2.6.19

La morale di guerra (Franco Fortini, 1948)

Lavoisier e la giovane moglie nel ritratto di David. Particolare

Il testo che segue comparve il 27 ottobre 1948 – con un titolo diverso – sull'Avanti!, il quotidiano del Partito Socialista Italiano, a quel tempo diretto da Riccardo Lombardi ed entrò a far parte nel 1957 della prima importante raccolta di saggi di Franco Fortini, Dieci inverni, ripubblicata da Quodlibet nel 2018. 
Esso è incentrato su una polemica, dosata nelle parole ma neppure tanto larvata, contro il fideismo comunista e l'appoggio incondizionato alla Russia staliniana, che all'epoca anche nel suo partito (il PSI) erano diffusi, perfino tra gli intellettuali. C'è un riferimento non per tutti comprensibile nel testo: la frase per cui la Révolution n’a pas besoin de savants (“la Rivoluzione non ha bisogno di scienziati”) è dalla tradizione attribuita al giudice Coffinhal, che l'8 maggio del 1994, mandò alla ghigliottina Antoine-Laurent Lavoisier, l'inventore della chimica moderna.
A me pare che l'articolo contenga un messaggio ancora attuale sui compiti dell'intellettuale, sull'etica che deve animare la sua funzione. (S.L.L.)

Franco Fortini
Il compito dell’uomo di cultura è quello di mantenere aperte le correnti di informazioni, di esercitare la critica; di non accettare nulla per dogma. Ora per poter esercitare quel compito, occorre la informazione, la documentazione, la discussione; che è quel mezzo di comunicazione umana nel quale è pur necessario, talvolta, riconoscere di aver torto.
Si può dire che in Italia gli uomini di cultura abbiano a disposizione gli strumenti culturali necessari per avere certe opinioni, o meglio certe convinzioni? Io credo che sarebbe davvero un poveruomo chi motivasse oggi le proprie scelte politiche e culturali con gli argomenti della stampa quotidiana; quanto più serio invece chi le motivasse per la concreta e personale esperienza dello sfruttamento e della violenza. Dico che in genere gli stessi intellettuali, artisti e scrittori che si qualificano «a sinistra», sono di una impressionante ignoranza; sull’Unione Sovietica, per esempio. E chi scrive è uno di quelli. Colpa loro, nostra, certo. Ma come mai, da quella grande potenza non giungono, più ricche, più dettagliate informazioni? Perché gli uomini di cultura italiani non vengono mandati a visitare l’Unione Sovietica, perché uomini di cultura sovietica non vengono da noi, non ci parlano, non discutono con noi? Perché le pubblicazioni dell’Ambasciata sono così distratte e generiche? Perché, finalmente, non si riesce a dare agli italiani il senso della reale esistenza di quell’immenso paese? Perché (come un’altra volta chiedemmo) la stampa di sinistra non discute seriamente i libri che gli antisovietici pubblicano con tanta dovizia? Chiunque si ponga onestamente queste domande deve convenire che non basta rispondere con l’argomento della congiura capitalistica contro l’Urss, o con la pigrizia degli intellettuali italiani, o con lo sdegno dei dirigenti sovietici di fronte alla stampa del nostro paese che insulta il loro. Noi vorremmo esser certi che nell’Unione Sovietica non ci sono grandi campi di lavoro forzati per deportati politici; e, se vi sono, vorremmo dei dati, delle ragioni che ne giustificassero l’esistenza. Noi vorremmo esser certi che le opere di cultura che vengono diffuse in Russia sono autentiche opere di cultura; che i giudizi letterari o di musica o di pittura che condannano o esaltano questa o quella corrente sono cose serie. Vorremmo sulle condizioni del lavoro, della sua libertà, sul meccanismo democratico della volontà popolare, sulla vita dei funzionari, sulla morale pubblica tutta quella documentazione che ci permettesse di replicare con qualcosa di più che un atto di fede agli argomenti degli antisocialisti, argomenti di solito nati da quei temi. E invece, quasi sempre, ci vien fornita una minestrina poco nutriente che ci lascia con l’appetito. Attualmente, si celebra il mese dell’amicizia fra l’Italia e l’Urss; una simile iniziativa può dare, nel senso da noi richiesto, frutti utilissimi. Speriamo.*
Ci si obietterà: ma che bisogno c’è di tutti questi «documenti», quando è così chiaro che ecc. ecc. C’è che, diciamolo francamente, noi abbiamo sempre creduto, da socialisti, alla forza della verità. Ora la coscienza di questa forza insostituibile ci fa sospettare di tutti quelli che vogliono nettamente il bene di qua e il male di là. La morale di guerra, per gli uomini di cultura, è un nonsenso, ecco tutto. Dov’è una convenzione non è cultura. Ci sarà quel che volete, anche la salvezza dell’umanità; ma non ci sarà cultura, non ci sarà verità; e, alla lunga, non ci sarà più neppure quella salvezza promessa. Badate, non voglio dire con ciò che questi «scrupoli» debbano aver diritto all’inviolabilità; tutt’altro. La rivoluzione, forse «n’a pas besoin de savants» o ha bisogno di un tipo speciale di uomini di cultura. Un tipo al quale chi scrive non appartiene di certo, per esser nato, immagino, in una certa congiuntura d’astri o in una certa classe. Vogliamo insomma vederci più chiaro, su molte questioni; e la nostra stampa, i nostri conferenzieri, i nostri libri, la nostra cultura, questa chiarezza non ce la danno. I comunisti si limitano a dirci: o con noi o contro di noi. Bene, si può anche rispondere subito, anzi lo abbiamo fatto, e da diverso tempo. Ma questa risposta, se data da noi come uomini di cultura, come «specialisti», non significa nulla. È un impegno personale, e la scelta di un campo che non corrisponde necessariamente alla scelta di una verità; chi crede all’esistenza delle realtà e delle verità obiettive, sa che cosa intendo.

*Eravamo meno ingenui di quanto possano far credere queste parole, certo. Ma testimonino esse, pubblicate sull’«Avanti!», di quanta reverenza per le forme e per gli augusti misteri della politica eravamo ancora capaci [1957].

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