L'americanista Portelli
commenta per “il manifesto” la notizia delle scuse che il
Parlamento della Virginia aveva rivolto alla popolazione nera per la
schiavitù cui i suoi antenati erano stati sottoposti. (S.L.L.)
Frederick Douglass
|
La schiavitù è stata
abolita negli Stati Uniti nel 1863. Nel 2007, il parlamento dello
stato della Virginia ha deciso che era stata un crimine e ha chiesto
scusa agli afroamericani. Un atto dovuto, e tutto sommato giusto,
anche se un po’ in ritardo. D’altronde, la Chiesa cattolica ha
impiegato qualche secolo a riconoscere che Galileo aveva ragione e la
terra gira intorno al sole; lo stato del Massachusetts ha aspettato
mezzo secolo dopo la loro morte prima di ammettere che Nicola Sacco e
Bartolomeo Vanzetti non avevano avuto un giusto processo; e il
presidente Clinton e la segretaria di stato Madeleine Albright hanno
chiesto scusa per i bombardamenti all’Honduras quarant’anni dopo.
Però, in questi anni di risorgente “medioevo”, con la
riabilitazione della tortura, la cancellazione dell’habeas
corpus, il risorgere delle teocrazie, il ritorno dell’accusa
del sangue e revisionismi storici di ogni genere, che un’istituzione
rinneghi almeno la schiavitù è a suo modo confortante.
La schiavitù evoca
immediatamente immagini di orrore: la frusta, lo sfruttamento nei
campi di cotone, le violenze sulle donne, le famiglie fatte a pezzi,
i cani alla caccia dei fuggiaschi nelle paludi… Eppure, nel più
importante romanzo moderno sulla schiavitù, Toni Morrison sceglie di
rappresentare una piantagione modello, con un padrone umano che
tratta gli schiavi come persone e non come cose – e lo fa per
sottolineare un orrore più profondo, che sta nell’esistenza stessa
dell’istituzione schiavista, negli Stati Uniti e altrove: la
riduzione legale di un essere umano a proprietà un altro essere
umano, giuridicamente equiparabile a un mobile o a un cane.
“Fummo tutti allineati
insieme per l’inventario,” scrive Frederick Douglass, nella sua
memorabile autobiografia di ex schiavo (1844): “Uomini e donne,
giovani e vecchi, sposati e celibi, tutti messi in fila con i
cavalli, le pecore, i maiali. C’erano cavalli e uomini, buoi e
donne, maiali e bambini, tutti collocati sullo stesso piano di
esistenza, e tutti soggetti allo stesso accurato scrutinio….”
Anche se il trattamento
non è inumano, allora, questo dipende solo dalla soggettività del
proprietario, che può cambiare idea quando gli pare. O dal fatto
che, con il passaggio della proprietà ad altri, ricomincino gli
orrori.
Perciò, quelle che non
senza ragione chiamiamo le moderne forme di schiavitù (e ce ne sono,
in certi campi di lavoro nascosti in Florida, e in tante parti del
“terzo mondo”) hanno in comune le violenze e le costrizioni, ma
somigliano più a carceri, campi di lavoro forzato, lager che alla
schiavitù in senso stretto: manca l’orrore freddo della proprietà
dell’uomo sull’uomo. E sono fuori legge; la schiavitù per cui
chiede scusa il parlamento della Virginia era non solo legale, ma era
la pietra angolare di una società intera, in un paese per altri
versi alfiere di libertà.
In Kentucky, un anziano
signore, proprietario di miniere e discendente di piantatori
dell’Alabama, mi mostra con orgoglio il libro-inventario della
piantagione dei suoi avi, redatto in occasione della divisione della
proprietà per eredità. Ben incolonnati, ci sono i nomi degli
schiavi, età, valore di mercato e una colonna di commenti. Accanto a
qualche nome c’è scritto “ruptured,” rotto; non c’è scritto
né come né perché, ma solo che il suo prezzo cala in proporzione.
Guarda caso, questo signore e suo padre sono stati gli ultimi
proprietari di miniere in America ad accettare di firmare il
contratto col sindacato minatori: le eredità della schiavitù durano
a lungo.
In un altro straordinario
romanzo recente, Legame di sangue (Kindred), Octavia Butler
immagina una protagonista risucchiata nel tempo dalla California di
oggi alla Virginia schiavista. Quando finalmente riesce a tornare
indietro, lascia letteralmente un braccio, strappato dal suo corpo,
laggiù in quel passato: se il viaggio nel tempo è una metafora
della memoria, allora quel braccio rimasto nel passato significa che
in quel passato ci stiamo ancora dentro, che è un pezzo di noi.
Legami di sangue, appunto: non solo sul piano letterale, derivanti
dalle violenze dei padroni sulle schiave, ma su un piano più
profondo, per cui la schiavitù non è solo una trauma nella storia
dei neri ma sta dentro le vene dell’America intera. Non basta un
voto in parlamento per liberarsene.
“In quel momento,”
scrive Douglass commentando la scena dell’inventario, “vidi più
chiaramente che mai gli effetti disumanizzanti della schiavitù tanto
sullo schiavo quanto sullo schiavista.” Sono intuizioni come queste
che fanno della sua autobiografia un capolavoro. Perché Douglass si
rende conto che, mentre negano giuridicamente che gli schiavi siano
esseri umani, i padroni sanno benissimo che lo sono; e allora, per
negare la loro umanità devono sopprimere anche la propria. Ed è in
questo effetto disumanizzante sull’aguzzino che la piantagione
somiglia a tutte le situazioni in cui una persona ha potere totale su
un’altra, e può prendere un prigioniero iracheno e metterlo al
guinzaglio insieme ai cani, neanche per “valutarlo” ma per
divertirsi.
Per questo, chiedere
scusa per la schiavitù va bene, ma bisogna pure trarne le
conseguenze, e dire basta a tutte le situazioni del genere – cosa
che il parlamento della Virginia si guarda bene dal fare. E poi, come
in tutte queste richieste di scuse che abbiamo visto negli ultimi
tempi, l’atto di chiedere scusa dovrebbe accompagnarsi al fare
qualcosa per rimediar, se possibile, gli effetti dei crimini passati.
La casa di produzione di Spike Lee si chiama 40 Acres and a Mule,
in ricordo della promessa non mantenuta di un po’ di terra e un
mulo per coltivarla fatta agli ex schiavi dopo la guerra civile. Non
alla lettera, certo, ma forse sarebbe ora di darglieli, questi
quaranta acri, o il loro equivalente moderno: quaranta acri di
giustizia, di uguaglianza, di cittadinanza, di rappresentanza
politica. Nel corso del tempo, i discendenti degli schiavi hanno
strappato molte conquiste ai discendenti degli schiavisti; sarebbe il
caso di portare a termine l’opera, coi fatti e non con le parole.
“il manifesto” 28 febbraio 2007
Nessun commento:
Posta un commento