4.1.15

La Moka sul gas (Carlo Di Foggia)

Nel declino industriale italiano, il genio si specchia. Le versioni differiscono, ma forma e materiali non sono cambiati: la Moka è sui fornelli da più di ottantanni. Dopo Milano, anche Roma (alle scuderie di Palazzo Ruspoli) celebra un prodotto delle vallate industriali dell'Ossola - Piemonte del Nord - che ha conquistato il mondo, e ora si costruisce in Romania mentre la storica Bialetti è ormai bresciana e tenta una riconversione verso il redditizio mercato delle capsule da caffè. In quella che fu la creatura di Alfonso Bialetti c'è il dna dei grandi marchi storici italiani entrati nel mito: l'officina in provincia, l'intuizione geniale e un figlio che raccoglie l'eredità, trasformandola in un oggetto di culto. La caffettiera dell'omino coi baffi deve il suo funzionamento alla "bollitura" dei panni delle donne di Omegna - anno 1933 (quello dell'Africa italiana che produce caffè) -, e la sua fortuna a Renato Bialetti, il figlio che intuì prima di tutti la portata rivoluzionaria del tubo catodico e degli investimenti pubblicitari. Se in dieci anni Alfonso ne vende solo 70 mila pezzi, la commercializzazione di fine anni 50 - quando dalla matita di Paul Campani nasce uno dei più noti protagonisti di Carosello (liberamente ispirato proprio a Renato) - proietta il marchio nell'immaginario collettivo. Con il ritornello "Eh si, sì, sì... sembra facile fare un buon caffè" i primi spot - gennaio 1958 - entrano nelle case degli italiani. L'omino coi baffi, tra brevi indovinelli e quiz musicali, dimostra l'assioma che una sola cosa è facile da indovinare: come preparare un ottimo espresso con la Moka. L'impatto sul fatturato è enorme: in breve tempo sostituisce i rivali e macina miliardi di lire. In numeri, fanno 200 milioni di esemplari e un mito segnato dall'ingresso della caffettiera piemontese ottagonale nella collezione permanente al Moma di New York e al design museum di Milano. Nel giro di poche decadi i vecchi sistemi vengono archiviati, dalla caffettiera in terracotta a quella francese a infusione (il sistema Melior, inventato del 1947), la Bialetti pensiona anche la napoletana elettrica Ape e la torinese helvetik, bloccando l'arrivo in Italia del metodo americano, quello del bollitore con filtro, e del "caffè lungo". Quella di Roma è la seconda tappa di un cammino che ne celebra l'ottuagenario. Un percorso in quattro parti nella storia, dalla pianta alla miscela araba (che Papa Clemente Vili a fine '500 rifiutò di dichiarare "bevanda del diavolo", spalancandogli le porte dell'Europa) alla tazzina, fino all'evoluzione della specie: le eredi Dama e Break, dalle forme più arrotondate, lontane dallo stile art déco dell'antenata. A cui il tempo non ha intaccato il fascino, ma ridotto i margini. Design e ricerca provano a sopravvivere all'uscita di scena della dinastia: il brevetto della valvola di sicurezza (che non si ottura mai), per dire, rimane italiano. Il resto è stato delocalizzato e si vive dei fasti del passato. L'ultimo passaggio è il matrimonio col gruppo Rondine (pentole d'alluminio). Ora l'azienda dell'omino con i baffi è entrata nella black list della Consob delle società in precario equilibrio finanziario e non ne è mai uscita. L'azionista di maggioranza lotta con le banche per tenere in piedi il gruppo che vede come socio di minoranza anche Diego Della Valle.

Il Fatto Quotidiano, 1 ottobre 2014

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