Il seguente testo è una
prefazione al libro di Babeuf “Il tribuno del popolo”, tradotto
in italiano da Bruno Maffi e pubblicato nel settembre del 1945 da
Muggiani editore. Doveroso il ringraziamento alla redazione di Avanti
Barbari!, che ha rintracciato e trascritto il testo, pubblicandolo
nel marzo del 2008 sul proprio sito web. (S.L.L.)
Babeuf |
Se l'Ami du peuple
di Marat è la voce gonfia di sangue e di vita dei sanculotti
tripudianti nelle vie e nelle piazze che sono la loro certezza di
vittoria, il Tribun du peuple di Babeuf è il grido di un
sanculottismo battuto sul terreno dell'azione, ma che non rinuncia ad
affermare se stesso perché ha trovato, di là dai suoi tormenti
quotidiani - le due once di pane, la libbra di carne ogni cinque
giorni - la certezza di un'idea. Il quarto stato che vive come
energia elementare nelle ardenti colonne di giornale di Babeuf sa di
aver perduto; ma sa anche di avere con sé la forza della ragione e
della storia. In questa permanente lotta di classe di cui - egli lo
sa finalmente - la rivoluzione francese è solo un episodio, il
popolo dei senzabrache è insieme in anticipo e in ritardo sui fatti:
grava su di lui non solo un mondo vecchio nel quale egli non si
riconosce già più, ma un mondo nuovo per sopportare il quale le sue
spalle sono ancora gracili e le sue mani ancora inesperte. Al
«Manifesto dei Plebei» manca quello che sarà vivo, cinquant'anni
dopo, nel «Manifesto dei Comunisti»: non solo un cervello capace di
padroneggiare il cuore, ma l'arma tagliente di una classe.
Cinquant'anni non passano invano, quando significano la rivoluzione
industriale e la nascita del proletariato.
Il confronto con Marat
non è letterario: dietro l'«amico del popolo» si sente il mondo
agitato e pittoresco, terribilmente sanguigno della plebe: il pallido
e ricciuto «tribuno» è, nonostante tutto, nonostante una congiura
di popolo in un mondo di congiure di palazzo, un isolato. Marat muore
come uno dei tanti caduti della guerra civile: pozza di sangue fra
mille altre pozze di sangue, espressione di vita. Babeuf muore, nel
significato preciso e letterale della parola, da martire: per
affermare qualcosa che si agita nel grembo della vita sociale, ma
stenta, con quanta pena, a venire alla luce. La ghigliottina cade,
più che sulla testa di un uomo o di due, su tutto un periodo
storico. La storia, si sa, non ammette i problemi che non è ancora
capace di risolvere. La storia non ammette lo scandalo.
Il Babeuf del Tribun
du Peuple è il Babeuf maturo - maturo, vorremmo dire, per la sua
tragica fine. Strana parabola di un uomo apparso per la prima volta
sulla scena rivoluzionaria come autore di più o meno fantastici
progetti di leggi agrarie e di nuovi sistemi pedagogici, che vive nel
turbine dei primi mesi della Parigi piazzaiola con una ripugnanza
quasi femminea della violenza e del sangue, che si chiude poi
nell'ambiente di lotte locali e di agitazioni contadine della
provincia piccarda e che, rimasto ai margini degli anni epici della
rivoluzione, estraneo e quasi ostile al terrore giacobino, sale
infine alla tribuna di oratore e agitatore plebeo dopo il 94, quando
ormai la rivoluzione del terzo stato è fatta, e al sanculottismo non
resta che chiedere invano il compenso dei sacrifici patiti e della
lotta combattuta con tanto slancio. Strana parabola, ma storicamente
giustificata. In realtà, Babeuf è fino dal 90 fuori e al di là
della rivoluzione: le lettere a J. M. Coupé, che sono dell'agosto e
del settembre 91, vivono già in un clima che, con qualche
esagerazione, si potrebbe dire da Comune parigina, clima di
democrazia pura, in cui è annullato ogni distacco fra il popolo e i
suoi rappresentanti, fra potere legislativo e potere esecutivo, e
tutte le cariche elettive sono revocabili, e tutti i funzionari della
repubblica hanno trattamento identico e, in luogo dell'armata
permanente, v'è il popolo in armi, senza distinzioni di gradi o
gerarchie di carriera. Le stesse leggi agrarie, anche nella loro
formulazione primitiva portano Babeuf al di là di qualunque
costituzione repubblicana, di quella stessa costituzione del '93 che
diventerà più tardi il suo vessillo. In quel grande processo di
decantazione delle classi sociali ch'è stata la rivoluzione
francese, l'ora del «tribuno del popolo» suona appena quando la
borghesia, servitasi delle forze nascenti e ancora caotiche del
quarto stato, lo butta da parte come un inutile servo, ed è
abbastanza forte da lasciare che trovi, se può, la sua via. Il
terreno naturale di lotta di Babeuf è allora questo: il terreno di
una classe che ha ancora da trovarsi, e proietta un'ombra nitida solo
nel futuro. Perciò il suo gesto è disperato, e la sua morte è una
testimonianza o, se si preferisce, un preannuncio.
In queste condizioni,
Babeuf sarebbe forse rimasto un ideologo, un utopista, come il
settecento ne ha dati tanti, se, attraverso la sua esistenza di
plebeo in continua lotta per il pane, attraverso l'esperienza viva
delle lotte locali e un lungo e vario pellegrinaggio di prigione in
prigione, la sua personalità esuberante di pensatore e di uomo non
si fosse incontrata con la personalità ricca di forza e di miseria
della sua classe. Il finale riconoscimento del robespierrismo come
solida base dell'ideologia egualitaria, è, nonostante le
affermazioni di Babeuf, il riconoscimento non di una continuità
ideologica, ma piuttosto di una continuità sociale. Babeuf riprende
la marcia della Rivoluzione dal 9 termidoro, non perché esista un
rapporto diretto fra la costituzione del '93 e la teoria
dell'uguaglianza e del «bonheur commun», ma perché questa teoria
ha trovato le sue braccia e le sue gambe nell'ultimo lembo di
«popolo» che il termidoro, chiudendo il cerchio della rivoluzione
borghese, ha cacciato fuori dalla sua orbita, al di là dei limiti
stessi del giacobinismo. E, come questo popolo si agita nei primi
tormenti di una lotta alla quale non è ancora preparato perché
gliene mancano i più elementari strumenti, così l'ideologia del suo
«tribuno», per tanti versi profetica, non sa e non può staccarsi
ancora dal filo che la lega all'illuminismo o al moralismo dei
predicatori della solidarietà umana.
Pur così moderno sotto
tanti aspetti, il «comunismo» di Babeuf manca di un elemento
essenziale, l'elemento che è dato dal proletariato industriale: non
conosce la fabbrica, è tutto circoscritto all'ambito della terra,
dei suoi problemi vecchi come il mondo e insolubili fuori da questa
giovanissima esperienza storica che è l'esperienza proletaria.
Giunge appena alle soglie di una società che il quarto stato
presagisce, ma è incapace storicamente di costruire. Perciò
dicevamo che la lama della ghigliottina ha tagliato, a Vendome,
qualcosa più della sua testa: ha dato espressione drammatica al
taglio violento di una classe dai ceti nei quali era ancora
inglobata, e da una società nella quale continuava a vivere.
Perciò, anche, la parola
di Babeuf trova il suo accento più vero man mano che l'ultima eco
della Parigi rivoluzionaria si allontana e, col definitivo trionfo
del «milione dorato», svanisce ogni possibilità concreta di
continuare senza soluzioni la marcia della rivoluzione borghese. Più
Babeuf «si butta all'esagerazione» - come ebbe a dire il suo
editore Guffroy -, più la sua voce si fa calda e vibrante. Il Tribun
du Peuple è tutto in crescendo; e gli ultimi due articoli che
riproduciamo sono già la squilla delle future battaglie della
classe. Il Babeuf che accetta la rivoluzione, e perfino il termidoro,
come dati di fatto in cui inserire di sotterfugio la forza nuova del
riscatto sociale, è ormai più lontano di quel che dica la
cronologia; non v'è più nulla, nel mondo che gli sta intorno, a cui
possa aggrapparsi. Non v'è in lui, per questo mondo, né può
esservi, altro che odio.
La storia esterna del
Tribun du Peuple è presto fatta. Nasce il 14 vendemmiaio
dell'anno III, come 23° numero del Journal de la Liberté de la
presse. Babeuf è ancora antigiacobino; ma lo è per uno scrupolo
di democrazia vera, per repugnanza al terrore. Interrotto da un
ennesimo arresto di Babeuf, il giornale rivede la luce il 28 frimaio
(18 dicembre 1794) e, fino al nuovo arresto e al trasferimento ad
Arras nel marzo 1795, è tutto un grido di rivolta contro il
termidoro. I sei mesi di carcere ad Arras sono, per l'evoluzione
interna di Babeuf, tutta una vita. I ponti col passato e col presente
sono rotti: il «tribuno» diventa veramente tribuno. Non per nulla,
di là dai muri della prigione, ha intessuto rapporti con l' «armata
infernale»; non invano ha riempito fogli e fogli di una scrittura
minuta e elegante, conversando per lettera sulla società futura con
Charles Germain; non a caso, da settembre a ottobre, la giustizia
termidoriana ha riunito nelle stesse carceri parigine Babeuf,
Germain, Buonarroti. Il giornale riprende le sue pubblicazioni poco
dopo l'amnistia, il 15 brumaio dell'anno IV: ma è un foglio nuovo,
ardente, battagliero, scontroso, intollerante di ogni compromesso,
sdegnoso delle mezze misure, ansioso di fare in fretta, terribilmente
impaziente. E' un giornale di classe, e perciò di lotta.
Rapidamente, la critica, la polemica, la predicazione ideologica
cedono il passo all'agitazione rivoluzionaria. Nell'ombra, si tessono
le fila della congiura: anche a non saperlo, un lettore attento lo
intuisce. Poi, di colpo, al nr. 43, la voce si spezza. Siamo al 5
floreale. Il 21, Babeuf è arrestato per non uscire più.
Pochi giornali hanno, come questo, confuso la loro vita con quella di un uomo.
Pochi giornali hanno, come questo, confuso la loro vita con quella di un uomo.
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