Museo del Prado, Madrid. L'Andata al Calvario, detto anche lo Spasimo di Palermo attribuito a Raffaello Sanzio |
Il professor Thomas
Brandt aveva appena terminato la lettura di un articolo pubblicato
vent'anni prima dal "Frankfurter Allgemein Zeitung" su un
curioso episodio verificatosi nell'aprile del 1787 a Caltanissetta,
durante il viaggio di Goethe in Sicilia. Lo aveva messo da parte con
il proposito di ritornarvi sopra e lo aveva ritrovato per caso
mentre, a modo suo, cercava di mettere ordine tra le carte
caoticamente sparse nello studio, ma, come succedeva ogni volta che
si proponeva di organizzare secondo i criteri di funzionalità e
praticità fogli, appunti, ritagli di giornale e riviste,
l'operazione era destinata al fallimento e la confusione sugli
scaffali e sulla scrivania cresceva. Sprofondato nella poltrona di
pelle, le gambe accavallate, sommerso dai libri ammassati alla
rinfusa, seguendo con lo sguardo l'ultima oscillante voluta del fumo
del sigaro che andava illanguidendosi, il professore aveva
un'espressione divertita: provava a ricostruire la scena al centro
della quale il grande poeta tedesco era circondato dai notabili
seduti in circolo nella piazza della città siciliana, intenti a
chiedergli notizie su Federico II. Ne nacque un equivoco: per non
deludere i suoi interlocutori, Goethe nascose la morte del re,
avvenuta l'anno prima a Karlsbad, senza nemmeno essere sfiorato dal
dubbio che non a Federico di Prussia si riferissero quelle persone in
vista, ma all'imperatore Federico II di Svezia...
Incipit de L'impostura
dell'Abate Staropoli di Sergio Mangiavillano (Prova d' Autore,
140 pagine, 10 euro). È un puzzle di imposture che si snoda sul
triangolo Palermo-Madrid-Caltanissetta. Protagonista della narrazione
un quadro realmente esistente, L'andata al Calvario,
conosciuto anche come Lo spasimo di Sicilia, dipinto da
Raffaello Sanzio nel 1516 e che da quasi cinque secoli si trascina
dietro una scia di misteri. Comprimari una serie di personaggi,
variamente rappresentanti le tipologie umane: munifici, rapaci,
beffardi, vendicativi, sognatori, bigotti, laici.
Sergio Mangiavillano,
preside nisseno in pensione, ai raggiri storici - che hanno come
capofila lo sciasciano abate Vella de Il consiglio d'Egitto -
ha preso gusto. Nel precedente romanzo La venerabile impostura
narra la drammatica vicenda umana di monsignor Ignazio Zuccaro,
palermitano vescovo di Caltanissetta estromesso dal ministero, che
svolge con infinità umanità, "grazie" a un castello di
accuse costruite ad hoc dalle alte gerarchie che mal tollerano le sue
aperture liberali. Con il nuovo libro L'impostura dell' Abate
Staropoli (edizioni Prova d' autore, 140 pagine, 10 euro)
racconta le peripezie di un quadro che ancora oggi resta imprigionato
in una ragnatela di supposizioni: sottratto a un convento con la
prepotenza da un ambizioso viceré di Sicilia, regalato al re di
Spagna, forse distrutto da un furente benedettino, copiato da più
artisti, sospettato, infine, che sia stato trafugato e nascosto a
Caltanissetta e che quello del Museo Prado di Madrid, dove
attualmente è esposto, sia solo una pregevole copia. Su una vicenda
storica di cui esiste ampia documentazione l'autore innesta una serie
di sviluppi di fantasia che rendono intrigante.
La ricostruzione dei
diversi periodi in cui si sviluppa la narrazione - Cinquecento e
Seicento soprattutto - è pregevole e ci aiuta a capire di come
l'attuale decadenza dell'Isola abbia le radici proprio in quei secoli
spagnoli. Mangiavillano ricorre a un espediente che ricalca quello
Stefano Pirandello in Timor sacro (Bompiani): un prologo in
cui lo scrittore accredita uno studioso come l'autore che si accinge
a scrivere il romanzo in questione. In questo caso si tratta di un
professore tedesco che si appassiona al quadro di Raffaello e resta
impelagato in una ricerca che lo appassiona e lo sfianca.
Ecco la parte vera della
storia: per onorare una promessa della moglie Eulalia, il nobile
palermitano Giacomo Basilicò costruisce il monastero dello Spasimo
per i frati di Olivetiani dell'ordine di San Benedetto. Su
suggerimento di Antonello Gaggini, che scolpisce l'altare della
Chiesa annessa, commissiona a Raffaello il quadro che deve
troneggiare al centro. Il dipinto ultimato (dalle dimensioni di un
metro e ventotto per un metro e quindici) viene spedito dall'Urbinate
a Palermo via mare. Ma una tempesta si mette di traverso ingoiando la
nave, i marinai e il carico. Il quadro, fortunatamente sigillato
dentro una cassa, scampa alla distruzione e viene recuperato al largo
di Genova. Con l'alone di opera miracolosa viene trasferito nel
monastero a cui è destinato. Sull'Andata al Calvario - in cui
spicca una dolente Madonna che vede suo figlio franare sotto il peso
della croce - si concentrano gli appetiti del viceré don Fernando
d'Ayala, la cui arroganza gli impedisce di capire dove si trovasse e
con chi avesse a che fare. Così impone all'abate del convento
Clemente Staropoli di consegnargli il Raffaello, per regalarlo a re
Filippo, al fine di ingraziarselo. Da qui comincia la finzione.
Mangiavillano, facendo
leva sul sospetto, varie volte affiorato nei secoli, che al regnante
spagnolo sia stato rifilato un falso, immagina che l'abate abbia
nascosto grazie al nobile nisseno Moncada l'originale e consegnato al
viceré un pregevole falso realizzato dal Polidoro, pittore in voga
al tempo. Filippo, raffinato intenditore d'arte si rende conto che si
trova davanti a una copia, per ragion di stato abbozza (che nessuno
possa pensare che sua maestà possa essere stato raggirato), fa
collocare il quadro in prestigiosa sede, poi con il tempo si vendica
dell'Ayala non confermandolo nel vicereame. L'autore ipotizza anche
che l'originale possa essere quello esposto al museo diocesano di
Caltanissetta, come da anni sostiene lo studioso Giuseppe Sorge, ma
recenti test scientifici smentiscono questa ipotesi, anche se resta
forte il dubbio che al Prado ci sia un falso. Attualmente ci sono una
mezza dozzina di copie dell'opera di Raffaello, la più pregevole,
dipinta da Pietro Fandulli, è collocata nella chiesa madre di
Castelvetrano. A Palermo un esemplare si trova esposto al Museo
Abatellis.
Dopo aver "giocato"
con le varie ipotesi, Mangiavillano ribalta le carte in tavola e
rivela la distruzione del capolavoro ricorrendo alla metafora del
martirio: «Con un cerimoniale, concepito con lucida follia, aveva
staccato la tavola dalla cornice, l'aveva avvolta con un sacco,
trascinata a ridosso dell'orto del monastero, e recitata una
preghiera, vi aveva appiccato il fuoco in nome della sua autorità di
Abate di Santo Spirito. Come l'Inquisizione, Clemente aveva
condannato il dipinto a un orribile, preventivo auto da fé perché,
una volta in possesso del d'Ayala, sarebbe diventato eretico. Il rogo
si addiceva a quel capolavoro per non cadere in mani impure e
assassine». E qui ci l'autore insinua quel filo di fanatismo che da
sempre, e temiamo per sempre, scorre nei meandri nelle cripte delle
chiese e nei sotterranei del potere.
la Repubblica, edizione siciliana, 8
gennaio 2012
Nessun commento:
Posta un commento