2.1.15

Scala di Milano. Grazia e giustizia a Sant’Ambrogio (Angelo D'Orsi)

Una riflessione su un fatto di cronaca già da tempo dimenticato eppure emblematico, la contestazione all'inaugurazione della nuova stagione della Scala. La lotta di classe non è finita e lo Stato non ha perso la sua impronta classista. (S.L.L.)
Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2014. La polizia prepara la carica,
Sono trascorsi alcuni giorni, ma vale la pena di ritornare sulla prima di Sant’Ambrogio a Milano, il 7 dicembre scorso, inaugurazione della stagione del Teatro Alla Scala. Vale la pena di ritornarci, perché si è trattato di un momento straordinariamente rivelatore, paradigmatico, della situazione presente: italiana, ma non soltanto.
Quelle viste in Piazza della Scala, erano le due facce del Paese che si fronteggiavano: i ricchi – protetti, come sempre, dalle “forze dell’ordine” – che volevano “soltanto” godersi lo spettacolo e la cena di gala, consapevoli e lieti di far parte degli happy fews, da una parte; dall’altra, i “vecchi” e “nuovi” poveri, gli inoccupati, i licenziati, i cassintegrati, i senza casa, i precari, che contestavano proprio quel diritto a coloro che ritengono (giustamente) siano in gran parte responsabile della propria miseria. Era la lotta di classe che si affacciava ancora una volta nella sua dimensione elementare: scontro tra chi ha e chi non ha, tra chi detiene potere finanziario, culturale, politico, e chi è non solo deprivato di qualsiasi briciola di quel potere, ma ne viene inesorabilmente allontanato ogni giorno di più.
I poliziotti fanno il loro mestiere, incuranti della realtà di essere gente in miseria, assoldati per tenere in miseria altri poveri, come notava Antonio Gramsci, molti decenni or sono.
Qui si aprirebbe una riflessione sul tema “forze dell’ordine”, che, nel decennio Sessanta-Settanta, fu vivace e assai utile, ma che in seguito, colpevolmente, è stata del tutto abbandonata, e gli effetti si vedono. Le forze di polizia, nelle varie, troppo numerose e scoordinate componenti, svolgono un lavoro ingrato, spesso in condizioni molto difficili. Ma, difendendo lo Stato di diritto sono costrette a difendere uno Stato ingiusto, un ordine che sempre più si disvela come classista. E appunto il paradosso è che la composizione sociale degli agenti e dei carabinieri (ancor più) è medio-bassa, e le loro ragioni sociali li dovrebbero collocare dalla stessa parte della barricata dove sono i proletari, i sottomessi, gli sfruttati. Invece per il loro ruolo finiscono per stare dalla parte dei potenti e dei ricchi: che sono i loro nemici naturali. E nell’ultimo quindicennio/ventennio, sempre di più la ventata democratica che aveva percorso soprattutto la Polizia di Stato negli anni Settanta, a seguito di quel dibattito cui facevo riferimento, si è illanguidita fino quasi a scomparire.
Come dimostra una serie incessante di episodi, da Genova 2001 alle uccisioni dei poveri Aldrovandi, Cucchi e così via, in un triste, troppo lungo martirologio; senza citare poi gli episodi di corruzione che coinvolgono le stesse forze che dovrebbero reprimerla. La sinistra, soprattutto, ha avuto, fra i tanti torti, quello di lasciar cadere la “questione polizia” che invece è una questione importante.
Ma torniamo a Milano. I politici, quest’anno, si sono dati alla macchia, comprensibilmente: il presidente della Repubblica, credo, per stanchezza (e forse anche un po’ di senso del pudore); il premier, sono certo, per timore di proteste, quelle proteste che lo stanno accompagnando come un’ombra. Nessun capo di governo degli ultimi anni, Berlusconi compreso, ha subito altrettante contestazioni: dovunque lo porti la sua agenda politica, che sia una villa da meeting finanziario, o una fabbrica dove ostentare la sua familiarità col lavoro “vero”, Renzi viene preso a pernacchie, fischi e peggio. Dunque, saggiamente, ha evitato la Scala, dove invece ha troneggiato la inutile figura di Pietro Grasso, presidente del Senato, un uomo rivelatosi al di sotto di ogni pur prudente aspettativa.
A rappresentare il governo, c’era invece il figurino del ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, democristiano, bersaniano, renziano, che sta alacremente lavorando per aziendalizzare e privatizzare quell’immenso patrimonio di cui dovrebbe essere il supreme custode e valorizzatore (ma forse qualcuno dovrà spiegargli che il valore di un bene non sta nel suo prezzo mercantile). Mostrando un gran senso della politica e soprattutto un gran rispetto verso chi non si identifica nel renzismo, Franceschini ha fatto commenti a dir poco imbarazzanti: le proteste? Rovinano l’immagine di Milano e dell’Italia. E per di più possono danneggiare economicamente la città e la nazione, impegnate nello sforzo titanico di preparazione dell’Expo 2015 (tra alluvioni, conflitti di competenze, manifestazioni di incompetenza e, naturalmente, mafia). Neppure il minimo sforzo di comprensione di quello che accadeva fuori delle belle sale del più celebre teatro europeo. Una reazione che aggiunge pepe sulla ferita, dimostrando la lontananza siderale di questo ceto politico dall’Italia reale.
L’ultimo paradosso è che il mirabile Fidelio di Beethoven, con cui si è aperta la stagione scaligera, è un’opera “politica”, e dietro la storia d’amore rappresenta la ribellione contro la tirannia, e l’esigenza di dare voce agli oppressi. Nel finale del II atto, conclusivo, si parla della necessità di coniugare “grazia” e “giustizia”. Ma nel pomeriggio ambrosiano, a Milano, la grazia e la giustizia erano sui fronti opposti della barricata. La grazia era nella musica beethoveniana, nelle voci dei cantanti, nella perfetta direzione orchestrale di Barenboim (il suo commiato), e anche nella efficace messa in scena della regista Deborah Warner (pur ricordando con nostalgia quella di Mario Martone, alla prima torinese del Teatro Regio nel 2011); mentre la giustizia – l’ansia di giustizia – era nella protesta della piazza, anche nei suoi aspetti più discutibili. Può essere vera “grazia”, quella protetta dai manganelli?


Dal blog di Angelo D'Orsi nel sito di “Micromega”, 10 dicembre 2014

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