Machiavelli e il
mestiere delle armi. Guerra, arti e potere nell'Umbria del
Rinascimento. È questo il
titolo completo e in verità piuttosto lungo della mostra che da fine
ottobre può essere visitata a Palazzo Baldeschi, nel centro di
Perugia, fino al 25 gennaio. L'organizzano la Fondazione della Cassa
di Risparmio di Perugia e la Fondazione Cariperu Arte, che ne è
consorella, specializzata in acquisisizioni ed esibizioni di opere
d'arte.
Il
diavoletto che c'è dentro di me ha gioito quando ho avuto notizia di
codesta esposizione. In Umbria al dolciastro delle feste di Natale si
aggiunge sovente il dolciastro di un San Francesco e di un Capitini
falsificati da una interpretazione “paciosa”; finalmente – mi
diceva il maligno – verrà fuori l'Umbria dei capitani di ventura,
delle guerre crudeli, dei tradimenti e degli inganni. Tanto più se
principale promotore e curatore della mostra (insieme a Erminia
Irace, Francesco Federico Mancini e Maurizio Tarantino) è Alessandro
Campi, biografo simpatetico di Mussolini, già maestro pensatore del
polo berlusconiano in Umbria, poi un po' decaduto per essersi
lasciato tentare dell'avventura futurista di Fini.
Tra
le glorie di Campi c'è quella di aver additato come eroi patriottici
per il nuovo millennio quei due contractors che,
filmati nel momento della “esecuzione” dalla banda di assassini
che li aveva sequestrati nell'Iraq sconvolto dalla guerra, vollero
“fargli vedere come muore un italiano”. Per una mostra sui
“capitani di ventura” un tifoso dei mercenari era il non plus
ultra. Ma in questo sono rimasto francamente un po' deluso: non ho
letto l'esplicita rivalutazione delle milizie mercenarie (anche in
dissenso da Machiavelli) che mi ero immaginato, anche se non mancano
qua e là cenni di ammirazione.
Il
percorso parte da Niccolò Machiavelli, ricordato soprattutto come
teorico dell'arte della guerra e per quei capitoli del Principe,
dedicati alle milizie, in cui mostra una suprema diffidenza per i
mercenari. Nella prima stanza si ritrovano un piccolo ritratto del
grande fiorentino (se ne dirà più avanti), un manoscritto del
Principe, non
autografo ma antico e prezioso, conservato alla Biblioteca Augusta,
edizioni delle sue opere nel tempo e nello spazio, assaggi della sua
fama nel mondo attraverso monete, francobolli, giochi da tavolo.
Troppo poco in verità per dare un'idea dello sconvolgimento, dello
scandalo che la sua politica fondata “sulla realtà effettuale”
piuttosto che sulla “immaginazione di essa” produsse nella
cultura del Cinquecento europeo, cosa che gli valse la collocazione
del capolavoro nell'Indice dei libri proibiti dalla
Chiesa cattolica. La generalizzata fama di immoralista si diffuse
anche tra i protestanti, al punto che in Inghilterra fu usato il suo
nome per ribattezzare il demonio (lo si chiamò, e lo si fa tuttora,
“the old Nick”,
“il vecchio Niccolò”).
Nella
mostra seguono le stanze dedicate ai capitani di ventura, Braccio
Fortebraccio da Montone, i Vitelli di Città di Castello, i Baglioni
di Perugia e altri ancora. La divisione è per territori. Nella sala
dedicata al Nord il racconto della morte di Vitellozzo Vitelli che va
disarmato a Senigallia, ad opera di Cesare Borgia, è vicinissimo
(singolare associazione!) a un quadro che rappresenta il martirio di
Sant'Ubaldo e non è lontano (seppure in altra sala) è il “profeta
disarmato”, Savonarola, dipinto dal Brugnoli nel 1868. Negli spazi
riservati a Todi e al Trasimeno si ricostruisce la celebre Congiura
di Magione, ma la cosa che più
attira è la faccia cattiva di Doldrino Paneri da Panicale,
presentato in una tavola dipinta come “uno de' più invitti
guerrieri di cui parlano le Storie”. Nella sala dedicata alla
famiglia perugina dei Baglioni, Giampaolo, Malatesta, Braccio e
Astorre c'è una serie di ritratti, prevalentemente postumi, di
questi uomini d'arme. Fanno impressione due immagini secentesche.
Paolo (cioè Giampaolo) è un tipo grasso, rossiccio, semicalvo; lo
diresti un fratacchione più che un guerriero. Se guardi Malatesta
hai bisogno di accorgerti della corazza per immaginarne il mestiere:
la faccia è da giurisperito, un po' fessacchiotto, una specie di don
Ferrante.
La
successiva parte della mostra è dedicata all'arte a Perugia e nei
territori umbri. Vi viene documentata in particolare l'architettura
dei grandi e talora splendidi palazzi costruiti in epoca
cinquecentesca.
Nella
contigua sala video sono disponibili diversi audiovisivi su temi
connessi alla mostra. Mi dicono che siano interessanti quelli
relativi ai capitani di ventura. Quello che ho visto, dedicato al
Machiavelli, mi è sembrato ben fatto. Si finisce il giro con un
fuoco d'artificio: capitani a iosa e armi, quelle della famiglia
Baglioni: colubrine, elmi, lance e picche.
Attraverso
le sale si sono nel frattempo potute ammirare opere pittoriche di
artisti di varia età, da Matteo da Gualdo al Perugino, dallo Spagna
a Salvatore Fiume, e – interessante – il modello in legno della
Consolazione di Todi, attribuito al Bramante; in genere niente di
speciale, quasi sempre opere minori.
Il
giudizio di insieme è perplesso. Non ci sono strafalcioni, tutto (o
quasi) è scientificamente attendibile, ma c'è molta dispersione.
L'impressione è che la mostra si svolga su temi giustapposti,
Machiavelli, i capitani di ventura, l'Umbria del Cinquecento,
aggregando oggetti ed immagini disparate senza avere un centro. A me
ha fatto venire in mente le rubriche di curiosità dei settimanali
enigmistici, “Spigolature” o “Di tutto un po'”.
In
verità un allestimento così si giustifica solo se c'è il pezzo
forte, l'oggetto che calamita l'attenzione, cui tutto il resto fa da
contorno. E così forse la mostra era stata pensata. L'oggetto in
questione era il piccolo ritratto di Machiavelli che Alessandro Campi
ha fatto rientrare in Italia dalla Florida comprandolo tramite e-bay.
La scoperta veniva qualificata come importante non solo perché non
ci sono molte immagini di Machiavelli in giro, ma perché a questo
ritratto – già esposto in ottobre al Vittoriano di Roma – si
attribuiva una speciale antichità. Se non che uno storico di valore,
esperto dell'epoca e di cose artistiche, figlio di un grande
“machiavellista”, Massimo Firpo fu Luigi, sul “Sole 24 Ore”,
con solide argomentazioni, ha lasciato intendere che si tratta di una
copia secentesca (di un ritratto in ogni caso postumo). Campi se l'è
presa a male. Ha scritto che Firpo è un rappresentante delle
conventicole di sinistra che trattano da buzzurro e puzzone lui,
intellettuale di destra, se l'è presa con la stampa e
l'intellettualità perugina che non ha difeso la mostra ed ha
concluso che è tutta invidia. Non ho strumenti e competenze per
valutare il quadretto (ma Campi sembra non escludere l'ipotesi di una
copia, scrive: “e anche se lo fosse? Resterebbe una delle sei sole
immagini di Machiavelli”), ma ritengo comprensibile la rabbia.
Ridimensionato il valore dell'oggetto che avrebbe dovuto
rappresentarne il centro la mostra si è sfrangiata. Il diabolico
Machiavelli ha colpito ancora.
micropolis, dicembre 2014
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