Ultimamente in libri e
giornali s'è fatto un po' di rumore, soltanto un po' ma per nulla,
su Alessandro Manzoni scrittore e personaggio. Si riciclano casi
arcinoti della sua famiglia o si romanza qualche episodio della sua
vita, e tutto per scoprire che il Manzoni era un tipo strano e
tortuoso e che nelle faccende importanti si rimetteva a Dio. Nessuno
è rimasto sconvolto dal racconto di tali notizie, ma qualcuno s'è
preoccupato, nella presupposizione che il Manzoni sia già abbastanza
antipatico alla «generalità degli italiani» (questa è l'opinione
di Leonardo Sciascia) senza che occorra infierire sulle sue nevrosi e
miserie quotidiane e fissazioni devote. Ma quando mai il racconto
delle nevrosi e delle miserie quotidiane e delle fisse di uno
scrittore lo ha reso antipatico o l'ha diminuito agli occhi dei suoi
lettori? Anzi. Forse che immaginiamo Dante simpatico? O che dobbiamo
provare simpatia per Dostoevskij e Tolstoj?
Democristiano
illustre
Ma il punto,
naturalmente, non è questo. E non è neppure quello di stabilire che
a tutt'oggi, nonostante il cospicuo numero di contributi
memorialistici e biografici, non esiste una storia eccellente e
intera dell'uomo Manzoni (esistono ritratti, anche bellissimi,
aneddoti, agiografie, scorci o rappiccicature). Il punto è un altro
e Sciascia l'ha toccato ponendo una domanda (in «Tuttolibri» del 19
febbraio) alla quale ho l'impressione, ma posso sbagliarmi, non si
sia voluto dar peso: «Non c'è una insofferenza di fondo nei
riguardi di un'opera che è anche un disperato, inquietante ritratto
dell'Italia?». L'opera, si capisce, è I promessi sposi. Da
quando questo romanzo uscì in prima edizione, 1827, ci son sempre
stati i manzoniani e gli antimanzoniani e si discute sulle
«contraddizioni» dell'autore.
Era romantico e popolare,
è il massimo esponente del temperato romanticismo italiano. Macché
romantico, era ironico e razionalista, senza languori, rifiutava il
primato del sentimento e delle passioni, niente individualismi
eroici, nell'analisi dei personaggi tendeva al sociale. Ma allora era
un realista, un osservatore dei caratteri e dei costumi al lume delle
condizioni storiche! Eh no, un realista per modo di dire. Il suo è
un romanzo a tesi, di propaganda morale e ideologica, ingegnoso ma
angusto e freddo e uniforme nelle idee.
Era un ricco signore che
raccontava con garbo e umorismo un po' di storia e un po' di
fantasia. Ma non è vero che ha inventato il romanzo italiano
moderno? Che ha prodotto per primo la lingua naturale della nostra
narrativa? Macché naturale, la lingua del Manzoni è una bella
finzione, è artificiale, platonica, composita e puzza di
vocabolario.
Si potrebbe andare avanti
per un pezzo. Su ogni singola questione manzoniana è stato detto
bianco e poi nero e poi più bianco, e così via. Dieci anni fa due
studiosi, Barberi Squarotti e Guglielminetti, hanno raccolto in un
volume le testimonianze pro e contro Manzoni e, volendo, c'è da
divertirsi. Ma il punto è proprio questo. Manzoni ormai fa parte
dell'Italia, ce lo portiamo appresso dai banchi della scuola, dirne
bene o dirne male non fa quasi differenza.
Manzoni è il più
illustre democristiano, il più influente e complesso tra gli
scrittori moderati. Forse, e magari senza volerlo, è il più perfido
e sottile. Scegliendo per l'intreccio del romanzo i casi di due
modesti antieroi, giovani lavoratori aspiranti a una certa elevazione
sociale, contrastati e insidiati da un nobile tirannico e cialtrone,
il Manzoni veniva a insinuare, comunque andasse il tono del racconto,
una verità da tutti sentita e da pochi manifestata: che le faccende
dei poveri o degli «umili» non sono mai semplici.
In più, questa
convinzione veniva rinforzata e allargata, sul piano
ideologico-religioso, dal principio che la società «è un mistero
di contradizioni in cui la mente si perde, se non lo si considera
come uno stato di prova e di preparazione a un'altra esistenza». Di
qui il tema ossessivo e consolatorio della Provvidenza che compare in
tutti i momenti critici e che è annidato nel cuore stesso della
narrazione. Sennonché, e l'hanno notato molti attenti lettori, gli
enunciati riguardanti la Provvidenza sono messi in bocca quasi sempre
ai personaggi. Sono loro che vivono in una società clericale e la
pensano così.
In un sapientissimo
saggio di alcuni anni fa (Il romanzo senza idillio, Einaudi),
Ezio Raimondi ha approfondito questa osservazione rilevando che,
anche quando le formule sulla Provvidenza sembrano appartenere alla
voce del narratore, all'io narrante, in realtà non fanno che
riepilogare o riprendere il pensiero dei personaggi, come se a
esprimere quel ricorrente motivo di fede fosse un coro. Certo,
Manzoni condivide i presupposti di quella fede, ma in quanto
narratore si comporta da storico, da sociologo delle credenze e degli
stereotipi rituali.
Ecco donde nasce,
probabilmente, quell'insofferenza tutta laica di cui parlava
Sciascia. Perché in tutto quel credere e voler credere c'è come una
strategia disperata per tenere a bada la rassegnazione e imbastire
pazientemente la rivolta. Paese di sommosse, non di rivoluzioni;
questa è l'Italia storica di Manzoni; ma poi le rivoluzioni
avvengono lo stesso, nell'economia individuale, con quel Renzo
Tramaglino che alla fine, tra il poderetto e l'industria del
filatoio, sceglie l'industria...
Il lago di Como e
il Gange
Anche la famosa
«saggezza» del Manzoni ha l'incanto della perfidia, basta
ricordarsi una delle tante battute riferite dal Tommaseo nei
Colloquii. Discorrevano sulla poesia e anche qui, come nella
prosa, l'idea del Manzoni era che la lingua in versi non dovesse
allontanarsi dall'uso, e poi in conclusione: «Non conviene che la
poesia venga a disturbare le cose di questo mondo». C'è sempre un
ammicco, un sottofondo in tutto quello che dice e fa.
Il nostro unico grande
romanziere cattolico procede in un intrico culturale meraviglioso che
non cessa di affascinare i lettori. Raimondi ha scoperto una
dimensione «galileiana» nel modo in cui la scrittura di Manzoni
visualizza i fenomeni esistenziali. Ed è abbastanza recente un'altra
sorprendente scoperta di Giuseppe Bonaviri, che il famoso brano del
ramo del lago di Como è derivato dalla descrizione geografica
dell'India di qua dal Gange del padre Daniello Bartoli. Dopo aver
tanto deprecato l'ampollosità e la stravaganza della scrittura
secentista, il Nostro maliziosissimo e tortuosissimo letterato
riscrive, al principio del suo romanzo, il più squisito dei
secentisti! E nessuno se n'era accorto prima di Bonaviri (il suo
scritto è uscito nella rivista “Italia rustica”, n. 2,1978).
Sul personaggio Manzoni,
invece, niente di nuovo. O meglio: oggi ci si può rendere conto che
la sua immagine di uomo prudente e angosciato (e delizioso
conversatore) corrisponde alla complessità e all'ironica
drammaticità del suo romanzo. Manzoni era un uomo che capiva troppe
cose e ne aveva paura; sentiva il bisogno di certezze irrefutabili
quanto più dubitava. Così per nascondere e umiliare il proprio
scetticismo lo schiaccia sotto una fede monumentale. Incontinente, si
appaga solo nel matrimonio. Moralista accanito, si salva
nell'umorismo. Teneva insieme enormi blocchi di antitesi.
Non parrà strano che
abbia vissuto continuamente il rischio della dissociazione,
esprimendolo in vistosi sintomi nevrotici: vertigini, svenimenti,
frenesie psicomotorie, odio per gli animaletti, fobie della folla,
del vuoto, della solitudine, dei rovesci d'acqua e delle chiese. Del
resto, aveva sempre i rimedi a portata di mano: la sedia a cui
appoggiarsi, la boccetta coi sali, l'amico scelto per accompagnarlo
nelle lunghe passeggiate. Ma nessuno, neppure in famiglia, prese mai
molto sul serio queste prove d'angoscia.
Gli altri, la madre, le
mogli, gli amici, i consiglieri spirituali gli forniscono
premurosamente rimedi e soluzioni ai conflitti nevrotici. Altre
difese le escogita lui, «ispirato» — come disse felicemente
Pietro Citati in un suo ritratto — «dall'astuzia dei deboli». Ma
la debolezza di Manzoni è la conseguenza del dover sostenere e
amministrare le pulsioni e le idee più discordanti. Nel secondo
capitolo del Fermo e Lucia (capostipite dei Promessi sposi,
scritto tra il 1821 e il . 1823), e è un passo poi espunto dalle
successive redazioni del romanzo e che suona assai significativo
circa il pensiero e il carattere dell'autore: «se un uomo non
dovesse star tranquillo che dopo d'aver messe d'accordo tutte le sue
idee, non vi sarebbe più tranquillità».
Non c'è dunque da
stupirsi se periodicamente si rinnovano le insofferenze nei confronti
di Manzoni. E' troppo italiano, troppo democristiano, e custodisce
troppo gelosamente i suoi segreti; e anche di quelli ignoti a lui
stesso sembra un custode ineccepibile. Gli ultimi tempi, che perdeva
un po' la memoria e spesso si confondeva (era sugli
ottantasei-ottantasette anni), diceva ai visitatori: «Siete venuti a
vedere che divento imbecille?»
Non so che cosa avreste
risposto voi al glorioso vegliardo, nel caso foste andati a
visitarlo. Io, perfidia per perfidia, su quel punto gli avrei
risposto con un sorriso smagliante a bocca chiusa.
“la Repubblica”,
ritaglio senza data, quasi certamente tra la fine del 1982 e l'inizio
del 1983.
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