Italo Calvino trent'anni dopo, una ricorrenza che potrebbe (dovrebbe)
servire a disseppellire lo scrittore, ad assicurargli nel Novecento
il posto che merita, a verificarne l'attualità, secondo me
straordinaria.
Io comincio con il postare un necrologio di
particolare vigore e rigore etico, quello di Cesare Cases. Una
piccola notazione da professore in pensione: l'antica argomentazione
in pro dell'indifferenza verso la morte (“quando c'è lei non ci
siamo noi”) è più epicurea che stoica e, nella letteratura
latina, fu potentemente sviluppata e detta da Lucrezio ben prima che
da Seneca. Per la precisione. (S.L.L.)
Non si può parlare di un
amico appena morto come per fare una voce di enciclopedia, né
d'altra parte si può abbracciare qualsiasi cosa con la scusante
della commozione. Meglio, per la commozione, è di star zitta. Si può
invece provare a rispondere alla sola domanda che ci si è già posti
tante volte in vita: che cosa amavi o ammiravi o invidiavi di più in
lui? Per Calvino non avrei dubbi: il fatto che non era mai un
dilettante. Anche prima che gli intellettuali fossero presi nella
bufera infernale che li spinge a fare di tutto e da cui Calvino si
difendeva abbastanza bene, ma che non sarà forse estranea, in ultima
istanza, alla sua morte inattesa e precoce, egli aveva molte corde al
suo arco e nessuna mandava un suono improvvisato. La sua
straordinaria capacità di lavoro gli faceva trovare e assimilare
subito gli strumenti di cui aveva bisogno. In questo c'entrava
indubbiamente l'eredità dei genitori, entrambi scienziati. Portava
un certo abito mentale scientifico in campi in cui esso non è di
casa e in cui siamo tutti più o meno dilettanti.
Non era un dilettante,
ovviamente, come scrittore, anzi l'estrema perizia tecnica fu usata
talvolta contro di lui come capo d'accusa. Di Se una notte
d'inverno un viaggiatore si disse contemporaneamente che era
stato scritto per uso di Maria Corti e come bestseller
sofisticato. Ma egli stesso, in un famoso saggio, aveva distinto
gli scrittori "loici" dai "viscerali" ed egli era
certamente un "loico" (per Celine, il più viscerale di
tutti, non ebbe mai la minima simpatia anche quando era diventata
d'obbligo). L'essere loico lo
avvicinò talvolta alla letteratura come gioco, che a molti non
piace, ma gli permise di uscire dal realismo dei suoi primi libri,
che restano forse i suoi capolavori, quando fu passata l'ora storica
che l'aveva reso possibile. L'ultimo scritto di questo tipo, La
giornata di uno scrutatore, aveva poco mordente. L'esperienza non
serviva più, i registi cominciavano a coprire la natura di vernice.
Calvino, che nella trilogia aveva già usato l'irreale per fare del
realismo, si servì sempre più della parola per rendere attraverso
di essa l'esperienza della distruzione dell'esperienza.
Linguisticamente raggiunse la perfezione. Piacesse sia a Maria Corti
che al lettore comune, non meraviglia.
Non era un dilettante nel
lavoro editoriale, che per anni fu la sua occupazione principale, cui
accudiva con impegno e puntualità e con cui non perse mai il
contatto. Conosceva tutti gli aspetti del mestiere, ma era
soprattutto un lettore incomparabile di libri stranieri e di
dattiloscritti italiani, su cui, quando poteva, riferiva
personalmente nelle riunioni editoriali einaudiane. Cominciava, come
Hegel secondo i ricordi di Hotho, a fatica, con molta lentezza, con
balbettamenti e borborismi, muovendo un po' le braccia come per
aiutarsi; poi prendeva l'aire, si ricomponeva, parlava in tono
assorto per lo più col pugno sotto il mento, guardando davanti a sé
quando diceva le cose meno importanti e abbassando la testa e
atteggiando la bocca in espressione grave o beffarda quando arrivava
al dunque e il libro veniva ora lodato, ora dannato, ora ammesso con
la voce e negato con le labbra, dopo di che la testa si risollevava e
il tutto si suggellava con un assenso definitivo o con una risata
strozzata che esplodeva in quella degli ascoltatori. Era uno
spettacolo eccezionale, ma non era uno show, era anche questa una
tecnica seria in cui gli alti e i bassi, le pause, soprassalti, l'uso
della sordina e degli ottoni trasmettevano le fasi e i ripensamenti
di un processo di lettura tanto impegnativo quanto fruttuoso.
Non era un dilettante
come critico e come autore di interventi politici, finché valeva la
pena di farne. Ci mise Una pietra sopra, ma sotto quella
pietra ci sono molti saggi che occorre sempre rileggere. E non era un
dilettante come studioso di fiabe e di folklore, emulo di Pitré e di
Cosmo Guastella. In questo campo sapeva benissimo che, se avesse
voluto, i titoli per una cattedra non gli mancavano. Quando temeva di
non poter uscire dal dilettantismo, non esitava a far marcia
indietro. Verso il I960, dopo un viaggio negli Stati Uniti e uno in
Unione Sovietica — caso allora assai raro, non essendo ancora
cominciata la grande ridda degli scrittori giramondo — scrisse un
libro in cui metteva a confronto le due civiltà, insistendo (mi
disse qualcuno che l'aveva letto e apprezzato) sull'importanza della
geografia e rispettivamente della storia nella loro formazione. O che
questa chiave gli sembrasse troppo frivola, o che qualche specialista
gli avesse sconsigliato la pubblicazione, fatto sta che il libro —
di cui mi pare che fosse già apparsa qualche anticipazione in un
quotidiano — fu ritirato quando era già in bozze, e l'inesorabile
Calvino fece distruggere i flani perché nessuno potesse ristamparlo.
Quella volta ci mise davvero una pietra sopra. Non so se avesse
ragione o torto, so che nessun altro l'avrebbe fatto. Poi andò,
chissà, forse in Tanzania o in Indonesia: gli scrittori come i
professori non si possono più seguire nei loro spostamenti. Ma ch'io
sappia non tentò mai di persuaderci che aveva capito la Tanzania in
due giorni.
Non era un dilettante, e
quindi parlava e scriveva poco o nulla della morte, che non
conosciamo per la semplice ragione che quando c'è lei, diceva
Seneca, non ci siamo noi. Ma anche sulle malattie e sulle traversie,
di cui si può parlare con competenza, taceva. Ciò che gli piaceva e
che regalava ai suoi personaggi era l'avventura, l'imprevisto anche
se modesto, come lo spuntare dell'erba nelle crepe dei casermoni
delle città, per non parlare di quello che mobilitava tutte le
risorse della sua fantasia. Invece non sentiva il pathos della
sofferenza quotidiana. Uno dei suoi capi d'accusa era
l'autocommiserazione. "A me — diceva — non piacciono quelli
che si lamentano". Solo una volta mi parlò di quel suo
lunghissimo intestino che per anni gli diede seri disturbi. Ma non si
può dire che se ne lamentasse. Accennava con le mani all'atto di
sgomitolare per mostrare quanto fosse complicato e interminabile, con
un certo rassegnato disgusto come se si fosse trattato di un pessimo
romanzo, altrettanto complicato e interminabile, con cui doveva fare
i conti. Si capisce che non rientrasse nella categoria degli
scrittori "viscerali". È di lì, per quei visceri
insidiosi e rinnegati, che la morte avrebbe dovuto passare per
colpirlo, tra molti anni, forse anzi senza riuscirci mai perché si
sarebbe persa nel labirinto. Invece l'ha colpito nell'organo dei
"loici", in uno dei migliori cervelli della nostra
generazione, mentre era dedito a quell'operazione che compiva e
faceva compiere così bene: la lettura. La malizia della morte è
infinita e di fronte ad essa, purtroppo, siamo tutti dilettanti.
“L'Indice”,
settembre-ottobre 1985
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