Alexis de Tocqueville in una caricatura di Honoré Daumier (1849) |
La presente fortuna del
pensiero di Tocqueville in Italia si deve, a mio avviso, ad alcune
buone ragioni e a parecchi fraintendimenti. Le buone ragioni si
restringono in sostanza ad una: pochi altri pensatori moderni hanno
come Tocqueville esplorato natura, funzioni, pregi e limiti della
democrazia; il fatto di aver compiuto questa indagine come
dall’esterno, nella posizione di un spettatore non complice ma
attento, interessato e sovranamente onesto, non limita ma aumenta i
pregi del suo punto di vista.
Siccome noi oggi viviamo
— e non solo, secondo me, in ambito italiano, dove però, certo la
cosa assume una gradazione sovreccitata, spinta, ma a livello
planetario, — la crisi di quei costumi e di quelle istituzioni
della cui genesi Tocqueville fu un così acuto osservatore, non c’è
dubbio che il suo modo di considerare il problema ci appaia sovente,
come si dice, di sorprendente attualità.
Spirito profetico
I fraintendimenti si
riferiscono non a quei criteri di lettura, assai diffusi, ahimè, per
lo meno sulle colonne dei giornali, con i quali si vorrebbe
accreditare il liberalismo di Tocqueville come antesignano delle più
recenti manifestazioni della «nuova destra» italiana ed europea.
In realtà il liberalismo
di Tocqueville, — inteso anche, se si vuole, come culto di certi
valori ancestrali che al tempo stesso precedono e determinano la
politica e la storia — è come uno sguardo aperto sul mondo,
un’enorme curiosità di esperienze, il rifiuto di qualsiasi limite
dogmatico, una disponibilità autentica a cogliere il «vero» e il
«nuovo» ovunque si trovino.
Mi tornano in mente le
parole fervide e appassionate con cui, concludendo la Democrazia
in America, egli delinea con spirito quasi profetico i tratti di
una società democratica dell’avvenire, in cui l’inevitabile
«compressione» delle individualità sarebbe stata compensata
dall’allargamento del benessere e dalla migliore tutela dei diritti
per tutti : «E’ naturale credere che ciò che più soddisfa gli
sguardi di questo creatore e conservatore degli uomini (Dio) non sia
la prosperità singola di qualcuno, ma il maggior benessere di tutti;
ciò che mi ferisce è piacevole per Lui. L'eguaglianza è meno
elevata, ma è più giusta, e la sua giustizia la rende grande e
bella (...) Vi sono certi vizi e certe virtù che erano inerenti alla
costituzione stessa delle nazioni aristocratiche, i quali sono
talmente contrari allo spirito dei popoli nuovi che non sarebbe
possibile introdurli nel loro seno. Vi sono inclinazioni e cattivi
istinti, estranei ai primi e naturali ai secondi; idee che si
presentano spontaneamente all’immaginazione degli uni e che sono
respinte dallo spirito degli altri (...). Bisogna, dunque, guardarsi
bene dal giudicare le società che nascono con idee attente a quelle
che non sono più».
La lungimiranza di questa
prosa, il suo elevato livello intellettuale, il suo indiscutibile
pathos morale ci persuadono una volta di più della differenza
insormontabile che passa tra un conservatore aristocratico e un
bottegaio conservatore: il liberalismo di cui oggi si ciancia è
prodotto tutto dalle viscere alte e basse di un ceppo di bottegai
conservatori; la specie dei conservatori aristocratici si è invece
pressoché estinta e la sua rada sopravvivenza è uno dei tanti
motivi che ci rendono questo mondo non tanto ostile quanto
intollerabile.
Questa e altre
riflessioni mi sono state suggerite, o risollecitate, dalla lettura
di un denso volume di Scritti, note e discorsi politici
(1839-1852) di Alexis de Tocqueville testé apparso a cura di Umberto
Coldagelli per le edizioni Bollati Boringhieri (pp. 572, £ 100,000).
Qualche parola di lode va detta innanzi tutto all’editore, non
nuovo del resto a operazioni di alta qualità: offrire al lettore in
questo momento una scelta sapientemente organizzata della produzione
specificamente politica di Tocqueville non significa tanto colmare
una lacuna, significa, come ho già cercato di dire, fornire, con
quella tempestività che, editorialmente parlando, è sinonimo
d’intelligenza, i materiali indispensabili per aprire una
discussione seria sull’argomento.
Categorie
a rischio
Quanto al curatore, tutti
sanno che da alcuni anni Umberto Coldagelli lavora a trasferire dalla
Francia all’Italia l’ermeneutica tocquevilliana, in una
prospettiva, tuttavia, che a me appare assolutamente originale anche
rispetto agli esemplari francesi (ricorderò soltanto la precedente
pubblicazione dei taccuini e dei diari del Viaggio in America.
1831-1832 , apparso nel 1990 presso Feltrinelli). Questa volta,
però, l’operazione di Coldagelli si configura ancora di più,
anche al di là dell’interesse storiografico che la caratterizza,
come un’indagine sulle categorie fondative del pensiero politico
tocquevilliano, che appare come una vera e propria proposta di
rilettura complessiva dell’autore.
Intanto, la distribuzione
della materia, distinta per capitoli tematici, ognuno dei quali
prefato dal curatore, riorganizzando gli scritti sparsi nei vari
volumi delle Oeuvres complètes di Alexis de Tocqueville,
ancora in corso di pubblicazione presso l’editore Gallimard di
Parigi, ne consente una lettura piana ed efficace, e al tempo stesso
attenta a cogliere i fulcri essenziali di quel pensiero.
L’introduzione, poi,
ampia e articolatissima — un vero e proprio libro, in realtà,
sulle attività e sul pensiero politici di Tocqueville, —
costituisce un tentativo quanto mai riuscito di studiare come il
pensatore e il teorico cerchi di trasformarsi in politico militante
in un periodo decisivo per la storia di Francia e di Europa come
quello che va dall’instaurazione del regime orléanista al crollo
delle istituzioni liberali e all’ascesa al potere di Napoleone il
piccolo. E’ il medesimo periodo su cui pure intensamente rifletterà
un certo Karl Marx, da giovane, — analogie ma anche diversità
enormi di percorsi, come Coldagelli puntualmente segnala nel suo
scritto.
Ora, come si suol dire,
non si può in nessun modo costringere alla misura di una recensione
la ricchezza di spunti, riflessioni, suggerimenti, che la raccolta di
scritti di Tocqueville e di rincalzo l’introduzione di Coldagelli
ci presentano. Neanche si può ridurre questa lettura all'adesione
commossa e partecipe — e un po’ troppo personalizzata, temo —
all’ultimo scritto presente nella raccolta, e cioè il discorso
pronunciato da Tocqueville il 3 aprile 1852 nella sua qualità di
Presidente dell’Accademia di scienze morali e politiche, nel quale,
a mo’ di epigrafe di quel periodo fervido e appassionato ma
particolarmente sfortunato della sua attività politica militante,
confessava amaramente che «la scienza politica e l’arte di
governare sono due cose ben distinte» e che è molto, molto
difficile che coloro i quali, attraverso l’esercizio della lettura
e del pensiero hanno acquisito «il gusto del fine, del delicato,
dell’ingegnoso, dell’originale», possano governare un mondo
«asservito a grossolani luoghi comuni».
Il Leviatano
democratico
Il filo, — niente di
più di un filo, — che io suggerirei di seguire nella lettura di
questi testi — sia quelli tocquevilliani sia l’introduzione di
Coldagelli — consiste dunque nell’osservare lo sforzo compiuto
dal «liberale» e «conservatore» Tocqueville per riuscire sul
piano politico a tener testa contemporaneamente al drago della
reazione legittimista e a quel «Leviatano democratico... (il quale)
sorge dalla stessa affermazione conflittuale dell’uguaglianza
attraverso la storia» (Coldagelli, p. XVII). Non tanto perché
questa sia la situazione con cui noi abbiamo a che fare in questo
momento della nostra storia; quanto perché (a mio giudizio)
Tocqueville disegna nel suo operare politico l’inizio di un
percorso di cui noi conosciamo la fine.
Tocqueville, infatti —
e questo Coldagelli lo dice benissimo — è ossessionato dall’idea
di riuscire a trovare strumenti non eccezionali di controllo di un
fenomeno — che egli tuttavia giudica nella sua essenza inevitabile
e inarrestabile — vale a dire la crescente diffusione nella società
e nella politica di quel basilare carattere della democrazia, che è
l’uguaglianza. Oggi a me pare che le democrazie occidentali,
raggiunto il massimo di uguaglianza concepibile da questo sistema,
stiano cambiando il motore, rimettendovi quello basilare dell’ancien
regime, che era la disuguaglianza. Solo che, nel frattempo, la
storia è scorsa, la democrazia c’è stata, e noi corriamo il
rischio di avere il peggio di ambedue i regimi, e cioè, come
accennato, un’aristocrazia bottegaia.
Ecco perché il problema
della libertà posto con tanta insistenza da Tocqueville torna ad
essere nella sostanza così attuale: non perché serva da correttivo,
come la destra oggi sostiene, al grande ciclo dei sistemi ideologici
e totalitari che è chiuso; quanto perché può contribuire ad
arginare le pulsioni alla disuguaglianza, da cui siamo tutti
circondati. Può apparire, rispetto al percorso effettivamente
compiuto da Tocqueville, uno scherzo della storia — e del pensiero:
ma è così.
“il manifesto”, 11
aprile 1995
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