Una riflessione su un
fatto di cronaca già da tempo dimenticato eppure emblematico, la
contestazione all'inaugurazione della nuova stagione della Scala. La
lotta di classe non è finita e lo Stato non ha perso la sua impronta
classista. (S.L.L.)
Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2014. La polizia prepara la carica, |
Sono trascorsi alcuni
giorni, ma vale la pena di ritornare sulla prima di Sant’Ambrogio a
Milano, il 7 dicembre scorso, inaugurazione della stagione del Teatro
Alla Scala. Vale la pena di ritornarci, perché si è trattato di un
momento straordinariamente rivelatore, paradigmatico, della
situazione presente: italiana, ma non soltanto.
Quelle viste in Piazza
della Scala, erano le due facce del Paese che si fronteggiavano: i
ricchi – protetti, come sempre, dalle “forze dell’ordine” –
che volevano “soltanto” godersi lo spettacolo e la cena di gala,
consapevoli e lieti di far parte degli happy fews, da una
parte; dall’altra, i “vecchi” e “nuovi” poveri, gli
inoccupati, i licenziati, i cassintegrati, i senza casa, i precari,
che contestavano proprio quel diritto a coloro che ritengono
(giustamente) siano in gran parte responsabile della propria miseria.
Era la lotta di classe che si affacciava ancora una volta nella sua
dimensione elementare: scontro tra chi ha e chi non ha, tra chi
detiene potere finanziario, culturale, politico, e chi è non solo
deprivato di qualsiasi briciola di quel potere, ma ne viene
inesorabilmente allontanato ogni giorno di più.
I poliziotti fanno il
loro mestiere, incuranti della realtà di essere gente in miseria,
assoldati per tenere in miseria altri poveri, come notava Antonio
Gramsci, molti decenni or sono.
Qui si aprirebbe una
riflessione sul tema “forze dell’ordine”, che, nel decennio
Sessanta-Settanta, fu vivace e assai utile, ma che in seguito,
colpevolmente, è stata del tutto abbandonata, e gli effetti si
vedono. Le forze di polizia, nelle varie, troppo numerose e
scoordinate componenti, svolgono un lavoro ingrato, spesso in
condizioni molto difficili. Ma, difendendo lo Stato di diritto sono
costrette a difendere uno Stato ingiusto, un ordine che sempre più
si disvela come classista. E appunto il paradosso è che la
composizione sociale degli agenti e dei carabinieri (ancor più) è
medio-bassa, e le loro ragioni sociali li dovrebbero collocare dalla
stessa parte della barricata dove sono i proletari, i sottomessi, gli
sfruttati. Invece per il loro ruolo finiscono per stare dalla parte
dei potenti e dei ricchi: che sono i loro nemici naturali. E
nell’ultimo quindicennio/ventennio, sempre di più la ventata
democratica che aveva percorso soprattutto la Polizia di Stato negli
anni Settanta, a seguito di quel dibattito cui facevo riferimento, si
è illanguidita fino quasi a scomparire.
Come dimostra una serie
incessante di episodi, da Genova 2001 alle uccisioni dei poveri
Aldrovandi, Cucchi e così via, in un triste, troppo lungo
martirologio; senza citare poi gli episodi di corruzione che
coinvolgono le stesse forze che dovrebbero reprimerla. La sinistra,
soprattutto, ha avuto, fra i tanti torti, quello di lasciar cadere la
“questione polizia” che invece è una questione importante.
Ma torniamo a Milano. I
politici, quest’anno, si sono dati alla macchia, comprensibilmente:
il presidente della Repubblica, credo, per stanchezza (e forse anche
un po’ di senso del pudore); il premier, sono certo, per timore di
proteste, quelle proteste che lo stanno accompagnando come un’ombra.
Nessun capo di governo degli ultimi anni, Berlusconi compreso, ha
subito altrettante contestazioni: dovunque lo porti la sua agenda
politica, che sia una villa da meeting finanziario, o una fabbrica
dove ostentare la sua familiarità col lavoro “vero”, Renzi viene
preso a pernacchie, fischi e peggio. Dunque, saggiamente, ha evitato
la Scala, dove invece ha troneggiato la inutile figura di Pietro
Grasso, presidente del Senato, un uomo rivelatosi al di sotto di ogni
pur prudente aspettativa.
A rappresentare il
governo, c’era invece il figurino del ministro dei Beni Culturali,
Dario Franceschini, democristiano, bersaniano, renziano, che sta
alacremente lavorando per aziendalizzare e privatizzare quell’immenso
patrimonio di cui dovrebbe essere il supreme custode e valorizzatore
(ma forse qualcuno dovrà spiegargli che il valore di un bene non sta
nel suo prezzo mercantile). Mostrando un gran senso della politica e
soprattutto un gran rispetto verso chi non si identifica nel
renzismo, Franceschini ha fatto commenti a dir poco imbarazzanti: le
proteste? Rovinano l’immagine di Milano e dell’Italia. E per di
più possono danneggiare economicamente la città e la nazione,
impegnate nello sforzo titanico di preparazione dell’Expo 2015 (tra
alluvioni, conflitti di competenze, manifestazioni di incompetenza e,
naturalmente, mafia). Neppure il minimo sforzo di comprensione di
quello che accadeva fuori delle belle sale del più celebre teatro
europeo. Una reazione che aggiunge pepe sulla ferita, dimostrando la
lontananza siderale di questo ceto politico dall’Italia reale.
L’ultimo paradosso è
che il mirabile Fidelio di Beethoven, con cui si è aperta la
stagione scaligera, è un’opera “politica”, e dietro la storia
d’amore rappresenta la ribellione contro la tirannia, e l’esigenza
di dare voce agli oppressi. Nel finale del II atto, conclusivo, si
parla della necessità di coniugare “grazia” e “giustizia”.
Ma nel pomeriggio ambrosiano, a Milano, la grazia e la giustizia
erano sui fronti opposti della barricata. La grazia era nella musica
beethoveniana, nelle voci dei cantanti, nella perfetta direzione
orchestrale di Barenboim (il suo commiato), e anche nella efficace
messa in scena della regista Deborah Warner (pur ricordando con
nostalgia quella di Mario Martone, alla prima torinese del Teatro
Regio nel 2011); mentre la giustizia – l’ansia di giustizia –
era nella protesta della piazza, anche nei suoi aspetti più
discutibili. Può essere vera “grazia”, quella protetta dai
manganelli?
Dal blog di Angelo D'Orsi
nel sito di “Micromega”, 10 dicembre 2014
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