Due libri per un re:
dal primo, «l’antiprincipe», Federico II, che ne fu autore, esce
male, fra l'ovvio e lo stupido. Ma quando lo ritrae Voltaire, che
pure lo chiama “puttana”, che fascino in quelle contraddizioni!
Voltaire e Federico II di Prussia in una stampa d'epoca |
«Mi chiedo che cosa
possa indurre un uomo a cercare di accrescere la sua potenza a spese
della miseria e della morte di altri uomini». Parola di principe,
anzi di antiprincipe. In questa veste si presentava al mondo Federico
II, erede al trono di Prussia, amico di filosofi, letterati, poeti,
egli stesso amante della musica e dei versi, sovrano antitirannico
per eccellenza, almeno nelle intenzioni.
Un anno prima di venire
incoronato (siamo nel 1739), il ventisettenne Federico compone il suo
manifesto: L'antimachiavelli, sdegnato commentario del
Principe, buon proposito di rieducazione morale e filosofica
dei governanti alla scuola della tolleranza. Voltaire se ne
entusiasma e si dà da fare per pubblicarlo, ma nel frattempo
Federico, elevato al trono, aveva già dichiarato guerra all’Austria
e invaso la Slesia.
Lo stesso uomo che si era
chiesto: «Come si può presumere di acquistare fama rendendo
infelici gli altri?» ora si risponde con disarmante sincerità:
«L’ambizione, l’interesse e il desiderio di far parlare di me
vinsero ogni esitazione, e la guerra fu decisa». L’antiprincipe
che invitava a non incrudelire, ora incita così i suoi uomini:
«Attaccate, attaccate, attaccate sempre!». A dieci passi dal nemico
«sparagli una gran salva nel naso e ficcagli immediatamente la
baionetta nelle costole!».
Chi era dunque Federico
II? Un ipocrita, un pericoloso mentitore secondo molti contemporanei
non necessariamente nemici, «un accorto dissimulatore» secondo
Thomas Mann che in pieno 1914 gli dedica un saggio (Federico e la
grande coalizione) e si spinge fino a proiettare la sua ombra
sulla nascita della Grande Germania. Cita: «Se potessi supporre che
la mia camicia o la mia pelle hanno sentore delle mie intenzioni, le
strapperei». Imprevedibile per calcolo dunque, non per ipocrisia. In
un certo senso «un machiavellico»! Come in quest’altra massima,
sempre ricordata da Thomas Mann: «Il mondo giudica la nostra
condotta non dai motivi, ma dal successo. Cosa ci resta da fare: aver
successo».
Le Edizioni Studio Tesi,
dopo aver pubblicato l’anno scorso il saggio di Mann, mandano ora
alle stampe L’antimachiavelli e una Vita di Federico II
di Voltaire. La figura del sovrano, restituita al suo tempo e alla
sua inattualità, si manifesta ancora più esemplare e rivelatrice.
La sua celebrata operina
è solo un compendio di considerazioni ovvie, citazioni sregolate e
sovrane stupidità (come questa: «Machiavelli scriveva solo per
piccoli principi e devo dire che trovo in lui solo piccole idee»).
Il vero talento di
Federico II traspare nelle considerazioni di ordine finanziario e
militare, per il resto si tratta di autopropaganda nella quale
l’atteggiamento anticonformista e irreligioso viene temperato e
annacquato nel moralismo più insistito, e le riflessioni sui limiti
dell’operare umano sono usate come piedistallo per l’esibizione
della propria grandezza.
Scopriamo insomma in
Federico II il modello dell'autocrate riformatore che promette ai
sudditi quella libertà di cui intende personalmente usufruire in
modo assoluto, il primo esempio «moderno» di politico illuminato
eppure adoratore della «potenza», di antidespota che nell’esercizio
capriccioso e ferreo del suo potere trova la sola forma di governo
possibile, stabile e duraturo. Questo è il «modello Federico II»,
dentro e oltre la Grande Germania, incarnatosi in innumerevoli figure
di rivoluzionari e di
ultra-conservatori, metafora dell’inganno e del disincanto come
centro del far politica, o meglio dell’esercizio del potere.
Come ne parla
l’intellettuale Voltaire? Ne è deluso, certo. In una sua poesia
del 1741 scrive: «Ho visto fuggire i buoni propositi al primo
squillo di tromba. Essi non sono altro che re, si avviano a imprese
cruente, conquistano e devastano. L’ambizione li ha soggiogati».
Parla di un amico perduto, dice addio a un principe che non sa essere
altro che principe. Disprezza coloro che gli restano vicini per
adularlo, intellettuali servili e ridicoli.
Eppure nella Vita di
Federico II, l'atteggiamento è diverso. Voltaire non scrive un
pamphlet, non fa un’agiografia, neppure si diffonde
nell'autodifesa: non pretende certo che il lettore lo creda un
Candide! Voltaire si abbandona al piacere del racconto, al
gusto dell’intrigo e del contrappunto filosofico, in un resoconto
storico e privato ora circospetto, ora sornione, sempre spudorato e
trascinatore nei giudizi. Dunque: «visto da vicino», chi era
Federico II? Ecco la prima definizione: «Amava invece dei grandi i
begli uomini».
Impariamo a conoscere la
storia di un figlio di re «pieno di spirito, di grazia, di garbo e
di eleganza», oppresso da un padre tirannico che tentò più volte
di ucciderlo perché non gli succedesse, costretto ad assistere alla
spietata esecuzione del suo amico del cuore, minacciato egli stesso
di decapitazione...
L’amore per la
letteratura, gli scambi epistolari tra il giovane principe e Voltaire
nascono così, a parte dalla politica, in odio al padre. Poi, con il
raggiunto potere, sopravvivono come schizofrenia.
«Singolare modo di
governare» racconta Voltaire «unito a costumi più strani ancora;
contrasto di severità nella disciplina militare e di mollezza
all'interno della reggia; di paggi coi quali era lecito divertirsi
nell'intimità delle camere da letto, e di soldati che erano puniti
con trentasei colpi di bastone sotto le finestre del sovrano che li
stava a guardare; di discorsi morali smentiti da una licenza
sfrenata...».
Ma questa doppiezza
seduce. Chi è Federico II se non «una degna, straordinaria,
amabilissima puttana»? (Questo scriverà Voltaire a Maupertuis, che
non perderà l'occasione per recapitare immediatamente il biglietto
al re). Ma Voltaire non intende affatto essere malevolo. «La testa
cominciava a girarmi...» confessa. E quando il re dimentica per un
momento i bellissimi favoriti che lo circondano e prende la mano del
filosofo per baciarla, vinto da tanta «singolare tenerezza»
Voltaire si arrende: «Io gli baciai la sua e mi ridussi suo
schiavo».
Qualche avversario ha
inteso rimproverare Voltaire per la sua cortigianeria? Il filosofo
risponde narrandosi con totale franchezza e altrettanta ironia. Le
sue avventure alla corte di Federico, un po’ come amico e
confidente, un po’ come maestro di poesia, ora come consulente
politico ora come spia, sono sì l'autoritratto di un uomo molto
compromesso, ma mai di un burattino. Persino quando Voltaire si
presta a lavorare come agente segreto al servizio di sua maestà il
re di Francia, non dimentica mai le ragioni del proprio divertimento
e benessere.
La sua vita accanto a
Federico II trascorre tra scambi epistolari e «versi più brutti che
belli», futilità, disillusioni e mille vicendevoli trappole
spionistiche: Federico II gli fissa un appuntamento a Wesel? È pura
copertura. Ci va non tanto per incontrare un amico, quanto « in
vista di una certa occasione che si sarebbe potuta presentare»:
l’aggressione militare al vescovo-principe di Liegi.
Voltaire si reca alla
corte di Federico? Non è per l'irresistibile impulso a rivederlo, ma
per carpirne le intenzioni politiche e, appena soddisfatto, si
precipita ad andarsene.
La doppiezza inevitabile
dell'intellettuale, contro la doppiezza forse altrettanto inevitabile
del Potere. Contro, ma più spesso a fianco. È questo il nodo
filosofico? Ce n'è un altro e più profondo.
Scrive ancora Voltaire di
Federico: «Nessun uomo ha mai sentito più di lui la necessità
della ragione, pur obbedendo viceversa soltanto alle proprie
passioni». Ecco il tema centrale: non la delusione verso il
riformatore incompiuto, non la rivendicazione della superiorità
dell’intellettuale, qualcosa di più: l’esplorazione, la
documentazione minuta e divertita dell’influenza delle «passioni»,
anche infime, su grandi avvenimenti storici.
E un gran balletto di
dame, baffoni, spie, vescovi, uomini di lettere e di nessun genio, e
alla danza possono benissimo mischiarsi, quasi inattesi, l'affetto,
l’amicizia, la cultura, ma sotto il mestolo di una ragione politica
che poco ha di razionale, che è sempre inadeguata alle grandi
strategie e ai grandi progetti.
Su questo punto, anche il
suo avversario Rousseau è d’accordo: ci sono «molle primitive,
sempre nascoste, spesso assolutamente frivole» dietro i massimi
eventi. Non basta essere uomini di lettere, né primi ministri per
scriver di Storia. E sicuramente più credibile «un favorito rimasto
a lungo in carica e ritiratosi dalla corte, che occupi il suo ozio a
descrivere ciò che ha visto e i problemi del suo tempo».
Chissà che sotto le
spoglie di questo favorito di cui parla Rousseau, non si celi proprio
François Marie Arouet de Voltaire, amico e biografo di Federico II.
PANORAMA - 6 DICEMBRE
1987
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