Vladimir Nabokov |
Era il 6 dicembre del
1953 quando Vladimir Nabokov, all’epoca sconosciuto insegnante e
traduttore (già catalogatore di insetti al Museo di Zoologia
Comparata), finì il manoscritto di Lolita, introducendo di
colpo nell’uso comune le parole ‘lolita” e “ninfetta”,
un’etichetta sociologica e una categoria dello spirito.
I buoni risultati
ottenuti fin lì in Europa, quando scriveva in russo per gli emigrati
della Rivoluzione e in America coi libri scritti in inglese, erano
stati troppo modesti per dargli la stabilità economica, ma Lolita
cambiò il suo destino.
Tuttavia senza la moglie
(e braccio destro autoriale) Véra, il manoscritto sarebbe finito in
cenere, visto che lui, ogni tanto, cercava di bruciarlo in un bidone
zincato sistemato sul retro della loro casa in Seneca Street a
Ithaca. Perciò, malgrado il libro fosse quasi pronto dall’autunno
del 1948, dobbiamo posticipare la data di conclusione al 1953: nel
frattempo migliaia di dubbi e riscritture erano intercorsi in quella
costante ricerca d’equilibrio e arguzia che è l’opera di
Nabokov.
Così, anche grazie alla
prontezza e al lavoro della signora Nabokov, abbiamo questo
capolavoro, la cui salvezza, come ricorda Stacy Schiff in Véra.
Mrs Vladimir Nabokov, «nel contesto e nel clima in cui Nabokov
scriveva all’inizio degli anni Cinquanta, è la testimonianza
dell’abilità di Véra - come di suo marito - a tenere il torvo
senso comune fuori dalla porta e sparargli in fronte quando si
avvicinava».
In realtà lei temeva che
il fantasma dell’opera incompiuta e dissolta finisse con
l’ossessionarlo e pregiudicarne l’arte, la cosa più importante
per lei. È appunto l’arte il perno della vita dei Nabokov, anche
se paradossalmente l’enorme successo di Lolita nacque
dall’aura di oscenità dovuta all’incomprensione della sua
genialità artistica. Certo non aiutò l’uscita con l’Olympia
Press - nota casa editrice erotica parigina con un catalogo a dir
poco fantastico - ma la frettolosità dei critici che lo stroncarono
merita tutt’ora un posto d’onore nel medagliere dell’ottusità.
Solo Graham Greene fu abbastanza veloce e intelligente da indicarlo
subito come libro grandissimo spianandogli la strada.
Ma il problema dell’arte
in Nabokov non finisce con l’equivoco su un singolo testo.
Lila Azam Zanganeh, in Un
incantevole sogno di felicità, spiega come in lui «natura e
arte posseggono la stessa misura umana di beatitudine. E dietro tale
beatitudine si cela l’intuizione che i disegni straordinari
dell’arte e della natura riflettono altre, più remote e
insondabili armonie». Ecco il nocciolo di questo sfuggente genio:
l’armonia felice, spesso invocata con storie anamorfiche in cui il
potenziale della letteratura, cioè l’impossibilità di far vedere,
diventa l’arma segreta della narrazione.
Nabokov, infatti, era un
geniale prestigiatore della parola e del racconto, capace di
distogliere l’attenzione del pubblico dai suoi trucchi attraverso
eleganti manipolazioni dello spazio narrativo: una costante della sua
opera come della sua vita.
Come dice Stefano
Bartezzaghi in un capitolo di Scrittori giocatori, Vladimir
era un appassionato e brillante enigmista e i suoi libri sono pieni
di anagrammi, frasi bisenso e rebus, «come già Dorian Vivalcomb
anche Vivian Calmbrood era un anagramma autobiografico ed era
uno scherzo». In proposito ci sarebbero anche un Vivian Bloodmark
e un mr. Vivian Badlook. Perfino il titolo Ada, or Ardor
è un anagramma. La ragione di questi giochi, di questi piccoli
inganni e scherzi, è semplice: l’armonia, per essere felice, deve
giocare. La poesia sta proprio nel gioco fra arte e natura, che
altrimenti non si incontrerebbero. E per questi giochi vanno bene
anche le occasioni pubbliche: rispondere di aver appreso l’inglese
sul dizionario Webster, cos’è per un poliglotta così raffinato ed
esperto traduttore se non un gioco?
[...]
In Buoni lettori e
buoni scrittori, primo capitolo delle sue Lezioni di
letteratura (a cui seguiranno Lezioni di letteratura russa
e Lezioni sul Don Chisciotte), Nabokov dice molto chiaramente
che «quando si legge, bisogna cogliere e accarezzare i particolari»,
«non è possibile leggere un libro, si può soltanto rileggerlo»,
ma sempre tenendo conto che è una fiaba, un’invenzione, perché
«ogni grande scrittore è un imbroglione, malo è anche quella
superimbrogliona che è la Natura. La Natura imbroglia sempre. [...]
Lo scrittore di storie inventate non fa che seguire la guida della
Natura. [...] Un grande scrittore associa in sé queste tre qualità:
affabulatore, insegnante e incantatore; ma è l’incantatore che
predomina in lui e ne fa un grande scrittore». Attraverso queste
finzioni si dà l’arte, cioè «una fusione tra la precisione della
poesia e l’intuizione della scienza. Per godere di quella magia un
lettore accorto legge il libro di un genio non con il cuore, e
neanche tanto con il cervello, ma con la spina dorsale».
E da questi imbrogli che
affiora l’incanto, il gioco di prestigio, la Natura che incontra
l’Arte in una fiaba, cioè in un grande romanzo.
Lo stesso principio vale
nella vita di Nabokov, che si divertiva a leggere le risposte da un
foglio per far credere agli intervistatori di non conoscere molto
bene l’inglese: più che in un’opera d’arte, aveva trasformato
la sua vita una felicissima fiaba.
“pagina 99 we” n.
75-76 3 gennaio 2015
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