30.1.15

IO NON SONO CHARLIE (Salvatore Lo Leggio - micropolis 1/2015)

“Je suis Charlie” è un tormentone: da Parigi, tra proclami, titoli e magliette, è rimbalzato perfino nella nostra provincia depressa, al vertice delle istituzioni locali. Campeggia, infatti, su palazzo Donini, sede della Giunta Regionale, benché sia del tutto improbabile che la presidente Marini si diverta con satirici sberleffi rivolti al Profeta dell'Islam o alla Trinità cattolica. 
In realtà slogan siffatti non sono una novità: si tratta, nella prima apparenza, di una manifestazione di solidarietà spinta all'estremo, fino a una dichiarazione di correità. Si cominciò con “io sono un ebreo polacco”; e in genere l'identificazione ha riguardato minoranze oggetto di pregiudizi e di emarginazione, prima ancora che di persecuzione violenta. Il proclamarsi ebreo, omosessuale, meridionale, zingaro, attua un principio di uguaglianza, amplia i confini dell'umanità. Questa volta invece il messaggio sottolinea una differenza, traccia una frontiera. La sua ambiguità è stata evidenziata dalla manifestazione di Parigi: destre e sinistre, laici e religiosi, governanti e comuni cittadini tutti insieme appassionatamente, con presenze imbarazzanti quali Netanyahu. Forte è il sospetto che – in Francia come in Europa - si voglia costruire una “unione sacra”, non soltanto contro terroristi e fanatici: Charlie è diventato bandiera dell'Occidente contro l'Oriente, della libertà contro il dispotismo, della tradizione giudaico-cristiana (considerata tutta una cosa, senza conflitti interni) contro l'islamismo, della civiltà contro la barbarie.
In Italia scalpitano figuri come Salvini o Giuliano Ferrara: chi a invocare la guerra, chi a sottolineare la primogenitura contro i “musulmani di merda”. Santanché straparla di superiorità della civiltà occidentale rispetto all'Islam, ma Massimo Cacciari, dopo aver definito questa affermazione una “stupidaggine colossale”, aggiunge che proprio Santanché è “la dimostrazione che non siamo una civiltà superiore". Spiega: "Personaggi come Hitler sono nati qui e due guerre mondiali non mi sembra siano state scatenate dall'Islam”. E tuttavia lo stesso raffinato filosofo si dichiara d'accordo con Ferrara, “quando dice che il problema è il Corano” e così reintroduce, sul terreno propriamente religioso, quella “inferiorità islamica” che sembra escludere nel più vasto campo della “civiltà”.
Non è il solo, del resto, ad attribuire al Corano una sorta di “irriducibilità”: qualcuno s'è spinto a individuare il peccato originale dell'Islam nel fatto che il suo libro sacro si ritenga dettato direttamente dall'altissimo, mentre i testi della Bibbia ne sono soltanto ispirati, il che li renderebbe interpretabili. Per questa ragione i cristiani avrebbero abbandonato le cacce agli eretici e alle streghe, lo spirito di crociata, i roghi e i battesimi forzati, le teorie sull'inferiorità peccaminosa della femmina e l'odio per la libertà di espressione, mentre gli islamici non sarebbero in grado di rinunciare alla loro guerra santa. 
E', con tutta evidenza, una forzatura. Che le epifanie del divino nella storia comportino una qualche relativizzazione del messaggio non è nozione estranea all'intellettualità islamica più avveduta: ci sono, per esempio, femministe che considerano il Corano ispiratore della parità fra i generi, se rettamente interpretato. L'idea che il Signore dettasse in modo da farsi intendere da Maometto come pure dalla gente del tempo e del luogo è, in fondo, lo stesso escamotage che ha consentito ai cristiani una lettura più disinvolta dei loro testi sacri.
Una spiegazione per la rigidità musulmana si trova meglio nella storia. Per effetto della lunghissima stagnazione sociale non c'è stata nel Medio Oriente islamico una Riforma protestante che valorizzasse la libera interpretazione individuale, né una radicale battaglia di laicizzazione della vita sociale come fu in Europa l'Illuminismo. Le resistenze in questo campo sono sempre dure: ancora nell'Ottocento liberale il papa cattolico Pio IX dalla sua cattedra “infallibile” emanava il proprio Sillabo contro la libertà di pensiero e di espressione. Oggi, peraltro, gli intellettuali laici del mondo musulmano non reggono al fallimento dei movimenti nazionalisti e delle tirannidi illuminate che avevano ispirato e sembrano condannati al silenzio.

Lasciamo dunque perdere i sacri testi; chiediamoci piuttosto le ragioni per cui i gruppi – tra loro frammentati e in concorrenza – che con azioni esemplari, attentati, rivolte e guerre progettano di realizzare una sorta di “totalitarismo musulmano”, vedano aumentare proseliti e simpatie tra la massa dei credenti sia in nei paesi islamizzati che nell'emigrazione musulmana. Da una parte sembra esaurito il richiamo dell'internazionalismo socialista e comunista e l'Islam diviene un surrogato per l'emancipazione dei più deprivati; poi su tutti agisce il “risentimento” per le politiche occidentali: le guerre irachene e i bombardamenti di Libia, la ferocia israeliana contro i palestinesi che trova coronamento a Gaza, la forme razzistiche con cui si è preteso di combattere il terrorismo dopo l'attentato alle Torri Gemelle, rappresentano una umiliazione cocente e un fattore di odio.
Per evitare che nelle comunità musulmane d'Europa e d'America gli integralisti e i terroristi si muovano sempre più come “pesci nell'acqua” servirebbero una revisione totale delle politiche mediorientali e più coraggiose politiche di integrazione. 
Ma non si faranno. 
La “guerra di religione” in atto accresce i profitti della grande finanza, ove gli occidentali sono spesso soci di quegli emiri che alimentano l'integralismo islamico. La “religione del capitale” è di tutte la più perniciosa.  

Nessun commento:

statistiche