Riprendo qui la prima
parte di un articolo di Domenico Del Rio per il dossier che “la
Repubblica” dedicò nel 1981 al centenario francescano: Frate
Francesco: otto secoli portati bene, dedicata
al rapporto del Poverello con il potere politico ed ecclestiasico. Vi
leggo più di uno spunto di attualità. (S.L.L.)
C'era uno sfarzoso corteo
imperiale sulla strada di Assisi. Ottone IV, «con grande pompa e
clamore», andava a Roma a farsi incoronare imperatore da papa
Innocenzo III, con un interminabile seguito di cortigiani, vassalli e
cavalieri. La gente di Assisi si era riversata nella piana,
abbandonando case, fondachi e campi per ammirare il magnifico
spettacolo.
A Rivotorto, poco lontano
dalla strada, in una capanna abitava Francesco d’Assisi con i suoi
primi frati. Quando passò l’imperatore, da quella capanna non si
mosse nessuno. Francesco, dice Tommaso Da Celano, il suo maggior
biografo, «non volle nemmeno uscire a vederlo né permise che vi
andasse alcuno dei suoi compagni».
È un episodio
emblematico del distacco, dell’indifferenza, della noncuranza, che
Francesco d’Assisi, sensibilissimo e attento a ogni condizione
umana, aveva verso chi incarnava l’autorità, verso gli uomini del
potere. «Sdegnava di adulare re e principi», dice ancora il suo
biografo.
Era una libertà da «gran
signore» che il «Poverello» si prendeva di fronte a ciò che
sembrava avere grande valore per il mondo.
Nell’ottavo centenario
della nascita di Francesco d’Assisi (1182) è inevitabile che, tra
festeggiamenti, celebrazioni ufficiali e abbondanza di agiografie, la
figura del santo sia voltata e rivoltata da tutte le parti. Ne
verranno fuori certamente cognizioni storiche utili, interpretazioni
parziali e globali, motivi di generale ammirazione e devozione.
A noi, in questa rapida
commemorazione giornalistica, piace prenderlo da un punto di vista
probabilmente non ancora molto approfondito: quello dell’uomo
sovranamente libero, padrone di tutto e possessore di nulla. E sotto
questo profilo forse non è da buttar via nemmeno il Francesco
romantico, il Francesco delle tortorelle e delle allodole, della
predica agli uccelli. Egli si sente uguale a loro: creature libere
nel cielo.
Di questa libertà
Francesco prende consapevolezza nel momento cruciale della sua vita,
quando abbandona la famiglia e si rifiuta di presentarsi in giudizio,
davanti ai consoli della città, che lo hanno convocato su denuncia
del padre: «Per grazia di Dio sono diventato uomo libero e servo
dell’Altissimo. Non sono più obbligato a obbedire ai consoli».
Il giovane (era sui 25
anni, aveva già fatto una guerra e disastrose esperienze
cavalleresche e militari) era all’inizio della sua «conversione»
e la frase, con quella precisa indicazione di «uomo libero»,
riecheggiava concetti del diritto feudale germanico, che si era
ampiamente diffuso in Italia con longobardi e franchi. «Uomo libero»
era l’equivalente di nobile, che godeva di diritti di esenzione di
fronte all’autorità. Francesco, appropriandosi di quel titolo,
senza investitura di nessun signore, per autodeliberazione, si
proclamava libero da qualsiasi vassallaggio terreno.
Su questa strada
convoglierà poi anche i Terziari, cioè uomini e donne che, pur non
facendosi religiosi, aderivano al movimento francescano tramite il
Terz’Ordine. Ad essi proibì il giuramento di vassallaggio e l’uso
delle armi. Non fu una semplice regola morale, provocò invece una
massa di obiettori di coscienza, che diede luogo al rifiuto di
obbedienza perfino di città intere, come avvenne a Faenza nel 1221.
Il Terz’Ordine era appena stato fondato che i cittadini di Faenza
vi entrarono in massa per non dover rispondere agli appelli alle armi
del loro signore. Costui, che era ghibellino, volle costringerli in
virtù di un giuramento. Essi si rivolsero al vescovo, il quale si
rivolse al papa. Il pontefice rispose che i Terziari di Faenza erano
sciolti dal loro giuramento di vassallaggio e quindi era diritto e
dovere del vescovo difenderli contro il loro signore.
Questa forza, dati i
tempi in cui vigeva il principio «Dio ha voluto che ogni dignità
secolare fosse soggetta all’autorità ecclesiastica», veniva
naturalmente dall’appoggiarsi alla Chiesa.
Ma anche nei confronti
dell’autorità ecclesiastica, sebbene con maggiore formale cautela,
Francesco non rinunciò mai a fare ciò che voleva, a sviluppare il
disegno che aveva in mente. «Rimase irremovibile in quello che egli
chiedeva al papa» per la sua istituzione religiosa, afferma un
antico biografo «La sua grande originalità», dice Paul Sabatier,
il maggiore degli studiosi di francescanesimo, «è di non aver mai
ceduto».
Non solo. Sebbene nella
regola avesse raccomandato di non criticare nessuno, c’è una
testimonianza storica che ce lo fa vedere mentre predica di fronte al
papa e ai cardinali: «parlò dell’orgoglio e del cattivo esempio
dei prelati che coprivano di confusione tutta la Chiesa». Del resto
egli stesso disse: «Io voglio, prima di tutto, con la santa umiltà
e reverenza, convertire i prelati». Una volta, trovandosi quasi per
sbaglio a vivere qualche giorno in casa di un cardinale, a Roma,
scappò via dicendo: «Penso sia meglio fuggire da queste corti dei
grandi».
E, forse anche
simbolicamente, oltre che un poco argutamente, portava sempre con sé
una scopa, «per spazzare le chiese dalle immondizie: perocché
grande dolore aveva il beato Francesco vedendo una chiesa non così
monda come la voleva».
"la Repubblica", 26 settembre 1981
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