Al tempo del nostro
apprendistato letterario era ancora in auge la distinzione tra la
critica accademica, che si sviluppava nelle ricerche e nelle aule
delle Università, e la critica militante, quella delle terze pagine
dei giornali (non era ancora in uso dedicare alla cultura una intera
sezione del quotidiano o il paginone centrale). La distinzione
diveniva a volte contrapposizione corporativa: i “militanti”
mettevano sotto accusa per la loro spocchia gli “accademici”, i
quali a loro volta rinfacciavano agli avversari un inguaribile
dilettantismo.
Walter Binni era per
mestiere “accademico”, ma non rientrava nella cerchia dei
fanatici dell'“alta cultura” e, di quando in quando, utilizzava
quotidiani e periodici d'attualità per comunicare aspetti
significativi della propria ricerca. Di più: egli era un critico
“diversamente militante”, poiché la serietà della ricerca, la
completezza e la qualità della documentazione, il rigore
dell'argomentazione, la stessa collocazione professionale nel mondo
universitario non gli impedivano affatto di impegnarsi in un giudizio
di valore netto, senza “forse” e “nonostante”, senza “qui
lo dico e qui lo nego”, giudizio letterario in primo luogo, ma
all'occorrenza etico e politico.
Binni, peraltro, non era
affatto disinteressato alla letteratura contemporanea, il terreno più
congeniale alla “critica militante”, spesso impegnata nella
recensione e valutazione di libri nuovi: il saggio che lo aveva
imposto come una delle più acute e originali presenze della nuova
critica letteraria italiana, La poetica del decadentismo,
del 1936, era dedicato ad autori novecenteschi, alcuni dei quali
ancora in attività.
L'importanza
storica di quel libro non riguarda solo la nozione di “poetica”,
quasi un'invenzione di Binni che si rivelerà strumento di indagine
critica dalle enormi potenzialità, o la nozione di “decadentismo”
appropriatamente trasferita dal contesto francese all'Italia, per
significare una temperie, un gusto, una sensibilità che s'estendono
dal finire dell'Ottocento ai primi due decenni del secolo nuovo, ma
la costruzione di una linea di sviluppo che segna profondamente la
storiografia del Primo Novecento letterario italiano: i fermenti
della Scapigliatura, D'Annunzio e l'estetismo, Pascoli e la poetica
del “fanciullino”, la specularità tra crepuscolari e futuristi.
La freschissima riedizione di quel saggio (giovanile e maturo) come
sesto volume delle Opere complete che
Il Ponte Editore va pubblicando in simbiosi con il Fondo Walter Binni
fornisce motivi di meditazione: il fatto che quella linea
interpretativa, che quella sistemazione periodizzante, pur meritando
approfondimenti e correttivi, regga tuttavia alla distanza di un
secolo, conferma il ruolo di primissimo piano dell'italianista
perugino nella critica novecentesca.
Con
quel libro presenta più di una relazione il quarto dei volumi delle
Opere complete, gli
Scritti novecenteschi (1934 – 1981),
usciti sul finire del 2014. Esso
comprende testi generalmente apparsi su riviste, brevi saggi,
articoli, recensioni su poeti, scrittori e critici attivi nel secolo
scorso, tra il 1934 e il 1951. Dal 1953, anno nel quale inizia le
sue pubblicazioni la “Rassegna della letteratura italiana”
diretta da Binni, l'intervento su opere recenti di letteratura o di
critica è affidato ai collaboratori responsabili della sezione sul
Novecento e le incursioni novecentiste dell'italianista perugino
cessano, ma proprio per questo acquistano rilievo i due autori cui
dedica il proprio impegno critico, Eugenio Montale e Aldo Capitini, i
“suoi” poeti del Novecento.
Alcuni
testi degli Scritti novecenteschi,
in dialogo spesso pugnace, talora ironico, sempre fecondo, con nuovi
interventi e apporti critici, approfondiscono i temi già affrontati
da Binni nel volume sul decadentismo. Eccellenti, per esempio, mi
paiono le pagine del 1941 sul Gozzano, di cui già nel volume sul
decadentismo si erano sottolineati il “sentimento diretto”, non
mediato, e la capacità di scelta che lo distinguono dagli altri
crepuscolari e gli permettono di realizzare compiutamente il
“superamento del dannunzianesimo e del pascolismo”. Qui
giustamente Binni valorizza la potenza costruttiva del Gozzano
soprattutto nei due poemetti che considera più ricchi di poesia, la
Signorina Felicita e
Le due strade, e
riprende, con una punta di orgoglio, la tesi che più lo
differenziava dal crocianesimo ortodosso: la “complessa poetica”
che presiede a quelle prove gozzaniane, il “calcolo nella scelta
del materiale poetico” per il critico perugino non è mera
struttura e men che mai ostacolo alla poesia, ma base di essa.
Alcuni
altri scritti affrontano un altro passaggio chiave della letteratura
protonovecentesca: le riviste di letteratura e cultura, con una
attenzione speciale a “La Critica” del Croce, di cui si valorizza
una vocazione dialogica, capace di andare oltre lo sterile formulismo
e di stimolare anche i non ortodossi e i dissidenti, e a “La Voce”,
all'interno della quale Binni opera una distinzione netta, tra le
voci più alte, Jahier, Boine, Slataper, e il “praticone”
Prezzolini (per non parlare di Papini).
Del
Prezzolini, che come lui era nato a Perugia, anche se esibiva un
fiorentinismo esagerato, Binni salvava la curiosità intellettuale
del periodo vociano, del tempo in cui lo scrittore, emancipatosi dal
deleterio fascino del Papini, riusciva ad esprimersi in uno stile
brioso, che faceva da pendant al
suo attivismo organizzativo ( “più arruolatore che critico” ).
Di
grande qualità è la recensione della Storia della
letteratura italiana di Giovanni
Papini. Lo scrittore fiorentino (probabile inventore della formula
sulla “guerra sola igiene del mondo”), dopo avere
superficialmente attraversato tutti gli irrazionalismi di inizio
secolo, era arrivato a un peculiare clerico-fascismo. Letto oggi fa
ridere quasi quanto Mussolini quando lo si vede nei cinegiornali Luce
a comiziare con le mani ai fianchi: la prosa papiniana, piena di
trovate, figure, scoppiettii, da epigono di D'Annunzio, appare a noi
stucchevole e vuota, ma fu efficace strumento corruttivo per
l'intellettualità piccolo-borghese del ventennio. Della Storia
uscì (1937) solo il primo volume, che si fermava al Trecento; era
dedicata “a Benito Mussolini, amico della poesia e dei poeti” e
pretendeva di descrivere e illustrare “una delle più vaste
province dell'impero spirituale italiano”. Papini, nella sua fase
“teppistica”, prima della Grande Guerra, era stato l'inventore
della “stroncatura” e di Stroncature nel
1916 aveva persino pubblicato un volume, non limitandosi a libri
recenti, ma pretendendo di demolire – tra gli altri – nientemeno
che Shakespeare. La recensione di Binni è a sua volta una
stroncatura (“chi di spada ferisce ...”) ma, con la puntualità
dei riferimenti e il peso dei ragionamenti, rovescia il metodo
papiniano: al “non mi piace, ergo
non vale niente” sostituisce il “non vale niente, ergo
non mi piace”. La chiusa, a bassa voce, è pungente: “Bisognerebbe
dire, senza astio e senza amore, che questa Storia non
ci prospetta alcun problema e non arricchisce la nostra sensibilità,
non ci fornisce né un punto di vista originale né una pagina
d'arte”.
La
grandezza di Binni, in questi Scritti novecenteschi,
si rivela soprattutto nel riconoscere e nel portare alla luce la
grande poesia, la grande arte. C'è per esempio una nota gaddiana
(del 1946), sull'Adalgisa,
in cui allo scrittore lombardo si riconosce un valore assoluto assai
prima che in Italia scoppi un “caso Gadda”; e ce n'è un'altra
sul Canzoniere di
Umberto Saba, del quale cui si illustra la maturazione letteraria: il
poeta triestino, pur fedele all'originaria “brama”, riesce a
produrre “impasti affascinanti di canzonetta e di nuovo ritmo più
perentorio e assorto”.
A
parte vanno considerati i due saggi che caratterizzano l'ultima parte
del volume, l'Omaggio a Montale
e Aldo Capitini e il “Colloquio Corale”, entrambi
del 1966. Montale e Capitini sono di certo i poeti del Novecento più
cari al Binni, quelli nei quali meglio avverte la lezione
dell'amatissimo Leopardi, seppure sviluppata in direzioni diverse. Di
Montale Binni, utilizzando come documento di poetica soprattutto
l'Autodafè, nega il
“disimpegno” e valorizza, anzi, la drammatica coscienza storica,
la dignità che da essa nasce. Di Capitini rovescia l'immagine che lo
vorrebbe primariamente pensatore, educatore e uomo politico e solo
secondariamente poeta. Per Walter Binni è nella poesia del Colloquio
corale la sintesi e il vertice
del messaggio dell'intellettuale che gli era stato maestro e compagno
di lotta. Anche Capitini, nella lettura binniana, parte da Leopardi,
“dalla consapevolezza acutissima ... della ostilità della realtà
naturale” e dalla “tragica coscienza del limite intollerabile
della morte”, ma da “contestatore e rivoluzionario non violento”
ritiene proprio dovere battersi per una trasformazione della stessa
realtà naturale convinto che “un diverso modo di concezione e di
azione da parte dell'uomo, la persuasa attenzione di un diverso
comportamento di amore, di nonviolenza, di nonmenzogna, di apertura
assoluta … porterà anche la realtà ad aprirsi, a liberarsi dei
propri storici e attuali limiti”.
da "Il Ponte", Luglio 2015
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