Dopo gli importanti
lavori di Cari Ipsen e di Marie-Sophie Quine, questo saggio (Anna
Treves, Le nascite e la politica nell'Italia del Novecento, Led,
Milano 2002) riconduce nel dibattito storiografico, attraverso una
prospettiva che muove dagli anni venti per arrivare fino alle più
recenti cronache giornalistiche, un tema ancora ricco di spunti poco
indagati.
In realtà, fulcro
centrale della ricerca è il nesso fra demografia e fascismo,
affrontato prima nella sua realtà politico-ideologica, e poi in
quanto produttore di memoria negli anni dell’Italia repubblicana.
Per quel che riguarda il periodo compreso fra le due guerre mondiali,
Treves adotta due punti di vista. Il primo inserisce il natalismo
fascista nell’ambito, del panorama europeo complessivo, smentendo
lo stereotipo secondo cui il natalismo sarebbe stato appannaggio
esclusivo dei fascismi. Al contrario, il tentativo statale di
influenzare i comportamenti procreativi dei cittadini caratterizzò
anche la Francia di Daladier e di Blum, la Germania di Weimar, le
socialdemocrazie scandinave, l’Urss staliniana. Tuttavia, pur
inserito in un più ampio contesto politico-culturale, il caso
fascista mantiene il suo carattere anomalo: perché una campagna
demografica in un paese come l’Italia, che presentava problemi di
eccesso, e non di mancanza, di popolazione? L’autrice tenta di
spiegare tale “diversità nella somiglianza” attraverso
un’interessante decostruzione dell’impianto
ideologico-concettuale del noto Discorso dell’Ascensione (1927).
Nell’ipotesi natalista mussoliniana viene infatti colto un nodo
cruciale per l’elaborazione, da un lato, della politica di potenza,
e, dall’altro, della filosofìa antimodernista fascista.
Ad approfondire tali
aspetti è la seconda prospettiva analitica scelta da Treves: lo
studio dei rapporti fra i demografi e il regime. Se da un lato la
demografia in quanto disciplina autonoma nasce come “scienza di
regime”, dall’altro i demografi sono gli “aedi” piuttosto che
i “tecnici” delle scelte politiche. Con due eccezioni importanti:
la svolta familista della campagna demografica, nel 1937, e l’avvio
della campagna razzista, nel 1938.
La contaminazione
razzista della demografia italiana ne determinerà le sorti nel
dopoguerra, in un caso emblematico di continuità dello stato. Il
tema della quantità delle nascite viene infatti rimosso: nell’Italia
democristiana, le leggi contro l’aborto e gli anticoncezionali,
ancora in vigore, sono leggi “cattoliche”, a difesa della
moralità. Nell’Italia del Sessantotto, l’argomento delle nascite
ritorna, ma con il linguaggio della battaglia per i diritti civili e
individuali e con la scoperta della sovrappopolazione del Terzo
Mondo. Solo una copertura di “sinistra” consente la rentrée del
natalismo: al congresso di Bucarest, del 1974, i demografi italiani
si schierano, infatti, contro la pretesa “imperialista” americana
di contenere la crescita demografica dei paesi del Sud del mondo. La
svolta si compie negli anni ottanta, con il passaggio dal natalismo
“terzomondista” alla denuncia della denatalità italiana come
“male”.
Il cerchio si chiude,
dunque, con preoccupanti elementi di continuità nella differenza: il
natalismo attuale, spesso giustificato come una forma di difesa
dell’identità nazionale ed etnica, è forse così lontano da
quello degli anni venti?
“L'Indice”, dicembre
2002
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