“Je suis Charlie” è
un tormentone: da Parigi, tra proclami, titoli e magliette, è
rimbalzato perfino nella nostra provincia depressa, al vertice delle
istituzioni locali. Campeggia, infatti, su palazzo Donini, sede della
Giunta Regionale, benché sia del tutto improbabile che la presidente
Marini si diverta con satirici sberleffi rivolti al Profeta
dell'Islam o alla Trinità cattolica.
In realtà slogan siffatti non
sono una novità: si tratta, nella prima apparenza, di una
manifestazione di solidarietà spinta all'estremo, fino a una
dichiarazione di correità. Si cominciò con “io sono un ebreo
polacco”; e in genere l'identificazione ha riguardato minoranze
oggetto di pregiudizi e di emarginazione, prima ancora che di
persecuzione violenta. Il proclamarsi ebreo, omosessuale,
meridionale, zingaro, attua un principio di uguaglianza, amplia i
confini dell'umanità. Questa volta invece il messaggio sottolinea
una differenza, traccia una frontiera. La sua ambiguità è stata
evidenziata dalla manifestazione di Parigi: destre e sinistre, laici
e religiosi, governanti e comuni cittadini tutti insieme
appassionatamente, con presenze imbarazzanti quali Netanyahu. Forte è
il sospetto che – in Francia come in Europa - si voglia costruire
una “unione sacra”, non soltanto contro terroristi e fanatici:
Charlie è diventato bandiera dell'Occidente contro l'Oriente, della
libertà contro il dispotismo, della tradizione giudaico-cristiana
(considerata tutta una cosa, senza conflitti interni) contro
l'islamismo, della civiltà contro la barbarie.
In Italia scalpitano
figuri come Salvini o Giuliano Ferrara: chi a invocare la guerra, chi
a sottolineare la primogenitura contro i “musulmani di merda”.
Santanché straparla di superiorità della civiltà occidentale
rispetto all'Islam, ma Massimo Cacciari, dopo aver definito questa
affermazione una “stupidaggine colossale”, aggiunge che proprio
Santanché è “la dimostrazione che non siamo una civiltà
superiore". Spiega: "Personaggi come Hitler sono nati qui e
due guerre mondiali non mi sembra siano state scatenate dall'Islam”.
E tuttavia lo stesso raffinato filosofo si dichiara d'accordo con
Ferrara, “quando dice che il problema è il Corano” e così
reintroduce, sul terreno propriamente religioso, quella “inferiorità
islamica” che sembra escludere nel più vasto campo della
“civiltà”.
Non è il solo, del
resto, ad attribuire al Corano una
sorta di “irriducibilità”: qualcuno s'è spinto a individuare il
peccato originale dell'Islam nel fatto che il suo libro sacro si
ritenga dettato direttamente dall'altissimo, mentre i testi della
Bibbia ne sono soltanto ispirati, il che li renderebbe
interpretabili. Per questa ragione i cristiani avrebbero abbandonato
le cacce agli eretici e alle streghe, lo spirito di crociata, i roghi
e i battesimi forzati, le teorie sull'inferiorità peccaminosa della
femmina e l'odio per la libertà di espressione, mentre gli islamici
non sarebbero in grado di rinunciare alla loro guerra santa.
E', con
tutta evidenza, una forzatura. Che le epifanie del divino nella
storia comportino una qualche relativizzazione del messaggio non è
nozione estranea all'intellettualità islamica più avveduta: ci
sono, per esempio, femministe che considerano il Corano
ispiratore della parità fra i
generi, se rettamente interpretato. L'idea che il Signore dettasse
in modo da farsi intendere da Maometto come pure dalla gente del
tempo e del luogo è, in fondo, lo stesso escamotage
che ha consentito ai cristiani una lettura più disinvolta dei loro
testi sacri.
Una
spiegazione per la rigidità musulmana si trova meglio nella storia.
Per effetto della lunghissima stagnazione sociale non c'è
stata nel Medio Oriente islamico una Riforma protestante che
valorizzasse la libera interpretazione individuale, né una radicale
battaglia di laicizzazione della vita sociale come fu in Europa
l'Illuminismo. Le resistenze in questo campo sono sempre dure: ancora
nell'Ottocento liberale il papa cattolico Pio IX dalla sua cattedra
“infallibile” emanava il proprio Sillabo
contro la libertà di pensiero e di espressione. Oggi, peraltro, gli
intellettuali laici del mondo musulmano non reggono al fallimento dei
movimenti nazionalisti e delle tirannidi illuminate che avevano
ispirato e sembrano condannati al silenzio.
Lasciamo dunque perdere i
sacri testi; chiediamoci piuttosto le ragioni per cui i gruppi –
tra loro frammentati e in concorrenza – che con azioni esemplari,
attentati, rivolte e guerre progettano di realizzare una sorta di
“totalitarismo musulmano”, vedano aumentare proseliti e simpatie
tra la massa dei credenti sia in nei paesi islamizzati che
nell'emigrazione musulmana. Da una parte sembra esaurito il richiamo
dell'internazionalismo socialista e comunista e l'Islam diviene un
surrogato per l'emancipazione dei più deprivati; poi su tutti agisce il
“risentimento” per le politiche occidentali: le guerre irachene e
i bombardamenti di Libia, la ferocia israeliana contro i palestinesi
che trova coronamento a Gaza, la forme razzistiche con cui si è
preteso di combattere il terrorismo dopo l'attentato alle Torri
Gemelle, rappresentano una umiliazione cocente e un fattore di odio.
Per evitare che nelle comunità musulmane d'Europa e d'America gli
integralisti e i terroristi si muovano sempre più come “pesci
nell'acqua” servirebbero una revisione totale delle politiche
mediorientali e più coraggiose politiche di integrazione.
Ma non si
faranno.
La “guerra di religione” in atto accresce i profitti
della grande finanza, ove gli occidentali sono spesso soci di quegli
emiri che alimentano l'integralismo islamico. La “religione del
capitale” è di tutte la più perniciosa.
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