Un
Asor Rosa lucidissimo a una cerimonia della Fgci per la
beatificazione di Pasolini, alla metà degli anni Ottanta. Egli
capiva come pochi che cosa stava accadendo, anche se non s'accorgeva come il processo regressivo in atto negli anni di Craxi (e di Reagan e della
Thatcher) fosse appena agli inizi. Ora che il cerchio della
modernizzazione conservatrice sembra chiudersi, con il movimento
operaio sconfitto, con potentati e oligarchie sempre più potenti ed
oligarchici, con la macchina della disuguaglianza che funziona a
pieno regime, Pasolini può essere fatto santo e il suo sogno di
restaurazione dell'umile Italia popolana e povera può assolvere
pienamente alla funzione consolatoria, che ha quasi sempre
l'ideologia.
Anch'io credo, con l'Asor Rosa di quei tempi, che a un alto grado di
elaborazione poetica, anche quando alimentata dall'ideologia più
nostalgica e consolatoria, corrisponda - strutturato dall'immaginazione
artistica - un nocciolo positivo di conoscenza che può essere
estratto e persino usato. Così nel Pasolini che denunciava la fine
delle lucciole e che meglio di altri mostrava, da poeta, quanta
barbarie vi fosse nella rivoluzione consumistico-democratica che
aveva cambiato l'Italia tra gli anni Sessanta e i primi Settanta.
Resta vero quello che mio padre, uomo di destra ma con gli occhi
aperti, mi disse una volta: “Oggi un operaio se la passa meglio del
re di una volta: mangia meglio, si veste in modo più appropriato,
sente meno freddo e meno caldo, campa di più, viaggia di più, vede
e conosce molte più cose. E fa il figlio dottore o architetto”.
Lui pretendeva che fosse persino più libero di un re per la mancanza di preoccupazioni, segno che la
condizione operaia l'avvertiva da padrone (piccolo, ma padrone); ma
nel complesso non si sbagliava. Già oggi le cose non vanno più in
quel modo; e andranno sempre peggio. E non ci aiuteranno molto a
cambiarle in meglio i pasolinisti della decrescita. (S.L.L.)
Un dibattito intorno
all'attualità del "messaggio" pasoliniano, organizzato
dalla Fgci nazionale e tenutosi giorni or sono a Roma, con la
partecipazione di Pietro Ingrao, Enzo Siciliano, Beppe Vacca e mia,
ha suscitato echi e reazioni; ed Enzo Forcella, su queste stesse
colonne, vi ha dedicato cortesi e penetranti osservazioni.
Credo che il contributo
migliore al chiarimento di talune questioni consista da parte mia nel
fornire la stesura dell'intervento in quella sede da me pronunciato.
Eccolo.
Vorrei precisare, innanzi
tutto, che siamo stati chiamati a discutere non del Pasolini
scrittore, ma del Pasolini polemista e ideologo, o, per meglio dire,
della possibilità di un "uso" politico e civile oggi del
Pasolini uomo di cultura e personaggio pubblico. Nessuno meglio di me
vede gli intrecci tra questi due aspetti della sua personalità.
Tuttavia, una distinzione evidentemente è possibile, visto che
questa stessa distinzione viene messa dai giovani comunisti al centro
del dibattito. Si vuol sapere da noi, insomma, se l'analisi che
Pasolini ha fatto di un certo spaccato storico della società
italiana resiste al tempo, anzi, risulta per più versi
precorritrice, e si pone come un punto di riferimento utile e
legittimo per gli italiani d' oggi: soprattutto per i giovani
italiani d'oggi. La mia risposta è questa (sarebbe stata diversa, se
ci fosse stato chiesto di parlare di Pasolini scrittore e poeta). Ho
sempre dubitato, se non dell'efficacia polemica, del rigore analitico
di certe definizioni di Pier Paolo Pasolini.
Cominciamo dall'inizio.
Il tema del dibattito propostoci ingloba di peso una di queste
definizioni, forse la più famosa. Dice infatti: "Fuori dal
Palazzo: intellettuali e potere". Questa formula si presta a
infiniti equivoci: dice troppo; esprime una aspirazione, ma generica,
di liberazione; e al tempo stesso la confonde banalmente con i
bisogni di una pratica politica spicciola ed onnivora, di cui anche i
giovani comunisti sono - e non possono non essere - partecipi. Fuori
dal Palazzo: ma cosa significa questa formula, se la misuriamo con le
incombenze delle professioni e del vivere civile, alle quali, se mi
guardo intorno, nessuno di noi veramente si sottrae? Io sono da
sempre dentro quel Palazzo del Potere che è la Scuola (e, a dir la
verità, è una delle cose di cui mi vergogno meno). Altri, qui fra
noi, sono in quel Palazzo della Politica che è Botteghe Oscure.
Altri - a fare del bene o del male, ma, certo, sempre con enorme
strazio e difficoltà - dentro quel Palazzo per antonomasia che è il
Palazzo di Giustizia. Altri ancora dentro quel Palazzo dei Palazzi
che è il Parlamento italiano. Altri ancora dentro i Palazzi dello
Spettacolo e della Carta Stampata, altrettanto potenti e labirintici
di tutti gli altri già rammentati. Che vuol dire, dunque: Fuori dal
Palazzo? Vuol dire: "Fuori dal Palazzo!". Oppure: "Fuori
dal Palazzo?". E' un' intimazione, un' implorazione o una
domanda? C' è qualcuno che ci chiede seriamente di uscirne? Oppure
ci si chiede conto semplicemente di come ci stiamo, di cosa ci
facciamo?
La risposta - non è
difficile capirlo - muta nei due casi profondamente. Nel secondo,
infatti, il discorso si sposterà sulle forme e sulle pratiche del
potere: sull'architettura del Palazzo, più che sulla sua negazione.
Nel primo caso, invece, - e io voglio dire con chiarezza che
l'ipotesi che ne risulta mi sembra altrettanto legittima e forse più
comprensibile oggi dell' altra - la negazione del Palazzo metterà
decisamente in secondo piano i problemi della sua architettura. Ma
allora è la cornice politica dentro cui questo dibattito si svolge e
tale domanda viene posta, che non tiene più; che, anzi, diffonde su
tutto il nostro discorso un'ombra equivoca e strumentale.
"Intellettuali e
potere" - la seconda parte del nostro tema - assume anch'essa
una valenza duplice e contraddittoria, a seconda che la frase: "Fuori
dal Palazzo", si pronunzi: "Fuori dal Palazzo!", o:
"Fuori dal Palazzo?". Allora, diciamo che è un'inutile
ipocrisia non voler ammettere che il nesso intellettuali/potere in
tanto si pone, in quanto l'intellettuale ha accettato di stare dentro
un qualche Palazzo. Se ne sta fuori - e l'ipotesi mi sta bene, anzi
benissimo, a patto che all'intellettuale non si chieda poi tutto
quello che in genere tutti, anche i giovani comunisti, gli chiedono -
l'intellettuale non ha potere alcuno; e il nesso sarebbe posto in
maniera più corretta se si scrivesse, non "intellettuali e
potere", ma: "o intellettuale o potere".
O intellettuale o potere:
questo sì, è il nesso veramente tragico, la contraddizione non
inventata ma reale, con cui occorrerebbe misurarsi con atteggiamento
più lucidamente stoico e disincantato di quanto solitamente non
accada. Che dico: occorrerebbe. Con cui, in verità, ci si misura
ogni qual volta - e accade tutti i giorni - siamo spinti dalla nostra
perdurante (per quanto tante volte frustrata e disillusa) passione
politica e civile a trascinare il nostro progetto intellettuale, il
nostro essere intellettuale, nelle aule sempre più squallide dei
meccanismi istituzionali e dell'informazione. E' una contraddizione
reale, vissuta, sofferta. Una contraddizione che oscilla fra una
solitudine sempre più assoluta e totale (nei confronti anche dei più
vecchi compagni e amici) e la miseria pressoché obbligata (e
difficilmente esorcizzabile) della frequentazione, del contatto e
dell'"impegno". Ed è per giunta una contraddizione che
tende a gonfiarsi col tempo. E se è reale, e crescente, come capire
perché lo sia, - e perché ci porti così lontano dal polemismo del
Pasolini corsaro - senza dare un giudizio sulla situazione italiana,
sul che cosa è realmente accaduto e sul che cosa è per accadere?
A mio giudizio è
accaduto questo. Tra l' inizio degli anni Sessanta e la metà degli
anni Settanta c'è stata una grande avanzata della società e della
cultura italiana: non una grande, ma una grandissima rivoluzione
sociale, culturale e morale. Più libertà di pensiero (molta, molta
di più); una grande crescita dei soggetti individuali e collettivi;
una memorabile affermazione della razionalità operaia; una catena di
rotture traumatiche nel costume tradizionale; il superamento
tendenziale della mai abbastanza deprecata peculiarità italiana; e -
consensentitemi di dirlo con estrema franchezza, e anche
provocatoriamente -, intrecciata indissolubilmente con tutto il
resto, che senza quest'ultimo fattore non avrebbe potuto neanche
essere, una potente affermazione della civiltà dei consumi.
Non esito a dirlo: sono
un intellettuale comunista che si schiera a favore dell'omologazione
e della denazionalizzazione, se con tali termini s'intende
quell'insieme di processi così ben descritti dal vecchio Marx nella
quarta Sezione del Capitale e in molti punti dei Grundrisse,
quando individuava nell'accumulazione capitalistica quel formidabile
(e feroce) fattore di "eguagliamento" della società, delle
abitudini e delle esistenze umane, senza il quale non si sarebbe
neanche potuto pensare di iniziare un processo politico di
trasformazione. Insomma, tutto quello che Pasolini in quegli anni
trovava negativo e condannabile, io l'ho trovato positivo,
auspicabile e straordinariamente esaltante.
Come potrei, ora,
riconoscermi nella postuma rivendicazione delle sue condanne? Ciò
che allora serviva era ben altro che una condanna del nuovo emergente
e delle lacerazioni inevitabili da questo inferte al tessuto della
tradizione (di qualsiasi tradizione). Soltanto le "anime belle"
del progressismo d'ogni tempo e paese si sarebbero potute immaginare
un percorso di questa portata come dolce, lineare e consolatorio. In
ogni grande salto di civiltà c'è un elemento di barbarie. E un
elemento di barbarie c' è stato senza dubbio in questa Italia, che
io mi sforzo, evidentemente senza successo, di rievocare. Ma questo
elemento di barbarie va allevato ed educato nel quadro della civiltà
che muta: non distrutto.
E' avvenuto il contrario:
il sistema politico italiano nel suo complesso - senza eccezioni, lo
vorrei precisare - ha respinto indietro, insieme con l'elemento di
barbarie, anche l'Italia anticonservatrice e profondamente
antidemocristiana, che rompeva con la società arcaico-contadina e
anche - se vogliamo restare al tema - con la felice appartatezza del
Friuli e dell'Appennino pasoliniani. Non ho bisogno di dilungarmi
troppo sugli esiti di questo processo, che sono sotto gli occhi di
tutti. E' come se un'onda, alzatasi fino a lambire minacciosamente
gli scalini del potere, si fosse ritirata e placata. Il potere si è
ripreso a poco a poco - ma da un certo momento in poi sempre più
velocemente - tutto ciò che era stato costretto a mollare: a
dimostrazione ulteriore che l'accumulazione non è mai lineare, che
possono esserci rotture e salti all'indietro, se non c'è
l'intervento delle forze soggettive e coscienti. E, come sempre
accade quando fanno difetto le analisi razionali e quando c'è un
tracollo di quell'elementare presupposto ad ogni azione che è la
piena coscienza di sé, assistiamo in questi ultimi anni ad una
ripresa orgiastica di ideologia; quell'ideologia che proprio noi
credevamo di aver colpito al cuore per sempre proprio nel corso degli
anni Sessanta. Del resto, questo non dipende dalla responsabilità di
nessuno. Quando si verificano certe condizioni, c'è come una sorta
di automatismo in questa coazione a ripetere, in questa esposizione
fieristica del dejà vu: nel vuoto del sapere e dell' essere è
dilagata, come sempre, la falsa coscienza. Si costruiscono in fretta
veri e propri "sistemi di salvataggio", delle zattere della
Medusa, dove, senza accorgercene, si mangia tutti lo stesso cibo,
cioè la propria carne, perché non ce n' è un altro. Oppure si
trasferiscono di peso i vecchi concetti, la vecchia strumentazione
ideologica sui nuovi miti, perchè di un Mito, in una cultura
mitologica, comunque non si può fare a meno: il pasolinismo come
ruota di scorta del vecchio progressismo antifascista.
Questo discorso non ha
una conclusione, né poteva averla, dato il suo taglio. Per me, per
quanto mi riguarda, non vale la pena che di tentare di riallacciare
il filo spezzato. Ma mi guardo bene dallo scendere sul terreno delle
indicazioni, dei suggerimenti, dei consigli. Potrei dire soltanto che
mi ha incuriosito, attraverso questo ciclo di celebrazioni
pasoliniane, assistere in vitro proprio ad uno di quei processi di
omologazione culturale che, per altri versi, vengono criticati e
condannati da quelli stessi i quali li realizzano. Anche Pasolini,
adesso, ha una sua collocazione "positiva" nella coscienza
di molti. Lo scandalo, fattosi lezione, tende a diventare senso
comune; e questo lo si avverte persino nel clima di questa serata. E'
del tutto normale, lo dico senza ironia. La dimostrazione d'interesse
e di partecipazione che questi giovani comunisti hanno suscitato
intorno all'attualità di Pasolini, rivela essa stessa che -
effettivamente - Pasolini è, almeno per loro, attuale. Non resta che
prenderne atto. Per me, in un certo senso, anche questa non è che
una riprova dell'assunto iniziale. Anche qui fra noi, anche fra
questi giovani, o intellettuale o potere. Un'altra conferma che vale
la pena di ascoltare (il che non significa, certo, seguire, né
imitare) soltanto gli intellettuali inattuali.
“la Repubblica”, 15
ottobre 1985
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