23.1.15

Quando Manzoni sviene (Alfredo Giuliani)


Ultimamente in libri e giornali s'è fatto un po' di rumore, soltanto un po' ma per nulla, su Alessandro Manzoni scrittore e personaggio. Si riciclano casi arcinoti della sua famiglia o si romanza qualche episodio della sua vita, e tutto per scoprire che il Manzoni era un tipo strano e tortuoso e che nelle faccende importanti si rimetteva a Dio. Nessuno è rimasto sconvolto dal racconto di tali notizie, ma qualcuno s'è preoccupato, nella presupposizione che il Manzoni sia già abbastanza antipatico alla «generalità degli italiani» (questa è l'opinione di Leonardo Sciascia) senza che occorra infierire sulle sue nevrosi e miserie quotidiane e fissazioni devote. Ma quando mai il racconto delle nevrosi e delle miserie quotidiane e delle fisse di uno scrittore lo ha reso antipatico o l'ha diminuito agli occhi dei suoi lettori? Anzi. Forse che immaginiamo Dante simpatico? O che dobbiamo provare simpatia per Dostoevskij e Tolstoj?

Democristiano illustre
Ma il punto, naturalmente, non è questo. E non è neppure quello di stabilire che a tutt'oggi, nonostante il cospicuo numero di contributi memorialistici e biografici, non esiste una storia eccellente e intera dell'uomo Manzoni (esistono ritratti, anche bellissimi, aneddoti, agiografie, scorci o rappiccicature). Il punto è un altro e Sciascia l'ha toccato ponendo una domanda (in «Tuttolibri» del 19 febbraio) alla quale ho l'impressione, ma posso sbagliarmi, non si sia voluto dar peso: «Non c'è una insofferenza di fondo nei riguardi di un'opera che è anche un disperato, inquietante ritratto dell'Italia?». L'opera, si capisce, è I promessi sposi. Da quando questo romanzo uscì in prima edizione, 1827, ci son sempre stati i manzoniani e gli antimanzoniani e si discute sulle «contraddizioni» dell'autore.
Era romantico e popolare, è il massimo esponente del temperato romanticismo italiano. Macché romantico, era ironico e razionalista, senza languori, rifiutava il primato del sentimento e delle passioni, niente individualismi eroici, nell'analisi dei personaggi tendeva al sociale. Ma allora era un realista, un osservatore dei caratteri e dei costumi al lume delle condizioni storiche! Eh no, un realista per modo di dire. Il suo è un romanzo a tesi, di propaganda morale e ideologica, ingegnoso ma angusto e freddo e uniforme nelle idee.
Era un ricco signore che raccontava con garbo e umorismo un po' di storia e un po' di fantasia. Ma non è vero che ha inventato il romanzo italiano moderno? Che ha prodotto per primo la lingua naturale della nostra narrativa? Macché naturale, la lingua del Manzoni è una bella finzione, è artificiale, platonica, composita e puzza di vocabolario.
Si potrebbe andare avanti per un pezzo. Su ogni singola questione manzoniana è stato detto bianco e poi nero e poi più bianco, e così via. Dieci anni fa due studiosi, Barberi Squarotti e Guglielminetti, hanno raccolto in un volume le testimonianze pro e contro Manzoni e, volendo, c'è da divertirsi. Ma il punto è proprio questo. Manzoni ormai fa parte dell'Italia, ce lo portiamo appresso dai banchi della scuola, dirne bene o dirne male non fa quasi differenza.
Manzoni è il più illustre democristiano, il più influente e complesso tra gli scrittori moderati. Forse, e magari senza volerlo, è il più perfido e sottile. Scegliendo per l'intreccio del romanzo i casi di due modesti antieroi, giovani lavoratori aspiranti a una certa elevazione sociale, contrastati e insidiati da un nobile tirannico e cialtrone, il Manzoni veniva a insinuare, comunque andasse il tono del racconto, una verità da tutti sentita e da pochi manifestata: che le faccende dei poveri o degli «umili» non sono mai semplici.
In più, questa convinzione veniva rinforzata e allargata, sul piano ideologico-religioso, dal principio che la società «è un mistero di contradizioni in cui la mente si perde, se non lo si considera come uno stato di prova e di preparazione a un'altra esistenza». Di qui il tema ossessivo e consolatorio della Provvidenza che compare in tutti i momenti critici e che è annidato nel cuore stesso della narrazione. Sennonché, e l'hanno notato molti attenti lettori, gli enunciati riguardanti la Provvidenza sono messi in bocca quasi sempre ai personaggi. Sono loro che vivono in una società clericale e la pensano così.
In un sapientissimo saggio di alcuni anni fa (Il romanzo senza idillio, Einaudi), Ezio Raimondi ha approfondito questa osservazione rilevando che, anche quando le formule sulla Provvidenza sembrano appartenere alla voce del narratore, all'io narrante, in realtà non fanno che riepilogare o riprendere il pensiero dei personaggi, come se a esprimere quel ricorrente motivo di fede fosse un coro. Certo, Manzoni condivide i presupposti di quella fede, ma in quanto narratore si comporta da storico, da sociologo delle credenze e degli stereotipi rituali.
Ecco donde nasce, probabilmente, quell'insofferenza tutta laica di cui parlava Sciascia. Perché in tutto quel credere e voler credere c'è come una strategia disperata per tenere a bada la rassegnazione e imbastire pazientemente la rivolta. Paese di sommosse, non di rivoluzioni; questa è l'Italia storica di Manzoni; ma poi le rivoluzioni avvengono lo stesso, nell'economia individuale, con quel Renzo Tramaglino che alla fine, tra il poderetto e l'industria del filatoio, sceglie l'industria...

Il lago di Como e il Gange
Anche la famosa «saggezza» del Manzoni ha l'incanto della perfidia, basta ricordarsi una delle tante battute riferite dal Tommaseo nei Colloquii. Discorrevano sulla poesia e anche qui, come nella prosa, l'idea del Manzoni era che la lingua in versi non dovesse allontanarsi dall'uso, e poi in conclusione: «Non conviene che la poesia venga a disturbare le cose di questo mondo». C'è sempre un ammicco, un sottofondo in tutto quello che dice e fa.
Il nostro unico grande romanziere cattolico procede in un intrico culturale meraviglioso che non cessa di affascinare i lettori. Raimondi ha scoperto una dimensione «galileiana» nel modo in cui la scrittura di Manzoni visualizza i fenomeni esistenziali. Ed è abbastanza recente un'altra sorprendente scoperta di Giuseppe Bonaviri, che il famoso brano del ramo del lago di Como è derivato dalla descrizione geografica dell'India di qua dal Gange del padre Daniello Bartoli. Dopo aver tanto deprecato l'ampollosità e la stravaganza della scrittura secentista, il Nostro maliziosissimo e tortuosissimo letterato riscrive, al principio del suo romanzo, il più squisito dei secentisti! E nessuno se n'era accorto prima di Bonaviri (il suo scritto è uscito nella rivista “Italia rustica”, n. 2,1978).
Sul personaggio Manzoni, invece, niente di nuovo. O meglio: oggi ci si può rendere conto che la sua immagine di uomo prudente e angosciato (e delizioso conversatore) corrisponde alla complessità e all'ironica drammaticità del suo romanzo. Manzoni era un uomo che capiva troppe cose e ne aveva paura; sentiva il bisogno di certezze irrefutabili quanto più dubitava. Così per nascondere e umiliare il proprio scetticismo lo schiaccia sotto una fede monumentale. Incontinente, si appaga solo nel matrimonio. Moralista accanito, si salva nell'umorismo. Teneva insieme enormi blocchi di antitesi.
Non parrà strano che abbia vissuto continuamente il rischio della dissociazione, esprimendolo in vistosi sintomi nevrotici: vertigini, svenimenti, frenesie psicomotorie, odio per gli animaletti, fobie della folla, del vuoto, della solitudine, dei rovesci d'acqua e delle chiese. Del resto, aveva sempre i rimedi a portata di mano: la sedia a cui appoggiarsi, la boccetta coi sali, l'amico scelto per accompagnarlo nelle lunghe passeggiate. Ma nessuno, neppure in famiglia, prese mai molto sul serio queste prove d'angoscia.
Gli altri, la madre, le mogli, gli amici, i consiglieri spirituali gli forniscono premurosamente rimedi e soluzioni ai conflitti nevrotici. Altre difese le escogita lui, «ispirato» — come disse felicemente Pietro Citati in un suo ritratto — «dall'astuzia dei deboli». Ma la debolezza di Manzoni è la conseguenza del dover sostenere e amministrare le pulsioni e le idee più discordanti. Nel secondo capitolo del Fermo e Lucia (capostipite dei Promessi sposi, scritto tra il 1821 e il . 1823), e è un passo poi espunto dalle successive redazioni del romanzo e che suona assai significativo circa il pensiero e il carattere dell'autore: «se un uomo non dovesse star tranquillo che dopo d'aver messe d'accordo tutte le sue idee, non vi sarebbe più tranquillità».
Non c'è dunque da stupirsi se periodicamente si rinnovano le insofferenze nei confronti di Manzoni. E' troppo italiano, troppo democristiano, e custodisce troppo gelosamente i suoi segreti; e anche di quelli ignoti a lui stesso sembra un custode ineccepibile. Gli ultimi tempi, che perdeva un po' la memoria e spesso si confondeva (era sugli ottantasei-ottantasette anni), diceva ai visitatori: «Siete venuti a vedere che divento imbecille?»
Non so che cosa avreste risposto voi al glorioso vegliardo, nel caso foste andati a visitarlo. Io, perfidia per perfidia, su quel punto gli avrei risposto con un sorriso smagliante a bocca chiusa.


“la Repubblica”, ritaglio senza data, quasi certamente tra la fine del 1982 e l'inizio del 1983.

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