Quello che segue è uno
scritto su commissione, opera di un giornalista e scrittore estroso e
creativo, specializzato nello sport pedatorio, ma notoriamente
appassionato di buoni cibi e buoni vini nonché amante del proprio
glorioso campanile (quello del Duomo). Al centro del suo brillante
divagare c'è l'idea che la gastronomia scritta sia lusso inutile. Il
Luisìn di cui discorre è il grande Veronelli: del luogo in cui
Brera colloca una sua scorrerìa, “Berodo di sopra”, non ho
trovato traccia né in rete né altrove. In compenso ho scoperto che
il “Beròdo” è un tipico sanguinaccio genovese, che immagino
buono. (S.L.L.)
Beròdi (sanguinacci) liguri |
Le paste, i risi, le
audaci zuppe - i soffritti e gli odor io quivi canto...
Questi e non altri
versacchiotti mi scappano dalla penna quando mi accingo a prender
note per un articolo "De italicorum Gastronomia". E poiché
parafraso il suo famoso attacco, mi domando se don Lodovico da Reggio
avrebbe osato ribellarsi, qualora il suo Signore gli avesse chiesto
di fornire in endecasillabi qualche ricetta famosa.
Io, per me, non posso: la
mia Signora ha forte tiratura e presiede notoriamente ai pranzi miei
e di tutti i miei eredi. Rendiamo quindi omaggio alla nevrosi di
Vatel, che si trafigge di spada per non aver ricevuto in tempo il
pesce da servire agli ospiti dei Condé. Non doveva essere un cuoco,
come comunemente si crede, bensì un provveditore alle grascie:
tuttavia i cuochi l'hanno scelto quale simbolo del loro sacrificio.
Nonché trafitti di
spada, i cuochi sogliono render l'anima lessando nel proprio sudore
accanto ai fornelli, anzi, alla "macchina" infuocata. La
fine di Vatel li deve aver esaltati per l'insigne stoicismo che ha
comportato (e quanto fosse fregnone non si calcola).
Fosse campato, magari
avrebbe composto un traité du bon manger: ma forse non
avrebbe osato svelare i sontuosi menus dei suoi signori. I
Vatel l'avrebbero fatto una volta rimasti disoccupati per colpa della
Grande Révolution. I nobili signori erano stati decapitati e i loro
cuochi si erano messi in proprio.
Così è nata la grande
cuisine francaise. E raca a tutti gli inguaribili fregnoni
italocentrici, secondo i quali i derelitti francesi avrebbero
incominciato a nutrirsi con un po' di decenza solo quando se ne venne
da Firenze, con cuochi e vizi suoi, la magnifica Caterina de' Medici.
Su queste balle riposano da secoli le nostre minestre povere, la
nostra fame ereditaria, i nostri vinacci densi di sospensioni fecali.
Perché i francesi sono
tanto bravi a produrre vino? Perdincibacco: perché i romani gli
hanno insegnato a piantar la vite. Quindi se noi beviamo male, è
solo per snob (sine nobilitate): non già perché siamo
stupidi, come si ha qualche ragione di temere.
Le corti semi-paesane del
Rinascimento italiano organizzano banchetti di cui conosciamo la
"carta", cioè l'elenco delle portate, non le ricette.
Graziosi imbecilli dediti alla gastronomia spropositano che i
milanesi ricoprivano di lamelle d'oro i loro arrosti, al diavolo se
si trattava di carni impanate d'uovo, dunque dorate: se questo vien
rilevato, poi non si possono insultare i milanesi insinuando che la
loro costoletta l'ha portata Maria Teresa.
So per certo che i
lombardi sono di così bonaria fessaggine da consentire tutto, pure
che si dimentichi come qualmente Milano sia stata per oltre cinque
secoli — a partire dal Mille — la più ricca e popolosa città
d'Europa. Quanto alla cucina, sghignazzate su tutta la linea. La
moglie franca-come-uno-schioppo d'un collega bravo ed emiliano sente
parlare di cucina lombarda, alza le spalle e dice con una smorfia :
riso e prezzemolo... Il fatto che cinque-sei piatti lombardi figurino
nei menus internazionali è puro accidente. La sostanza è che
se vuoi mangiar bene devi 'ndare in Emiliae, dove nei tortellini si
mette anche la panna, e il giorno dopo si mangiano in brodo, e il
terzo giorno salti sulle tagliatelle, e poi sotto con i maltagliati.
La beata provincia
sopravvive solo per le sue dolci illusioni. Non più tardi di ieri,
tornando da Ascoli, faccio sosta a Fano, dalla "Quinta",
per colazione. Menù? Spaghetti al sugo di pesce e un piatto di pesce
assortito e arrosto, se ti garba. Uscendo scappa detto a Silver Maggi
che siamo di Milano. «Allora mangiate male!» esclama un Pinco pieno
di compassione. Lo guardo stranito. Dico: «Milano è la sola città
italiana in cui funzionano almeno cinquanta ristoranti di valore
europeo» «Sempre polemico» mi deplora il Pinco.
Gli mollerei volentieri
una sberla. Ma poi rifletto che la colpa è nostra. Il mio amico
Luisìn, famosissimo, gira l'Italia alla scoperta delle sue molte
cucine ed epicizza anche l'arte di Carolina Parodi da Berodo di
sopra. Quando vai a cercarla, ti additano la corte: i poderosi quarti
di Carolina sovrastano un mastello sul quale è chinata, rossa in
viso, ansante, sudata. Si mette ritta asciugandosi le mani sul
grembiulone sozzo :«Cosa vuole lei?!» si meraviglia strabuzzando
gli occhi : «mangiare oggi che è giorno di bucato?» Come resti di
sasso, lei prende compassione. Dice: «Se mi scrive il giorno che
torna, io due pansotti ce li faccio pure. Ma à ua (adesso) nu ghe
semu no».
Quante Caroline Parodi
nei poemi turistici di Luigino? Oggi gli inni al soffritto si
sprecano. Nel favoloso Rinascimento non si scrive di cibi per
evidente pudore sociale. Intorno alle corti gemono appetito i
derelitti italiani. Sui palcoscenici, non appena si cerca di far
vero, si consente alla fame di lanciare i suoi urli. Merlin Coccaio
canta in esametri maccheronici la gloria dei cuochi che preparano
banchetti di nozze. Tutto ciò che è sincero si rifa al ventre mai
sazio.
I francesi sono ricchi e
gloriosi (nel senso plautino di vantoni). Non avvertono pudori nel
celebrare il bien manger. E bisogna riconoscere che hanno
anche materia degna dei loro poemi. Io penso modestamente che il
Paese nel quale si mangia meglio al mondo sia la Danimarca, non è
tuttavia che in Francia si patisca a tavola. Ma da noi il dottor
Pellegrino Artusi strappa a un nesci del suo paese, Alfredo Panzini,
di cambiar titolo al suo manuale culinario; da "Via della
cucina" a "Via della latrina".
Il dottore tesse le lodi
del cavolo verzotto e altro ancora di adattissimo ai gusti di un cane
bracco. Strano come siano ostinatamente rurali le memorie
bio-storiche del nostro sangue. Sono intento a degustare l'ultima
vendemmia del mio amico Moro e con lui discuto su come "chiude"
il bicchiere: io così la penso e lui disapprova, contrasta, insulta.
Nella disputa entrano quattro Veneti, molto orgogliosi della loro
cucina:
«Sta' a vede' —
sussurro al Moro — che per prima cosa citano pasta e fagioli».
Neanche gliel'avessi suggerito: ma un po' tutti offendiamo il buon
senso parlando di cucina, mentendo cucina, deformando cucina. E tutti
inventano ricette infallibili. Sento Alfredo Valli dettarne una su un
certo risotto alla pavese. La signora sua cliente prende attentissime
note. Ed io non so resistere:
«Gentile signora, sono
pavese anch'io. Sa come va giudicato Alfredo? Come un professore di
italiano che dica: "Volete anche voi comporre l'Infinito?
Procuratevi quindici endecasillabi sciolti e disponeteli secondo che
l'orecchio consiglia... Ha capito, signora?».
I cuochi imbrogliano, gli
autori imbrogliano: uno non precisa i tempi, l'altro dimentica le
proporzioni delle vivande e dei condimenti, la forza del fuoco
durante la cottura, eccetera eccetera. Ma poiché da qualche tempo
abbiamo sconfitto la fame, rifiutandone clamorosamente l'eredità,
così anche noi dedichiamo poemi al soffritto, al pomodoro, all'olio,
alla cipolla, all'aglio, all'arrosto di codino, al cappello da prete,
alle tre busecche tre dei lombardi, alla torta pasqualina di sciu'
Baciccia, alla ribollita di Messer Dante.
Un serissimo storico
della gastronomia è Massimo Alberini, che io rispetto e ammiro.
Bene: recentemente ha pubblicato due ponderosissimi tomi sulla cucina
siciliana, che egli sostiene essere la migliore d'Italia. Io conosco
di laggiù i bucatini con le sarde al finocchio, esattamente come la
moglie franca del collega bravo ed emiliano conosce della cucina
lombarda il riso e prezzemolo.
Importante si ricordi che
nulla vi è di più inedito della carta stampata e che far gemere i
torchi con la gastronomia è più utile che sentire il prossimo
spasimare per la fame. Dunque, signora, se anche lei vuoi comporre
l'Infinito, si affretti a procurarsi quindici endecasillabi
sciolti della miglior qualità. Eccetera, eccetera.
Da Invito a pranzo,
supplemento a “la Repubblica”, 4 maggio 1985
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