Come i grandi
maestri del giornalismo
Con Enzo, adesso, vorrei
tanto parlare dell’Iraq di oggi, ancora in guerra dopo tanti anni
di sangue. Discutere insieme sui perché e magari stavolta ci
troveremmo finalmente d’accordo, pur guardando da orizzonti
diversi. Ma una cosa è certa: un giorno lo faremo.
Il fatto è che quando
arriva agosto, fatalmente si srotola la pellicola di un film che
merita ancora di essere raccontato. E’ un doloroso evento pubblico,
perché la memoria di Baldoni appartiene a tutti quelli che lo hanno
amato e che tuttora lo amano ma se permettete è anche una questione
privata perché il destino (lo ritengo un privilegio) ha voluto che
incrociassi da vicino quell’uomo straordinario nelle ultime
settimane della sua vita, proprio fino alla fine. Ricordo la sua
genialità, l’educazione, la curiosità, la cocciutaggine anche di
un vero cronista che voleva vedere e raccontare quello che gli altri
non raccontavano e che, come i grandi maestri del giornalismo, voleva
soprattutto capire.
Appunto, stava in Iraq
per quello: per capire. Certo strano modo per un pubblicitario di
successo passare le ferie in quell’inferno, ma la spinta emozionale
era troppo forte, ma anche nobile, quello che non ha capito qualche
sciagurato tratto in inganno da quella maniera di definirsi
“turista”. Viaggiava con molta umiltà, era cosciente del suo
“dilettantismo”: ne ha parlato e ne ha scritto tante volte. Ma
non giocava: il suo approccio era impeccabile, da freelance
entusiasta di scoprire altri mondi, quelli difficili (lo aveva già
fatto altre volte in altri luoghi).
A undici anni esatti
dalla sua morte, proprio il 26 agosto, i ricordi personali sono
tanti, troppi, vivissimi. Così come i dubbi mai dissipati. Una
fiducia mal riposta, la lunga discussione notturna prima del viaggio
fatale, tutte le foto che mi ha fatto e che non vedrò mai, l’ordigno
a Malmudiya, l’incursione a Najaf, il saluto a Kufa, il sogno di
intervistare Moqtada al Sadr. L’arrivederci a Baghdad. L’ho
rivisto invece molti anni dopo (imbattibile ritardatario) a Cesi, il
suo dolce paesino umbro, chiuso in una bara troppo grande per i suoi
poveri resti. Il solito destino non gli ha permesso neppure di
esaudire quel desiderio espresso in un testamento che ormai abbiamo
imparato a memoria tutti noi che gli abbiamo voluto bene: un funerale
festoso, con canti e balli e amori improvvisi, la banda e la
porchetta, le parole di lutto bandite. Non è stato possibile perché
giocando si definiva immortale, mentre quelle “istruzioni” erano
nate proprio nel momento stesso in cui aveva scoperto la paura, come
tutti i reporter di razza. Noi, tutti noi, non abbiamo neppure un
pizzico della sua genialità che ho scoperto subito quando ci siamo
conosciuti al “Palestine” davanti al cratere di una granata che
io chiamavo bomba e lui “rosa scarlatta”, traducendo l’orrore
in poesia . Così a Cesi ci siamo messi banalmente a piangere,
convinti però che su una cosa non ha toppato: vero, è immortale.
Sul web continua a vivere perché personalmente continuo a portare
avanti i nostri “blog paralleli” (due modi diversi di vedere la
guerra) nati in un lettino d’ospedale. Ma grazie soprattutto alla
sua (per sempre) “Zonker zone” fatta di balene e di sogni.
Dal sito di “Articolo
21”, 25 agosto 2015
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