Mi raccontò una volta Giuseppe
Prezzolini che, da ragazzo, aveva conosciuto Edmondo De Amicis. Era
amico di suo padre, prefetto a Reggio Emilia; lo scrittore arrivò in
visita scortato da un commissario di Pubblica Sicurezza, perché le
idee socialiste che professava lo rendevano "un individuo
socialmente pericoloso". Lo riaccompagnarono al treno, e il
dottor Prezzolini garantì per il suo ospite "sovversivo",
che poté viaggiare senza accompagnatore. "Edmondo dei
languori", come lo han chiamato i critici severi, era tutt'altro
che un tipo molle ed esangue; secondo le confidenze di Marino
Moretti, e anche a leggere le pagine meno famose, più secche e
controllate, poteva scivolare sull'erotico, gelido, e rivelare,
inaudito, perfino "un animo cattivo".
La sua immagine, purtroppo, è legata a
un solo libro: Cuore, che a mio parere, fu una straordinaria
invenzione editoriale, come dimostrano anche le lettere che scriveva
a Treves, illustrandogli la trama del suo racconto. Sapeva
chiaramente dove intendeva arrivare, e aveva anche una idea precisa
della clientela alla quale intendeva rivolgersi. E conosceva il suo
tempo, i valori che contavano, le suggestioni che lasciavano il
segno: se è vero che coi buoni sentimenti non si fa dell'arte, è
provato che molta gente è felice quando si commuove e può piangere.
De Amicis sapeva strappare la lacrima: anzi, non la estirpava
neppure, ma la faceva dolcemente sgorgare, come una liberazione. Le
maiuscole, allora, si sprecavano: Dio, Patria, Famiglia; la banda
accompagnava pompieri caduti nell'adempimento del Dovere, i bravi
bambini si buttavano nelle acque limacciose per salvare le lavandaie,
ed era del tutto naturale che, se uno riusciva a stringere la mano al
Re, dopo non se la lavava mai più. Le gerarchie andavano rispettate:
c'era il Signor Maestro, e il Signor Maresciallo dei Carabinieri,e
figuriamoci il Signor Parroco; e doveva poi arrivare il
provvidenziale Gian Burrasca, che metteva alquanto in discussione il
principio di autorità.
Sono tra quelli che le storie della
Piccola vedetta lombarda e del Piccolo scrivano fiorentino
le hanno lette a scuola, e poi risentite a casa. E quelle vicende in
me si associano a un odore indimenticabile di inchiostro che si secca
e di vecchio legno, di patate bollite e di caldarroste. Piangevo. Ci
sono voluti degli anni perché mi rendessi conto che il giovinetto
amanuense di Firenze, se ricopiava di notte, doveva inesorabilmente
dormire di giorno. Più tardi ho scoperto che di bravi Garrone e di
"infami" Franti è piena la vita: o ancora meglio, che in
ognuno c'è un po' di Franti e un po' di Garrone, perché siamo
capaci di grandi gesti e di inconfessabili meschinità.
Si dice "deamicisiano" in
senso negativo: ed è un giudizio, a mio parere, sbagliato e totale.
Significa decadente, patetico, furbastro, ma se qualcuno leggesse i
resoconti di viaggio di Edmondo si renderebbe conto, ad esempio, che
era un grande inviato speciale. Reggono ancora adesso. C'è la
cronaca delle visite parigine a Zola e a Victor Hugo, che è
esemplare; esce dal vecchio Victor commosso ed emozionato: "Ha
il cuore di un fanciullo e i modi di un bambino". Già, Cuore:
è stato un po' il breviario di una generazione, e non credo abbia
fatto tanto male. Non furono ingannati, quelli che andarono alla
guerra del '15, dalle avventure eroiche degli scolari di De Amicis:
ma dalle promesse e dalle lusinghe del potere. La maestrina della
penna rossa insegnava la lealtà, il sacrificio, la gioia che premia
i generosi: non credo che neppure dopo Freud e la Montessori si sia
inventato qualcosa di meglio.
la Repubblica, 5 ottobre 1984
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