4.1.15

Man Ray. Un sostantivo maschile sinonimo di gioia (R.S.)

Bella recensione di una mostra friulana su Man Ray, molto centrata sul rapporto del grande surrealista con il cinema. Firmata R.S., molto probabilmente si deve a Roberto Silvestri. (S.L.L.)
Man Ray, Venere
Le opere di Man Ray, antico maestro dell'arte moderna, sono in mostra a Villa Manin, a Passariano di Codroipo (Udine), fino all'11 gennaio 2015. Quadri, foto, oggetti d'affezione e film, lucidi manifesti teorici sulla natura ottico-ritmica del cinema. Avventure dell'immaginazione sfrangiate, flou, ironiche, illogiche ed erotiche come L'étoile de mer (1928), dal poema di Desnos. L'uso del filtro diffrangente che slabbra i contorni degli innamorati non è vezzo impressionista, ma già alchemica scoperta di un mondo irridescente, dopo Cezanne e prima di Bacon. Così il suo amico dadaista, artista e scacchista, Marcel Duchamp definiva Man Ray: «sostantivo maschile, sinonimo di gioia, giocare, godere».
Una parte delle avanguardie e dello sperimentalismo, infatti, lavora sulle immagini in movimento per regalare, anche involontariamente, forme nuove e design più arditi e avveniristici al cinema di narrazione, artistica o commerciale. Ma c'è un'altra parte della ricerca indipendente dall'industria, estranea allo sfruttamento della società dello spettacolo e al sistema professionale delle arti. È la vita che questi rivoluzionari vogliono aprire, cambiare, liberare. Usando il pennello e la cinepresa (e anche riviste alla moda, come “Harper's Bazaar”) come mezzi al servizio dello spirito. A costo di spazientire lo spettatore che, fin dal periodo muto è voglioso di fiabe sempre uguali, si chiede la ragione di queste stravaganze.
Così nel 1926 Man Ray introduceva Emak Bakia (in basco: non seccarmi): «È un cinepoema con una certa sequenza ottica da cui nasce un insieme che resta frammento. Come è possibile apprezzare meglio l'astratta bellezza di un'opera classica in un suo frammento, piuttosto che nella sua interezza, così questo film cerca di indicare l'essenziale nella cinegrafia. Non è un film astratto o narrativo. Non è sperimentale. È il risultato di un modo di vedere e di pensare». Una forma di improvvisazione free analoga alla discontinuità e non narratività della produzione inconscia. E anche di disgregare il simbolico e inceppare le strutture istituzionali del fare artistico e della ricezione. Circa 90 anni fa, il 16 luglio 1923, il mediometraggio dadaista Le retour à la raison, montaggio privo di alcuna ipotesi compositiva, di materiali irrilevanti, apre la storia dell'anti-cinema, che arriverà fino a Isou, ai situazionisti, alla Verifica incerta di Alberto Grifi. L'irrilevanza e la decomposizione erano piuttosto elaborate, però, come si legge nelle note di produzione di un film girato senza cinepresa esponendo alla luce 30 metri di pellicola, tagliata in diverse strisce, condita con sale e pepe come se fosse un arrosto o con spilli e puntine da disegno. Senza stacchi tra fotogrammi successivi, anticipando, ma con intenzionalità poetica zero, l'incisione diretta sul nitrato d'argento con graffi o deturpazioni varie di Brakhage o McLaren.
Questi film, flussi luministici e dinamici, pieni di effetti speciali prismatici e ottici, intervallati come interpunzioni, però, da sequenze di auto in corsa, pilotate da donne, margherite nei prati e piedi femminili ripresi ad altezza di piede, spiegano perché Ray sia lo scienziato della visione interiore e del suo inconscio ribelle. Arrivato a Parigi dagli Usa, aveva già anticipato con Duchamp il cinema in 3D e scoperto che l'immagine stereoscopica è liberatoria perché ci scioglie dalla rigidità prospettica, e ciascuno indipendentemente dagli altri. Quale architettura è più sfarzosa e gaudente, in Italia, dunque di Villa Manin per accogliere i rayographs e i ritratti interiori di Emmanuel Radnitsky, yiddish-polacco immigrato a Filadelfia, americanizzato in Man Ray?
Il suo quarto mediometraggio, Les Mystères di Chateau du Dés (1929), non è forse un viaggio surrealista nel caso, una bussola ironica per radiografare il proprio inconscio pulsante e penetrare, in automatico, alcuni misteri alto borghesi di una villa-castello, quella modernista di Mallet-Stevens a Saint Bernard?
Riaperta al pubblico solo di recente dalla regione Friuli per eventi culturali di rilievo, come la mostra dedicata a Robert Capa, villa Manin fu quartier generale di Napoleone in Italia e fu sede estiva dei dogi, prima che Campoformio cancellasse la Repubblica di Venezia. Questa estate hanno suonato nel suo gigantesco parco Metheny, Mannoia, Copossela e Fresu. E le armonie, questa volta di luci, la musica delle ombre, ma anche i tanti tentacoli acustici che Man Ray ha disperso nelle sue opere (contrabassi, Kiki di Montparnasse danzante come una donna Kalabari, chiavi di violino, lo swing, la Baker) torneranno nei saloni dove sono esposte le immagini di modernità sconcertante di questo artista che 100 anni fa dette del cubismo l'interpretazione più radicale. Vedere di più per agire meglio.

“pagina99we”, 27 settembre 2014

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