Bella recensione di una
mostra friulana su Man Ray, molto centrata sul rapporto del grande
surrealista con il cinema. Firmata R.S., molto probabilmente si deve
a Roberto Silvestri. (S.L.L.)
Man Ray, Venere |
Le opere di Man Ray,
antico maestro dell'arte moderna, sono in mostra a Villa Manin, a
Passariano di Codroipo (Udine), fino all'11 gennaio 2015. Quadri,
foto, oggetti d'affezione e film, lucidi manifesti teorici sulla
natura ottico-ritmica del cinema. Avventure dell'immaginazione
sfrangiate, flou, ironiche, illogiche ed erotiche come L'étoile
de mer (1928), dal poema di Desnos. L'uso del filtro diffrangente
che slabbra i contorni degli innamorati non è vezzo impressionista,
ma già alchemica scoperta di un mondo irridescente, dopo Cezanne e
prima di Bacon. Così il suo amico dadaista, artista e scacchista,
Marcel Duchamp definiva Man Ray: «sostantivo maschile, sinonimo di
gioia, giocare, godere».
Una parte delle
avanguardie e dello sperimentalismo, infatti, lavora sulle immagini
in movimento per regalare, anche involontariamente, forme nuove e
design più arditi e avveniristici al cinema di narrazione, artistica
o commerciale. Ma c'è un'altra parte della ricerca indipendente
dall'industria, estranea allo sfruttamento della società dello
spettacolo e al sistema professionale delle arti. È la vita che
questi rivoluzionari vogliono aprire, cambiare, liberare. Usando il
pennello e la cinepresa (e anche riviste alla moda, come “Harper's
Bazaar”) come mezzi al servizio dello spirito. A costo di
spazientire lo spettatore che, fin dal periodo muto è voglioso di
fiabe sempre uguali, si chiede la ragione di queste stravaganze.
Così nel 1926 Man Ray
introduceva Emak Bakia (in basco: non seccarmi): «È un
cinepoema con una certa sequenza ottica da cui nasce un insieme che
resta frammento. Come è possibile apprezzare meglio l'astratta
bellezza di un'opera classica in un suo frammento, piuttosto che
nella sua interezza, così questo film cerca di indicare l'essenziale
nella cinegrafia. Non è un film astratto o narrativo. Non è
sperimentale. È il risultato di un modo di vedere e di pensare».
Una forma di improvvisazione free analoga alla discontinuità
e non narratività della produzione inconscia. E anche di disgregare
il simbolico e inceppare le strutture istituzionali del fare
artistico e della ricezione. Circa 90 anni fa, il 16 luglio 1923, il
mediometraggio dadaista Le retour à la raison,
montaggio privo di alcuna ipotesi compositiva, di materiali
irrilevanti, apre la storia dell'anti-cinema, che arriverà fino a
Isou, ai situazionisti, alla Verifica incerta di
Alberto Grifi. L'irrilevanza e la decomposizione erano piuttosto
elaborate, però, come si legge nelle note di produzione di un film
girato senza cinepresa esponendo alla luce 30 metri di pellicola,
tagliata in diverse strisce, condita con sale e pepe come se fosse un
arrosto o con spilli e puntine da disegno. Senza stacchi tra
fotogrammi successivi, anticipando, ma con intenzionalità poetica
zero, l'incisione diretta sul nitrato d'argento con graffi o
deturpazioni varie di Brakhage o McLaren.
Questi film, flussi
luministici e dinamici, pieni di effetti speciali prismatici e
ottici, intervallati come interpunzioni, però, da sequenze di auto
in corsa, pilotate da donne, margherite nei prati e piedi femminili
ripresi ad altezza di piede, spiegano perché Ray sia lo scienziato
della visione interiore e del suo inconscio ribelle. Arrivato a
Parigi dagli Usa, aveva già anticipato con Duchamp il cinema in 3D e
scoperto che l'immagine stereoscopica è liberatoria perché ci
scioglie dalla rigidità prospettica, e ciascuno indipendentemente
dagli altri. Quale architettura è più sfarzosa e gaudente, in
Italia, dunque di Villa Manin per accogliere i rayographs e i
ritratti interiori di Emmanuel Radnitsky, yiddish-polacco immigrato a
Filadelfia, americanizzato in Man Ray?
Il suo quarto
mediometraggio, Les Mystères di Chateau du Dés (1929), non è
forse un viaggio surrealista nel caso, una bussola ironica per
radiografare il proprio inconscio pulsante e penetrare, in
automatico, alcuni misteri alto borghesi di una villa-castello,
quella modernista di Mallet-Stevens a Saint Bernard?
Riaperta al pubblico solo
di recente dalla regione Friuli per eventi culturali di rilievo, come
la mostra dedicata a Robert Capa, villa Manin fu quartier generale di
Napoleone in Italia e fu sede estiva dei dogi, prima che Campoformio
cancellasse la Repubblica di Venezia. Questa estate hanno suonato nel
suo gigantesco parco Metheny, Mannoia, Copossela e Fresu. E le
armonie, questa volta di luci, la musica delle ombre, ma anche i
tanti tentacoli acustici che Man Ray ha disperso nelle sue opere
(contrabassi, Kiki di Montparnasse danzante come una donna Kalabari,
chiavi di violino, lo swing, la Baker) torneranno nei saloni dove
sono esposte le immagini di modernità sconcertante di questo artista
che 100 anni fa dette del cubismo l'interpretazione più radicale.
Vedere di più per agire meglio.
“pagina99we”, 27
settembre 2014
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