Calcolare che sono passati oltre due anni dalla sua scomparsa e sentirsi mancare il terreno sotto i piedi è per me tutt’uno. Il vuoto lancinante che Edoardo Sanguineti ci ha lasciato è però un pieno straordinario di umanità e di cultura, perché, da quando è tornato a quel nulla con la ‘n’ minuscola che egli amava evocare nelle sue poesie e nelle sue prose, è possibile comprendere che ricostruire la sua carriera di poeta e intellettuale militante significa ricostruire non solo la cultura letteraria, ma anche la cultura politica della seconda metà del Novecento.
Sanguineti è stato nel 1963 uno dei fondatori, assieme ad Umberto Eco, Angelo Guglielmi e Nanni Balestrini, del “Gruppo ’63”, la neoavanguardia italiana, il cui scopo era quello di svolgere un’azione eversiva sul piano formale e linguistico. Al centro della contestazione promossa dalla neoavanguardia vi era il linguaggio della quotidianità e della merce, ma anche la nozione stessa di letteratura, così come risulta dal saggio critico su “Ideologia e linguaggio”, che Sanguineti pubblicò nel 1965. In tale saggio l’autore analizzava il rapporto tra l’arte e la merce in questi termini: «L’etimologia strutturale dell’avanguardia è stata perfettamente additata da Walter Benjamin sul mercato letterario: la prostituzione ineluttabile del poeta, in relazione al mercato come istanza oggettiva. Tale prostituzione illustra chiaramente il doppio movimento interno all’avanguardia. Questa esprime, infatti, l’aspirazione eroica e patetica a un prodotto artistico incontaminato, che possa sfuggire al gioco immediato della domanda e dell’offerta».
Il testo poetico in cui il poeta genovese esemplifica, invece, il programma “cinico-ironico” della “letteratura della crudeltà” (definizione che egli mutua dal teatro di Antonin Artaud) è Laborintus (1956): un’opera che, attraverso la destrutturazione dei significati e del senso, racconta il faticoso lavoro (‘labor’) e il tortuoso viaggio (labirinto) che, avendo come guide Marx, Freud e Jung, scandisce la discesa negl’ìnferi dell’alienazione moderna.
Così, il poeta politico che stronca impietosamente il lirismo come forma di conciliazione con la realtà borghese-capitalistica, l’intellettuale marxista che, educato alla scuola del pensiero gramsciano, cresciuto a quella del pensiero di Lukács e rivestito dal manto di una secca razionalità togliattiana, spiega come “si diventa materialisti storici”, andrà svolgendo quel programma “cinico-ironico” attraverso meditazioni intorno alla morte, all’annullamento e alla distruzione del corpo, come nella bellissima poesia composta in occasione della morte di Italo Calvino.
Sanguineti, riferendosi, ancora una volta ironicamente, all’epoca di Seconda Restaurazione che stiamo vivendo, amava definirsi come “l’ultimo marxista”. Nel 1985 scrisse un lungo poemetto in ottave, intitolato Novissimum testamentum, ove si leggono questi versi: «non dico avere pena, compassione, / pietà, cordoglio, commiserazione, / misericordia con compatimento, / con condoglianza, con rincrescimento: / non dico aver tormento, corruccio / tristezza, angoscia, lutto, pianto, cruccio: / ma goduria e tripudio, in buona fede, / perché solo chi muore si rivede».
In effetti, se è vero che “solo chi muore si rivede”, non è difficile prevedere che faremo i conti ancora per lungo tempo con una figura centrale e imprescindibile della poesia, della cultura e del marxismo italiano del secondo Novecento come quella di Edoardo Sanguineti.
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