Luciano Canfora, curatore delle opere di Costantino Simonidis |
Uno dei meriti della
querelle sul cosiddetto papiro di Artemidoro è aver fatto conoscere
al grande pubblico un personaggio che definire romanzesco è dir
poco. Né un Dumas né un Gide né un Ambler avrebbero potuto
concepire la sua vita rocambolesca con la genialità, la
spregiudicatezza e la fantasia con cui la inventò, e la visse, il
suo protagonista. Ma, si sa, la realtà ha sempre più immaginazione
della letteratura, ed è anche per questo che il primo volume delle
opere greche di Costantino Simonidis, ora pubblicato dalle Edizioni
di Pagina (pp. 422, € 22) con un ampio saggio introduttivo di
Luciano Canfora e una profusione di documenti di tale fantasmagorica
bizzarria da sembrare usciti dalla penna di un Rabelais se non di un
Borges, è molto più appassionante di qualsiasi romanzo.
Se fare della propria
vita un’opera d’arte è già di per sé un fine per alcuni, ciò
non impedisce di creare, nel suo corso, altri capolavori. Tali furono
gli abilissimi falsi di Simonidis. Il cosiddetto Artemidoro non è
certo il suo migliore, essendo anzi uno scarto, o meglio due,
accantonati entrambi dall’autore e solo in seguito assemblati e
riproposti, a più di un secolo dalla sua scomparsa, nella speranza
che la memoria di «quel greco che si circondava di molto mistero»,
e che appariva e scompariva negli scenari accademici più paludati
dell’Ottocento, fosse dileguata dalla sempre più corta memoria dei
moderni.
Ben prima degli attuali
autorevoli esperti, degli ignari acquirenti e del grande pubblico
anzitutto torinese affluito alla mostra di Palazzo Bricherasio nel
2006 per l’ostensione del manufatto, altri e più genuini - ci si
conceda l’ossimoro - falsi avevano beffato in passato i giganti
della filologia. Uno per tutti, il competentissimo Wilhelm Dindorf,
che con troppa sicurezza di sé avallò le fantastiche liste di re
egizi del falso manoscritto di Uranios, aiutando Simonidis a
piazzarlo all’Accademia delle Scienze di Berlino, e troppo
precipitosamente ne allestì l’edizione critica addirittura per i
tipi oxfordiani, con dotta prefazione e note latine, prima che
l’inganno fosse svelato e l’ingannatore arrestato dal più
celebre cacciatore di sovversivi della polizia di Berlino. Ma dopo
pochi giorni il prigioniero si rifugiò in Baviera.
Le vittime della sua
inesorabile maestria si contano in tutto il mondo, ma fu proprio il
mondo accademico inglese a annoverarne il maggior numero. Perché fu
qui che con funambolesca manovra Simonidis decise di non fabbricare
più pergamene o palinsesti, ma di lanciarsi sulla grande novità del
momento: i papiri, su cui si concentravano i compulsivi appetiti
degli studiosi, dopo le scoperte di quelli di Iperide. E fu qui che
trovò i suoi più sagaci complici nonché il suo mecenate e
protettore Joseph Mayer, assieme ai quali è immortalato nella più
rivelatrice delle fotografie che lo ritraggono: in piedi, la
sigaretta tra le dita, i favoriti a incorniciare i tratti regolari e
i profondi, bellissimi occhi, la redingote dall’immancabile bavero
di velluto, la cravatta scura bene annodata sul nitore della camicia.
La prima fase della sua
carriera, quella orientale, maturata nei grandi serbatoi di
manoscritti dei monasteri greci, in cui si era infiltrato, aveva
prodotto invece codici, ed epitomi «bizantine». Un «castello di
erudizione virtuale» creato fin da quando, lasciata l’isola di
Simi (dove era nato intorno al 1820), si era mosso tra l’Athos, cui
era approdato insieme con il misterioso «zio» Benediktos (chaperon,
padre spirituale, forse amante), e il Sinai, Odessa e Costantinopoli.
Qui aveva frequentato anche la famosa scuola teologica di Halki, oggi
purtroppo sbarrata dallo Stato turco. Ad Atene si era perfezionato
nella neonata Biblioteca Nazionale, simbolo del nuovo Stato greco,
arricchita fra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento da un
continuo e patriottico flusso di lasciti e donativi.
Se è vero che, come
scrive Canfora, «per snidare un falsario bisogna entrare nella sua
testa, familiarizzarsi con il suo ambiente, coi suoi meccanismi
mentali», non è da sottovalutare il sottotesto patriottico delle
gesta di Simonidis, che emerge carsicamente a volte nei suoi stessi
testi: si pensi alle micidiali invettive antinglesi della prefazione
ai (falsi) Kephalleniaka del (falso) Euliro; o alla denuncia
delle «orge» del missionario King, che cavalcando i pubblici umori
antiamericani divenne un vero e proprio affare di Stato.
È proprio nella Grecia
insulare, lasciata relativamente autonoma dall’impero ottomano, che
era nato il risorgimento greco: nella Patmiás, l’altra grande
scuola teologica del mondo ortodosso durante la turcocrazia, si era
formato Emmanuil Xanthos, che sull’isola di Patmos era nato ed era
stato tra i fondatori della Filikì Etería proprio a Odessa.
In questo centro nodale del patriottismo greco, e panortodosso covo
di spie, Simonidis aveva trovato il suo grande sponsor nel potente e
ambiguo Alexander Stourtzas, consigliere e segretario generale
(mystikos) dello zar Nicola, che lo impiegherà per missioni
di intelligence e favorirà il suo addottoramento all’Università
di Mosca con una dissertazione sul Chersoneso Cario, area geopolitica
all’epoca scottante.
La natura fortemente
politica dell’«eversione filologica» di Simonidis, il fervore
patriottico greco e l’odio per le grandi potenze continentali,
l’afflato neobizantino, insito peraltro fin da principio
nell’Eterìa, sono còlti dai suoi avversari e smascheratori, non a
caso studiosi prestati alla politica, o allo spionaggio: per esempio
il grande Mordtmann, in quella stessa Costantinopoli in cui l’unico
protettore di Simonidis resterà Romualdo Tecco, ambasciatore del
Regno di Sardegna e fedelissimo di Cavour. Non è forse un caso se
l’unico giornale che in quegli anni parla bene del falsario è
proprio “Il Risorgimento”: il quotidiano fondato da Cavour.
La Stampa, 30 agosto 2012
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