Don
Nonò era il barbiere della nostra famiglia, nel senso che tutti i
miei familiari maschi (nonno, gli zii, mio padre) si facevano servire
nel suo salone che si trovava situato in una delle due strade che
portavano a casa nostra. Era perciò comodo, quando ce nera bisogno,
rincasando, fermarsi dieci minuti nel salone per farsi dare una
spuntatina ai capelli. I miei amici, una volta giunti attorno ai
sedici anni, mettevano i pantaloni lunghi e ogni mattina ansiosamente
si controllavano allo specchio per vedere se nottetempo era capitato
il miracolo della barba. E con quanto orgoglio i più precoci
potevano finalmente proclamare ai compagni invidiosi: «La varba mi
spuntò! Dal varberi andai!».
Io
no, io dirazzavo. Ho sempre, nella mia vita, cercato di evitare i
saloni dei barbieri. Una spiegazione possibile di questa mia
idiosincrasia è forse riconducibile a un fatto che mi capitò un
giorno che, potevo avere sei anni, mio padre si fece accompagnare da
me nel salone di don Nonò. Il salone in verità non meritava
l’accrescitivo: era una stanza di poco più di quattro metri dotata
di uno sgabuzzino posteriore. Dentro ci stavano tre poltrone da
barbiere, sei sedie per i clienti in attesa, un portaombrelli, un
attaccapanni, due sputacchiere. Quel giorno arrivò trafelato uno
degli aiutanti di don Nonò con una tazza da latte in mano ed entrò
nello sgabuzzino. Io lo seguii. E vidi che rovesciava il contenuto
della tazza dentro a un pentolino di coccio pieno a metà di sale. Mi
accorsi allora che si trattava di quattro orrendi vermi neri, gonfi e
grossi. «Che sono?» domandai disgustato. «Sanguette» mi rispose.
E subito dopo le sanguisughe cominciarono a vomitare sangue, tingendo
di rosso il bianco del sale. M’impressionai talmente che me ne
scappai da solo a casa. Allora le sanguette servivano per cavare il
sangue a chi ne aveva in eccesso. Si applicavano a una vena e quelle
attaccavano a succhiare. Le tenevano i barbieri, residuo di quando i
barbieri erano anche cerusici.
Insomma,
a 82 anni suonati credo di essere stato da un barbiere non più di
una ventina di volte. A tredici anni, avevo i capelli così lunghi
che all’adunata del sabato fascista il capomanipolo mi ordinò di
ripresentarmi il sabato seguente coi capelli tagliati. E ne informò
mio padre, il quale disse a don Nonò che appena mi vedeva passare
doveva farmi bloccare da un suo aiutante, vincere le mie resistenze,
portarmi nel salone e quindi procedere al taglio forzato. Ma io
subodorai l’agguato e per i primi quattro giorni mi guardai bene
dal passare da quella strada, facevo l’altra. Sennonché il quinto
giorno, giovedì, trovai la strada di fuga sbarrata per lavori. E
quindi dovetti passare dalle forche caudine. L’aiutante di don Nonò
mi vide e cercò d’agguantarmi, io riuscii a sfuggirgli, intervenne
il secondo aiutante, poi qualche passante. Insomma, alla fine di
questa scena degna della feria di Pamplona, fui catturato e ridotto
quasi alla calvizie.
Don
Nonò, come tutti i barbieri, ogni anno distribuiva in regalo un
calendarietto ai clienti. Erano piccoli, da portarsi nel taschino,
infilati dentro a una bustina di carta speciale. Dotati di un profumo
dolciastro particolare, credo unico al mondo, erano illustrati a
colori vivaci. Durante gli anni del regime, ne esistevano di due
tipi: uno, come dire, ufficiale, che esaltava le eroiche imprese del
fascismo, e un altro, più clandestino, nel quale erano raffigurate
carnose, rubensiane femmine discinte. Per l’epoca, erano molto osé,
oggi andrebbero bene in un educandato. Confesso che don Nonò riuscì
a tagliarmi i capelli per la seconda volta promettendomi un
calendario dove le femmine non erano coperte da trasparenti veli ma
completamente nude.
Alla
domenica, perché i barbieri lavoravano anche la domenica, il loro
giorno di riposo era il lunedì, nel salone di don Nonò c’era il
concertino eseguito dal duo Pirrotta-Spitaleri, di grande fama
paesana. Pirrotta, al mandolino, era un ferroviere, Spitaleri,
falegname, suonava la chitarra. Naturalmente non si esibivano solo
nel salone, ma venivano ingaggiati in occasioni speciali quali
matrimoni o particolari ricorrenze. Si prestavano anche a serenate
notturne (allora usavano) che gli innamorati facevano eseguire sotto
le finestre delle loro belle. Certe volte le serenate finivano con la
fuga precipitosa del duo, inseguito da qualche padre geloso che non
gradiva la gentile attenzione verso la figlia. Pirrotta era anche
quello che oggi si chiamerebbe un vocalist, non cantava le parole
delle canzoni, ma ne accennava a tratti il motivo, generalmente a
bocca chiusa. Il loro repertorio pescava soprattutto nella grande
canzone napoletana e frequenti erano i bis. Perché in occasione del
concertino il salone si affollava all’inverosimile e il duo era
costretto a suonare praticamente schiacciato contro il muro. Io me lo
godevo da fuori, appoggiato alla porta, sicuro che don Nonò era
troppo impegnato per darmi la caccia. Poi, nel 1942, il fascismo
proibì i concertini. La guerra - spiegarono i gerarchi — poteva
tollerare solo marce militari e inni patriottici. E il salone di don
Nonò s’intristì.
Prologo
al libro Musica
nei saloni. Suoni e memorie dei barbieri di Sicilia (a
cura di G. Pennino e G. M. Piscopo, IPSA, Palermo, 2009), ora in
Andrea Camilleri, Come
la penso,
Chiare lettere, 2013
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