27.8.15

Chiapas 1981. In attesa di Marcos e di Zapata (Bartolo Pieggi)

Ho tratto l'articolo che segue e le foto che lo corredano (di Robert Van der Hilst) da un numero di “Qui Touring”, il mensile di viaggi e informazioni turistiche che il Touring Club Italia inviava ai suoi soci del 1981 (il mese potrebbe essere maggio, ma nel ritaglio non trovo indicazioni). L'autore è di chiesa, ma la sua rappresentazione delle condizioni delle popolazioni contadine e, in particolare, degli indios, è concreta e documentata e dà conto del clima generalizzato di rivolta. Qualche anno dopo arriveranno il sub-comandante Marcos e la rivolta zapatista. (S.L.L.)
Più di diecimila alla festa di San Juan de Chamula
Tra la fine di gennaio e la metà del febbraio scorso, alcuni avvenimenti, relativamente clamorosi, hanno scosso di nuovo la vita, fino a qualche anno fa sonnolenta e antica, dello stato messicano del Chiapas, nel profondo sud del paese.
A El Carmen, cittadina settentrionale della regione, dodicimila contadini hanno bloccato più volte l’entrata di un complesso petrolchimico statale per protestare contro il mancato pagamento dei risarcimenti promessi in cambio delle terre sottratte alla coltivazione e dei danni prodotti dall’inquinamento. Le manifestazioni sono state pacifiche e di breve durata, ma i contadini hanno dichiarato di essere decisi a ripeterle fino a quando non otterranno quello che chiedono.
A San Juan de Chamula, borgo posto a 2.000 metri d’altezza, nella regione centrale, ancora splendida e incontaminata, del Chiapas, altri contadini hanno celebrato, con una partecipazione più intensa di quella degli anni passati, la festa della purificazione, una delle tante dedicate in questo periodo al risveglio della natura, secondo credenze e riti millenari.
Buona parte dei contadini protestatari di El Carmen erano indios; quelli di San Juan sono tutti indios discendenti da quel mosaico di popoli sparsi da tempi immemorabili nell’America centrale prima della conquista spagnola.
Il Messico può menarne addirittura vanto: conta infatti più indigeni precolombiani di quanti possano sommarne tutte le altre nazioni del continente. Gli indios messicani di sangue puro sono circa 6.000.000 su un totale di 67.400.000 abitanti. Tra i 73 gruppi etnici finora classificati, i più numerosi sono gli zapotechi, i mixtechi, i maya, gli otomies e i nahua, eredi degli aztechi, ultimi dominatori dell’antico Messico, a cui tolsero potere e ricchezze nel 1520-21 alcune centinaia di spagnoli guidati da Hernàn Cortés. Questi e altri gruppi, di cui ci occupiamo un po’ più diffusamente nel riquadro a pagina 65, parlano lingue diverse (gli studiosi ne distinguono 58 con 183 sottovarianti e dialetti), non conoscono o conoscono a malapena lo spagnolo, la lingua ufficiale della nazione, e hanno conservato, è vero, una parvenza di autonomia culturale e politica, ma a prezzo di condizioni d'esistenza autarchiche e dolorose. Già nel 1937, Pio XI li definiva «uomini talmente travagliati dalle angustie della vita da non potere neppure conservare la dignità umana». Da allora la situazione non è molto cambiata e a questo riguardo il Chiapas può servire da modello esemplare.
Ottavo stato del Messico per grandezza, con una superficie di 74.000 chilometri quadrati, ospita circa 350.000 indios (per lo più tzotzil, tzeltales, toques e tojolables) su poco più di 2.000.000 d’abitanti. Fino a cinque anni fa era terra di latifondismo e di perseverante sfruttamento; dal 1976, dopo la scoperta del petrolio, è diventata anche zona di frontiera. Dall’area posta a cavallo tra il Chiapas e lo stato contiguo del Tabasco si ricava oggi un milione di barili di petrolio al giorno su una produzione totale quotidiana di 2,3 milioni nel gennaio scorso, e si producono i due terzi del gas messicano, la maggior parte del quale viene convogliato verso gli Stati Uniti attraverso un gasdotto di 774 miglia.
A beneficiare di questa nuova ricchezza, sfruttata dall’ente di stato Pemex, non sono comunque gli abitanti locali. I contadini del Chiapas (per lo più di sangue misto come di sangue misto è l’80 per cento della popolazione messicana) guadagnano meno di un terzo di un manovale della Pemex. Coloro che riescono a farsi assumere dall'azienda, di solito a titolo provvisorio, devono spesso pagare tangenti per conservare il posto.
Da sinistra in alto: uomini della tribù tzotzil riempiono i bicchieri; accanto musici. 
Sotto a sinistra una fase della corrida, accanto una madre tzotzil con il figlio.
Ma ancora più diseredati e sfruttati restano gli indios cosiddetti puri. Essi continuano a essere impiegati come manodopera stagionale nelle grandi piantagioni di caffè, di cacao e legno pregiato. Sono pagati, a volte, mille lire al giorno o in natura, con acquavite, che per loro è companatico e veleno. «Ogni volta che bevete caffè, sappiate che bevete sangue indio», ha detto qualche anno fa monsignor Samuel Ruiz, vescovo di San Cristobai de Las Casas. l’ex capitale coloniale del Chiapas, posta a circa una ventina di chilometri dal centro cerimoniale di San Juan de Chamula.
Eredi dei maya (un popolo che, soprattutto tra il 200 e il 900 d.C., costruì città e piramidi meravigliose pur non possedendo arnesi metallici, veicoli a ruote e animali da soma), gli indios del Chiapas si sono ripetutamente e inutilmente ribellati in passato: nel 1712-13 e nel 1867-80. Recentemente, nel 1970 e nel maggio dell'anno scorso, hanno partecipato ai tentativi falliti da parte di contadini locali d’occupare terre incolte dei latifondisti. Alcuni sono stati uccisi, altri arrestati. (Delle ultime proteste davanti ai cancelli del complesso petrolchimico della Pemex abbiamo parlato all’inizio).
Questo spiega l'importanza insostituibile e crescente per questa gente delle feste religiose. Costretti a vivere in villaggi di capanne, isolati in alta montagna, dove la coltivazione di mais è più dura e precaria, gli indios ritrovano una parvenza di dignità e dimenticano le loro miserie inebriandosi di danza, liquori, colori e musica per le vie di San Juan de Chamula e di altri centri di preghiera e di riunione. In tali cerimonie si mescolano credenze millenarie e recenti. Dalle tradizioni dei maya, e astronomi espertissimi che furono in grado di calcolare l’anno solare in 365,2422 giorni sbagliando solo di 17 secondi, riemerge il senso ciclico della vita cosmica, che la chiesa cattolica ha adattato ai suoi riti e misteri.

La sfilata
Dietro il Cristo è adombrato il dio Sole; dietro il culto della Madonna si nasconde l’adorazione di un’antica dea madre, anch’essa vergine. Molti santi patroni di San Juan de Chamula portano sul cuore uno specchio, nel quale è possibile scorgere la propria anima, quell’anima che stregoni e sciamani, secondo una tradizione ancora diffusa e segreta, devono rincorrere e riprendere quando malati e indemoniati l’hanno perduta. Persino l’uso del pulque, una bevanda inebriante ricavata dal succo fermentato dell’agave, ha connotazioni religiose. Un tempo erano numerosissimi gli dei del pulque; oggi, prima di berlo, per esempio, in una delle 1.109 pulquerías della megalopoli di Città di Messico, gli uomini si tolgono il cappello di fronte alle immagini della Madonna e dei santi che proteggono questi ed altri locali similari, assai frequenti in tutte le città del Messico.
Meglio comunque di ogni altra considerazione, a far capire queste credenze e le condizioni in cui vivono gli indios. possono servire le semplici parole rivolte da un loro rappresentante a papa Giovanni Paolo II durante la sua visita in Messico nel gennaio del 1979. A Cuilapan, nello stato di Oaxaca. adiacente a quello di Chiapas, lo zapoteco Esteban, 48 anni, padre di sette figli, si è rivolto al pontefice nel suo dialetto (l’unica lingua che conosca): «Datu gunibatu eneuda pekte ki betua...», cioè, «Ti saluto Santo Padre a nome di tutti i miei fratelli. Siamo molto felici della tua visita perché ci porti la pace, la giustizia, l’amore e la luce di Cristo. Speriamo che con te venga e resti per noi la felicità. Siamo un popolo umile. Soffriamo molto. Le vacche stanno meglio di noi. Non siamo capaci d'esprimerci e quello che soffriamo dobbiamo custodirlo nel segreto dei nostri cuori. Non abbiamo lavoro e nessuno ci aiuta. Le nostre poche forze però le mettiamo volentieri al tuo servizio. Le offriamo alla tua e alla nostra Chiesa. Santo Padre, chiedi qualcosa allo Spirito Santo per i tuoi poveri figli. Per bocca mia gli Indigeni ti chiedono di pregare affinché la parola di Dio si realizzi nella nostra vita».

Qui Touring, 1981

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