Lavoisier e la giovane moglie nel ritratto di David. Particolare |
Il testo che segue comparve il 27 ottobre 1948 – con un titolo diverso –
sull'Avanti!, il quotidiano
del Partito Socialista Italiano, a quel tempo diretto da Riccardo
Lombardi ed entrò a far parte nel 1957 della prima importante raccolta di saggi di Franco Fortini, Dieci inverni, ripubblicata da Quodlibet nel 2018.
Esso è incentrato su una polemica, dosata nelle parole ma
neppure tanto larvata, contro il fideismo comunista e l'appoggio
incondizionato alla Russia staliniana, che all'epoca anche nel suo
partito (il PSI) erano diffusi, perfino tra gli intellettuali. C'è un
riferimento non per tutti comprensibile nel testo: la frase per cui
la Révolution n’a pas
besoin de savants (“la
Rivoluzione non ha bisogno di scienziati”) è dalla tradizione
attribuita al giudice Coffinhal, che l'8 maggio del 1994, mandò alla
ghigliottina Antoine-Laurent Lavoisier, l'inventore della chimica
moderna.
A
me pare che l'articolo contenga un messaggio ancora attuale sui
compiti dell'intellettuale, sull'etica che deve animare la sua
funzione. (S.L.L.)
Franco Fortini |
Il compito dell’uomo di
cultura è quello di mantenere aperte le correnti di informazioni, di
esercitare la critica; di non accettare nulla per dogma. Ora per
poter esercitare quel compito, occorre la informazione, la
documentazione, la discussione; che è quel mezzo di comunicazione
umana nel quale è pur necessario, talvolta, riconoscere di aver
torto.
Si può dire che in
Italia gli uomini di cultura abbiano a disposizione gli strumenti
culturali necessari per avere certe opinioni, o meglio certe
convinzioni? Io credo che sarebbe davvero un poveruomo chi motivasse
oggi le proprie scelte politiche e culturali con gli argomenti della
stampa quotidiana; quanto più serio invece chi le motivasse per la
concreta e personale esperienza dello sfruttamento e della violenza.
Dico che in genere gli stessi intellettuali, artisti e scrittori che
si qualificano «a sinistra», sono di una impressionante ignoranza;
sull’Unione Sovietica, per esempio. E chi scrive è uno di quelli.
Colpa loro, nostra, certo. Ma come mai, da quella grande potenza non
giungono, più ricche, più dettagliate informazioni? Perché gli
uomini di cultura italiani non vengono mandati a visitare l’Unione
Sovietica, perché uomini di cultura sovietica non vengono da noi,
non ci parlano, non discutono con noi? Perché le pubblicazioni
dell’Ambasciata sono così distratte e generiche? Perché,
finalmente, non si riesce a dare agli italiani il senso della reale
esistenza di quell’immenso paese? Perché (come un’altra volta
chiedemmo) la stampa di sinistra non discute seriamente i libri che
gli antisovietici pubblicano con tanta dovizia? Chiunque si ponga
onestamente queste domande deve convenire che non basta rispondere
con l’argomento della congiura capitalistica contro l’Urss, o con
la pigrizia degli intellettuali italiani, o con lo sdegno dei
dirigenti sovietici di fronte alla stampa del nostro paese che
insulta il loro. Noi vorremmo esser certi che nell’Unione Sovietica
non ci sono grandi campi di lavoro forzati per deportati politici; e,
se vi sono, vorremmo dei dati, delle ragioni che ne giustificassero
l’esistenza. Noi vorremmo esser certi che le opere di cultura che
vengono diffuse in Russia sono autentiche opere di cultura; che i
giudizi letterari o di musica o di pittura che condannano o esaltano
questa o quella corrente sono cose serie. Vorremmo sulle condizioni
del lavoro, della sua libertà, sul meccanismo democratico della
volontà popolare, sulla vita dei funzionari, sulla morale pubblica
tutta quella documentazione che ci permettesse di replicare con
qualcosa di più che un atto di fede agli argomenti degli
antisocialisti, argomenti di solito nati da quei temi. E invece,
quasi sempre, ci vien fornita una minestrina poco nutriente che ci
lascia con l’appetito. Attualmente, si celebra il mese
dell’amicizia fra l’Italia e l’Urss; una simile iniziativa può
dare, nel senso da noi richiesto, frutti utilissimi. Speriamo.*
Ci si obietterà: ma che
bisogno c’è di tutti questi «documenti», quando è così chiaro
che ecc. ecc. C’è che, diciamolo francamente, noi abbiamo sempre
creduto, da socialisti, alla forza della verità. Ora la coscienza di
questa forza insostituibile ci fa sospettare di tutti quelli che
vogliono nettamente il bene di qua e il male di là. La morale di
guerra, per gli uomini di cultura, è un nonsenso, ecco tutto. Dov’è
una convenzione non è cultura. Ci sarà quel che volete, anche la
salvezza dell’umanità; ma non ci sarà cultura, non ci sarà
verità; e, alla lunga, non ci sarà più neppure quella salvezza
promessa. Badate, non voglio dire con ciò che questi «scrupoli»
debbano aver diritto all’inviolabilità; tutt’altro. La
rivoluzione, forse «n’a pas besoin de savants» o ha
bisogno di un tipo speciale di uomini di cultura. Un tipo al quale
chi scrive non appartiene di certo, per esser nato, immagino, in una
certa congiuntura d’astri o in una certa classe. Vogliamo insomma
vederci più chiaro, su molte questioni; e la nostra stampa, i nostri
conferenzieri, i nostri libri, la
nostra cultura, questa chiarezza non ce la danno. I comunisti si
limitano a dirci: o con noi o contro di noi. Bene, si può anche
rispondere subito, anzi lo abbiamo fatto, e da diverso tempo. Ma
questa risposta, se data da noi come uomini
di cultura,
come «specialisti», non significa nulla. È un impegno personale, e
la scelta di un campo che non corrisponde necessariamente alla scelta
di una verità; chi crede all’esistenza delle realtà e delle
verità obiettive, sa che cosa intendo.
*Eravamo
meno ingenui di quanto possano far credere queste parole, certo. Ma
testimonino esse, pubblicate sull’«Avanti!», di quanta reverenza
per le forme e per gli augusti misteri della politica eravamo ancora
capaci [1957].
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