24.1.15

Gastronomia italiana. Minestre povere e regali imbadigioni (Gianni Brera)

Quello che segue è uno scritto su commissione, opera di un giornalista e scrittore estroso e creativo, specializzato nello sport pedatorio, ma notoriamente appassionato di buoni cibi e buoni vini nonché amante del proprio glorioso campanile (quello del Duomo). Al centro del suo brillante divagare c'è l'idea che la gastronomia scritta sia lusso inutile. Il Luisìn di cui discorre è il grande Veronelli: del luogo in cui Brera colloca una sua scorrerìa, “Berodo di sopra”, non ho trovato traccia né in rete né altrove. In compenso ho scoperto che il “Beròdo” è un tipico sanguinaccio genovese, che immagino buono. (S.L.L.)
Beròdi (sanguinacci) liguri
Le paste, i risi, le audaci zuppe - i soffritti e gli odor io quivi canto...
Questi e non altri versacchiotti mi scappano dalla penna quando mi accingo a prender note per un articolo "De italicorum Gastronomia". E poiché parafraso il suo famoso attacco, mi domando se don Lodovico da Reggio avrebbe osato ribellarsi, qualora il suo Signore gli avesse chiesto di fornire in endecasillabi qualche ricetta famosa.
Io, per me, non posso: la mia Signora ha forte tiratura e presiede notoriamente ai pranzi miei e di tutti i miei eredi. Rendiamo quindi omaggio alla nevrosi di Vatel, che si trafigge di spada per non aver ricevuto in tempo il pesce da servire agli ospiti dei Condé. Non doveva essere un cuoco, come comunemente si crede, bensì un provveditore alle grascie: tuttavia i cuochi l'hanno scelto quale simbolo del loro sacrificio.
Nonché trafitti di spada, i cuochi sogliono render l'anima lessando nel proprio sudore accanto ai fornelli, anzi, alla "macchina" infuocata. La fine di Vatel li deve aver esaltati per l'insigne stoicismo che ha comportato (e quanto fosse fregnone non si calcola).
Fosse campato, magari avrebbe composto un traité du bon manger: ma forse non avrebbe osato svelare i sontuosi menus dei suoi signori. I Vatel l'avrebbero fatto una volta rimasti disoccupati per colpa della Grande Révolution. I nobili signori erano stati decapitati e i loro cuochi si erano messi in proprio.
Così è nata la grande cuisine francaise. E raca a tutti gli inguaribili fregnoni italocentrici, secondo i quali i derelitti francesi avrebbero incominciato a nutrirsi con un po' di decenza solo quando se ne venne da Firenze, con cuochi e vizi suoi, la magnifica Caterina de' Medici. Su queste balle riposano da secoli le nostre minestre povere, la nostra fame ereditaria, i nostri vinacci densi di sospensioni fecali.
Perché i francesi sono tanto bravi a produrre vino? Perdincibacco: perché i romani gli hanno insegnato a piantar la vite. Quindi se noi beviamo male, è solo per snob (sine nobilitate): non già perché siamo stupidi, come si ha qualche ragione di temere.
Le corti semi-paesane del Rinascimento italiano organizzano banchetti di cui conosciamo la "carta", cioè l'elenco delle portate, non le ricette. Graziosi imbecilli dediti alla gastronomia spropositano che i milanesi ricoprivano di lamelle d'oro i loro arrosti, al diavolo se si trattava di carni impanate d'uovo, dunque dorate: se questo vien rilevato, poi non si possono insultare i milanesi insinuando che la loro costoletta l'ha portata Maria Teresa.
So per certo che i lombardi sono di così bonaria fessaggine da consentire tutto, pure che si dimentichi come qualmente Milano sia stata per oltre cinque secoli — a partire dal Mille — la più ricca e popolosa città d'Europa. Quanto alla cucina, sghignazzate su tutta la linea. La moglie franca-come-uno-schioppo d'un collega bravo ed emiliano sente parlare di cucina lombarda, alza le spalle e dice con una smorfia : riso e prezzemolo... Il fatto che cinque-sei piatti lombardi figurino nei menus internazionali è puro accidente. La sostanza è che se vuoi mangiar bene devi 'ndare in Emiliae, dove nei tortellini si mette anche la panna, e il giorno dopo si mangiano in brodo, e il terzo giorno salti sulle tagliatelle, e poi sotto con i maltagliati.
La beata provincia sopravvive solo per le sue dolci illusioni. Non più tardi di ieri, tornando da Ascoli, faccio sosta a Fano, dalla "Quinta", per colazione. Menù? Spaghetti al sugo di pesce e un piatto di pesce assortito e arrosto, se ti garba. Uscendo scappa detto a Silver Maggi che siamo di Milano. «Allora mangiate male!» esclama un Pinco pieno di compassione. Lo guardo stranito. Dico: «Milano è la sola città italiana in cui funzionano almeno cinquanta ristoranti di valore europeo» «Sempre polemico» mi deplora il Pinco.
Gli mollerei volentieri una sberla. Ma poi rifletto che la colpa è nostra. Il mio amico Luisìn, famosissimo, gira l'Italia alla scoperta delle sue molte cucine ed epicizza anche l'arte di Carolina Parodi da Berodo di sopra. Quando vai a cercarla, ti additano la corte: i poderosi quarti di Carolina sovrastano un mastello sul quale è chinata, rossa in viso, ansante, sudata. Si mette ritta asciugandosi le mani sul grembiulone sozzo :«Cosa vuole lei?!» si meraviglia strabuzzando gli occhi : «mangiare oggi che è giorno di bucato?» Come resti di sasso, lei prende compassione. Dice: «Se mi scrive il giorno che torna, io due pansotti ce li faccio pure. Ma à ua (adesso) nu ghe semu no».
Quante Caroline Parodi nei poemi turistici di Luigino? Oggi gli inni al soffritto si sprecano. Nel favoloso Rinascimento non si scrive di cibi per evidente pudore sociale. Intorno alle corti gemono appetito i derelitti italiani. Sui palcoscenici, non appena si cerca di far vero, si consente alla fame di lanciare i suoi urli. Merlin Coccaio canta in esametri maccheronici la gloria dei cuochi che preparano banchetti di nozze. Tutto ciò che è sincero si rifa al ventre mai sazio.
I francesi sono ricchi e gloriosi (nel senso plautino di vantoni). Non avvertono pudori nel celebrare il bien manger. E bisogna riconoscere che hanno anche materia degna dei loro poemi. Io penso modestamente che il Paese nel quale si mangia meglio al mondo sia la Danimarca, non è tuttavia che in Francia si patisca a tavola. Ma da noi il dottor Pellegrino Artusi strappa a un nesci del suo paese, Alfredo Panzini, di cambiar titolo al suo manuale culinario; da "Via della cucina" a "Via della latrina".
Il dottore tesse le lodi del cavolo verzotto e altro ancora di adattissimo ai gusti di un cane bracco. Strano come siano ostinatamente rurali le memorie bio-storiche del nostro sangue. Sono intento a degustare l'ultima vendemmia del mio amico Moro e con lui discuto su come "chiude" il bicchiere: io così la penso e lui disapprova, contrasta, insulta. Nella disputa entrano quattro Veneti, molto orgogliosi della loro cucina:
«Sta' a vede' — sussurro al Moro — che per prima cosa citano pasta e fagioli». Neanche gliel'avessi suggerito: ma un po' tutti offendiamo il buon senso parlando di cucina, mentendo cucina, deformando cucina. E tutti inventano ricette infallibili. Sento Alfredo Valli dettarne una su un certo risotto alla pavese. La signora sua cliente prende attentissime note. Ed io non so resistere:
«Gentile signora, sono pavese anch'io. Sa come va giudicato Alfredo? Come un professore di italiano che dica: "Volete anche voi comporre l'Infinito? Procuratevi quindici endecasillabi sciolti e disponeteli secondo che l'orecchio consiglia... Ha capito, signora?».
I cuochi imbrogliano, gli autori imbrogliano: uno non precisa i tempi, l'altro dimentica le proporzioni delle vivande e dei condimenti, la forza del fuoco durante la cottura, eccetera eccetera. Ma poiché da qualche tempo abbiamo sconfitto la fame, rifiutandone clamorosamente l'eredità, così anche noi dedichiamo poemi al soffritto, al pomodoro, all'olio, alla cipolla, all'aglio, all'arrosto di codino, al cappello da prete, alle tre busecche tre dei lombardi, alla torta pasqualina di sciu' Baciccia, alla ribollita di Messer Dante.
Un serissimo storico della gastronomia è Massimo Alberini, che io rispetto e ammiro. Bene: recentemente ha pubblicato due ponderosissimi tomi sulla cucina siciliana, che egli sostiene essere la migliore d'Italia. Io conosco di laggiù i bucatini con le sarde al finocchio, esattamente come la moglie franca del collega bravo ed emiliano conosce della cucina lombarda il riso e prezzemolo.
Importante si ricordi che nulla vi è di più inedito della carta stampata e che far gemere i torchi con la gastronomia è più utile che sentire il prossimo spasimare per la fame. Dunque, signora, se anche lei vuoi comporre l'Infinito, si affretti a procurarsi quindici endecasillabi sciolti della miglior qualità. Eccetera, eccetera.


Da Invito a pranzo, supplemento a “la Repubblica”, 4 maggio 1985

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