Un
amico dei più pittoreschi, uno showman incredibile. Dormiva sotto le
barche della Versilia, e lì, questa è la leggenda accreditata dai
suoi amici, lo scoprì Benedetti direttore dell'"Europeo".
Vestito come un mendicante, due o tre denti soltanto perché aveva
fatto il boxeur, e in tasca una sua fotografia, seminudo con un gran
serpente attorcigliato intorno al collo. (Era vissuto al Tombolo dopo
la guerra, e questa foto fu il primo dono che mi fece).
Certo
il suo ingresso all' "Europeo" fu sensazionale: sandali
sfasciati ai piedi, pantaloni con un fil di ferro per cintura, e una
cordicina più sotto, dove era più che necessaria una chiusura,
quella bocca vuota, la barba lunga e un bosco di riccioli
disordinati. Ma traboccava di humour, e aveva il dono di trasudare
simpatia, sempre pronta la battuta, e pepate le osservazioni. Era il
tipo meno quotidiano che si potesse immaginare, tutto il contrario di
quanto fosse noia, banalità, conformismo. Gran raccontatore di
storie, e se erano inventate, erano inventate benissimo. Siccome ero
l'unica donna della redazione, Benedetti me l'affidò perché lo
rivestissi. Così (una coppia molto guardata per la strada), ricordo
che lo portai in corso Buenos Aires a comprarsi un abito fatto, dal
parrucchiere a rasarsi e a tagliarsi i capelli, ecco poi le calze e
le scarpe. Rimaneva quel forno di bocca, e la redazione, con l'aiuto
dell'editore Mazzocchi, si quotò per fargli fare una dentiera, quasi
perfetta. Intanto scriveva articoli ineccepibili: far la cronaca gli
piaceva, tanto vorace era la sua curiosità per gli uomini e le loro
avventure. Veniva spesso in casa mia a colazione, ed era sempre
cortesissimo con mia madre a cui portava un vaso di gerani o un
vassoio di marrons glacès. E con noi parlava dei suoi.
La
madre discendeva da una famiglia di zingari di Siviglia. Suo padre
infatti possedeva un noto circo, una delle sue zie ballava sulla
corda, il nonno era un coraggioso domatore. L'unica figlia,
intelligente ma non bella, quando il padre vendette il circo e morì,
diventò un'appetibilissima ereditiera: aveva allora (nel primo
decennio del secolo) un milione di dote. Un giovane e bel tenente di
marina italiano, passando per Siviglia, la conobbe, la sposò e se la
portò a Viareggio. L'ufficiale di marina, sempre bello e molto
traditore, lasciava per lunghi periodi la moglie a casa, ma per
fortuna lei continuava a lavorare, e il suo mestiere le piaceva
moltissimo. Che mestiere? "Fa il falegname" rispondeva
Fusco, ed era vero: sua madre adorava segare e piallare, e la sua
specialità erano oggetti enormi, letti matrimoniali, armadi a tre
luci, vastissimi parquets a complicati disegni.
Un'idea
brillante di Benedetti fu quella di mandarlo un anno al festival di
Venezia. Smoking bianco e farfallino nero era la divisa di allora, e
lui subito a chiedermi: "In tasca devo mettere un fazzoletto
nero?" (Non prima di avermi confidato che sarebbe andato più
volentieri in slip di gorilla). La sua forza? L'essere assolutamente
alieno da qualsiasi intrigo o maneggio dell'ambizione, non soffrire
di ossessione da danaro, non essere per nulla attaccato a convenzioni
e protocollo, non inorgoglirsi per le lodi che riceveva. Per esempio
per il suo libretto: Le rose del ventennio
che ebbe un gran successo: la storia del fascista Ferro Maria Ferri
che durante la guerra di Grecia, dicendosi pronto ad ogni audace
impresa, al momento giusto si rivela un vigliacco, la visita di
Mussolini al fronte con le sue proposte tutte sbagliate e le domande
imbecilli, insomma il racconto dell'asfissia di un regime in un clima
di amare risate, di continuo sberleffo.
Fusco
non sopportava i boriosi, e sul conto di un giornalista che dettava
legge nel vestire e si dava un mucchio d'arie, era perentorio: "Parla
di sè come un gentleman, cosa che nessun gentleman farebbe mai".
Ridendo di sé, ma al momento giusto dandosi con passione al gioco di
piacere, per un certo periodo fece il giro dei salotti di Milano,
dove, a richiesta degli amici, raccontava qualche suo saporito
aneddoto. Come la morte di Zacconi, già vecchissimo, a Viareggio. È
già in coma, non riconosce più nessuno, quando alla porta
occhieggia lo scrittore Enrico Pea che vuole salutarlo. Il figlio di
Zacconi gli fa cenno che il padre sta molto male, e allora Pea gli si
avvicina in punta di piedi e senza dire una parola si china sulla sua
fronte per baciarlo. È il momento in cui il vecchio attore apre gli
occhi, e vedendo così vicina quella testa antica, dalla foltissima
barba, esclama: "Eccomi Signore, vengo a te, sono pronto!".
Imitava la voce ancora forte e cavernosa dell'attore, come quella di
Maria Melato, anche lei a Viareggio dopo la guerra, che in tono
dannunziano vantava la bellezza dei soldati di colore, "stupèndi
etiopi" declamando.
È
stato certo per anni una colonna dell' "Europeo", e se lo
si lodava rispondeva che chiunque altro avrebbe potuto far meglio.
Non assistetti al suo apartheid e probabilmente alla sua decadenza
romana. Conservo invece vivo il ricordo di quanto mi divertii con lui
finché se n'andò da Milano. Avevo il privilegio delle sue
confidenze, le donne, la sua incapacità (raramente vinta) di
resistere alla tentazione della grappa, la conoscenza di qualche suo
incongruo amico, come quel nababbo (per via di certi oleodotti), con
i denti d'argento, l'automobile con il tetto di cristallo e la
passione per le soubrettes, alle più belle delle quali mandava tre
orchidee con attorcigliato intorno al gambo un braccialetto di
brillanti. Uno dei "numeri" più divertenti gli era stato
dettato dal suo gusto della provocazione. Ecco la galleria e una
folla di gente in ammutolito stupore per una scena delle più
insolite. Romolo Valli che fa la parte di un vecchio signore annoiato
del cinquecento, e Fusco che lo segue curvo e zoppicante; perché mima il buffone che tenta invano di divertirlo con lazzi, frizzi e
motti ribaldi. Così che per ben tre sere fu intralciato il traffico
tra l' ottagono e lo sbocco in piazza del Duomo.
“la
Repubblica”, 18 settembre 1984
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