A giudicare dalla valanga
di pubblicazioni sulla sua “crisi” la democrazia non sembra
godere di buona salute, anche se non è facile misurare con oggettiva
certezza il senso del suo stato di crisi, esso stesso una questione
di opinione o “feeling”; e poi perché le forme di aperta critica
all’establishment sono esse stesse segno di una società libera e
ospitale al dissenso, e in questo solidamente democratica (in fondo,
perché l’opposizione aspiri a diventare maggioranza deve
sviluppare argomenti contro l’establishment).
Dunque, perché “crisi”?
Quando si parla di “crisi” si parla in effetti di una crisi di
funzionalità della rappresentanza nella forma attuale che è
partitica: questo sembra essere l’oggetto vero di insoddisfazione.
Di crisi della democrazia dei partiti ha senso parlare dunque,
nonostante il fatto che il nuovo secolo si sia aperto con la certezza
che questa forma di governo e di pratica politica sia comunque la piú
elastica ad assorbire le trasformazioni sociali e tecnologiche; e
nonostante il fatto che la democrazia costituzionale abbia vinto la
competizione con tutti i sistemi politici che si sono succeduti a
partire dal secolo delle rivoluzioni settecentesche. L’ormai
classico, The End of History di Francis Fukuyama (1992) e il
più recentemente e pessimista The Future of Freedom di Fareed
Zakaria (2003) hanno addirittura tentato una filosofia della storia
basata sulla preminenza della democrazia costituzionale che
sembrerebbe durare fino a quando la sua relazione con il liberalismo
è solida (e come se democrazia e liberalismo fossero due mondi
comunque distinti, spesso in tensione, anche se capaci di cooperare).
Fatto è che i governi rappresentativi liberali ottocenteschi hanno
fallito miseramente chiudendosi alle prevedibili lotte per
l’inclusione che il principio del suffragio implicava; essi sono
stati poi sepolti dai totalitarismi dei partiti olistici che si sono
fatti Stato con effetti devastanti, non solo nel Vecchio continente.
Su questa stratificazione di tentativi e tragici fallimenti si è
stabilizzata la forma rappresentativa della democrazia costituzionale
di cui oggi sentiamo da più parti lamentare la crisi.
La versione di democrazia
che ha conquistato l’Occidente ha saputo mettere insieme due forme
di partecipazione che erano state fino ad allora rivali: la
formazione delle agende politiche da parte dei cittadini e la
selezione dei rappresentanti. Nel vecchio continente questa soluzione
si è innervata su un principio di legittimazione – la sovranità
popolare – che si è appoggiato su due radici: la nazione politica
(giuridicamente una) e la società. Tenere insieme la generalità
della norma e il pluralismo degli interessi è stato un compito
difficile, e che i partiti politici hanno svolto bene. Non partiti
come macchine elettorali semplicemente (come nell’età del governo
rappresentativo di notabili) e non partiti olistici o totali (come
nell’età delle dittature di massa), ma partiti che, mentre
formavano candidature e gestivano il funzionamento delle istituzioni,
avevano un rapporto diretto e forte con i cittadini, anche se non
esclusivo o totalizzante; un rapporto capace di alimentare sia la
divisione partigiana (intorno a principi o aspirazioni) sia la
ricerca di soluzioni che obbedissero a una idea minima condivisa di
bene generale. Partigiani intelligenti e civici, non partigiani
dogmatici e faziosi: questa dialettica di unità e pluralismo è il
lascito dei partiti del secondo Dopoguerra, non solo in Italia.
Nel nostro Paese siamo
erroneamente portati a identificare la democrazia dei partiti con la
Prima Repubblica. Ma questa forma di democrazia rappresentativa ha
operato in tutti i Paesi, certamente quelli europei. Non in tutti
essa ha avuto la stessa traiettoria, nel senso che non dovunque i
partiti sono stati atterrati nei tribunali (anche se corruzione c’è
stata, e c’è). Tuttavia in quasi tutti, pur con modalità diverse,
la democrazia dei partiti è ora sotto fortissima pressione e per
alcuni studiosi moribonda se non addirittura morta. A causa di
diversi fattori concomitanti, in primis la trasformazione
della sfera dell’opinione a causa del dominio dei mezzi di
comunicazione di massa, che hanno contribuito ad esaltare la politica
della personalizzazione (leader televisivi, spesso definiti
carismatici) e a deprimere la politica dei programmi. Assegnando
all’elezione una forte connotazione plebiscitaria, quella che
Giovanni Sartori ha chiamato videocrazia, ha dato un enorme
contributo al processo di erosione dei partiti – anche di qui è
cominciata la “crisi” della democrazia rappresentativa. Il passo
successivo è stato quel che alcuni studiosi hanno denotato come
democrazia dei “partiti cartello” – una soluzione decisamente
oligarchica che vede il personale partitico abbarbicato alle
posizioni di potere dentro le istituzioni (come una casta), disposto
a limare le differenze tra le loro varie appartenenze nell’intento
di conquistare l’elettorato mediano, quello meno partigiano (e
sempre più numeroso con la fine dei partiti ideologici di massa). La
virata populista comincia qui. Essa attraversa un poco tutti i
partiti, anche quelli che prosperano accusando gli altri di
populismo, poiché il mainstreamism ha avuto un effetto devastante
sulla democrazia dei partiti, vero baluardo contro il populismo: ha
stimolato l’astensionismo elettorale e aperto alle strategie
popolariste una prateria di potenziali elettori di nuovo conio (non
più mediani e nemmeno ideologicamente tradizionali). Finite le
divisioni partigiane su idee e programmi (certo, non sempre
attraenti), le campagne plebiscitarie intorno a un leader e la
polemica populista che rifugge dal dialogo deliberativo sembrano
essere le componenti della lotta ideologica oggi, una lotta che
rappresenta una divisione manichea tra establishment (i pochi dentro
il potere) e popolo (i molti fuori dal potere).
La regressione dei vecchi
e nuovi partiti dalla società verso le istituzioni – la loro
cartelizzazione – non ha però soltanto accelerato la
trasformazione populista dell’agone democratico. Ha anche messo in
campo soluzioni o per rivitalizzare i partiti o per rivitalizzare i
cittadini: da un lato, con una decisa identificazione della
partecipazione con l’elettoralismo (periodiche campagne per le
primarie, a volte anche per eleggere il segretario, non solo
candidati alle funzioni istituzionali); dall’altro, con risposte e
strategie che non sono necessariamente confinati nei partiti – per
esempio l’ideazione di esperimenti partecipativi (che Internet
facilita). Da alcuni Paesi è venuto il passo più audace della
web-democracy in reazione alla partitocrazia: la composizione diretta
alla scrittura della Costituzione (Islanda); la consultazione dei
cittadini sulla riforma di alcune parti della Costituzione (Irlanda);
la proposta di una nuova legge elettorale (British Columbia). La
risposta alla debilitazione della democrazia dei partiti è, come si
vede, aperta a trasformazioni che possono essere radicali e che, è
importante osservare, avvengono (ancora) nel campo della democrazia
praticata e dei partiti, lungo due direttrici che sono molto diverse
tra loro: da un lato si assiste ad un’esplosione di esperimenti di
deliberazione (come discussione e articolazione di proposte);
dall’altro si verifica un restringimento della democrazia a pratica
elettoralistica.
Si potrebbe dire che le
due componenti che la democrazia dei partiti o rappresentativa teneva
insieme – decisione/voto e deliberazione/ discussione – sembrano
in questa fase divorziare, per cui la democrazia post-partitica
cambia fisionomia stiracchiandosi verso i due poli opposti che la
componevano: direttismo da un lato e delegatismo dall’altro.
Scusandomi con i lettori per questi barbarismi, che però possono
aiutare a descrivere e a far capire, la risposta alla democrazia dei
partiti in questa fase di ricerca di soluzioni sostitutive o
integrative, sembra esaltare da un lato un ricorso persistente
all’elezione senza molta attenzione ai programmi e alla
discussione, e dall’altro un’attenzione quasi esclusiva alla
discussione via rete o in piccole assemblee senza troppa attenzione a
(e in alcuni casi con diffidenza per) l’elezione. Da questa
biforcazione dei due processi che la democrazia dei partiti teneva
insieme si dovrà forse partire per comprendere la trasformazione in
atto nelle democrazie rappresentative, evitando l’uso impreciso e
generico del sostantivo “crisi” e soprattutto non correndo alla
conclusione spiccia che il populismo sia la sola soluzione in atto.
“Il Sole 24 ore
Domenica”, 1 ottobre 2017
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