impulsi momentanei. Il
mulo carico di due telefoni aveva preso un buon passo e noi dietro,
decisi a fare presto, tra la bellezza dei boschi tutti rossi d'
autunno, pestando le foglie cadute, estasiando per fuggenti attimi lo
sguardo sullo splendore di fiori azzurri, lungo il torrente che
correva con noi. Interminabile la valle e deserta. Non sono in lui i
rovelli di Soffici che, per spiegarsi la disfatta, ricorre alla
ipotesi del tradimento, come tutti i nazionalisti incapaci di
accettare la sconfitta.
In Comisso è soltanto qualche accenno di
malinconia, la registrazione di un brivido che lo prese alla testa
ascoltando al telefono le notizie del disastro. Queste due
testimonianze si inseriscono nel capitolo ricco e intenso della
letteratura della grande guerra, fra le lettere dal fronte di Serra,
i taccuini di Slataper, due scrittori caduti nel '15, e Il porto
sepolto di Ungaretti, il libro più nuovo della giovane poesia
italiana. Gadda sosteneva che della sua retorica patriottarda e
militaresca non lo aveva purgato la guerra, né il dopoguerra, né
l'ora che volge (1933), ma, mezzo secolo dopo la fine del conflitto,
il suo giudizio fu amaro: non credo più alle vittorie; ogni vittoria
in guerra è una vittoria di Pirro. Caporetto restò per decenni come
un incubo nella storia italiana, non compensato dalla vittoria del
'18: una lezione durissima per quella generazione che Boine definì
torbida e immatura.
“la Repubblica”, 21
ottobre 1987
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