Vestali - Roma, Museo della civiltà romana |
Chi va in giro per Roma
calpesta un suolo dove su ogni metro quadrato sorgeva un abitato, un
edificio sacro o amministrativo, un mercato, una palestra, un
carcere, un tribunale. Da questa terra, a saperli percepire,
affiorano echi indistinti di credenze, di miti, di leggende.
Sulla terrazza del
Gianicolo si narra che Giano, padre del Tevere, avesse fondato una
città fortificata. Il nome di questo remotissimo progenitore, un
altro che fa concorrenza a Romolo oltre a Enea, evoca un duplice
significato, quello di Dies, il vedico Diauh, il Sole
al suo apparire, a cui corrisponde Diana, la Luna; e quello di
janua, la porta, janus, l'arco (il vano). Come tale, a
Giano era sacro il mese che apre l'anno, januarius, il
gennaio. Vigilava sui passaggi; ma dato che tutte le porte servono
per entrare e per uscire, Giano era detto Gemino o Bifronte o anche,
poiché i punti cardinali sono quattro, quadrifronte. Il suo tempio
era aperto in tempo di guerra, per consentire al dio di accorrere in
aiuto dei combattenti romani in caso di pericolo; si chiudeva solo in
tempo di pace. La porta del tempio infatti è chiusa sulle monete di
Augusto, il quale fra le sue benemerenze vantava quella d' aver
procurato a Roma un lungo periodo di pace.
Altre zone della città
portano il nome di divinità che furono sconsacrate dalla Chiesa ma
che sono rimaste confusamente presenti nella memoria o nella
superstizione popolare. Il Campo Marzio, in quanto area destinata
alle esercitazioni militari, ricorda l'aspetto più noto del dio
Marte, quello di patrono dei combattenti; ma prima della guerra, alla
quale si riferiscono le cerimonie che si celebravano in suo onore (e
riguardavano i cavalli, le trombe, le lance e gli scudi), Marte era
il dio dei campi e della fecondità. Il mese a lui sacro marzo
era la stagione in cui avevano inizio sia i lavori agricoli sia le
operazioni belliche. La seconda delle tre figure divine nelle quali,
secondo Georges Dumézil, si riflettono le tre funzioni fondamentali
della società guerra, agricoltura e giustizia è quella di Quirino.
Il suo tempio, fondato nel 293 a.C., sorgeva sul colle che ne porta
il nome, il Quirinale. Quel dio rappresentava la popolazione civile
produttiva agricola e artigianale, i Quiriti, mentre il governo,
autoritario, garante dell'ordine e della legge, si riflette nella
figura di Giove, Jupiter (Diuspater), luminosa divinità
del cielo. Da lui dipendono le stagioni e le folgori, le stelle e la
pioggia: egli impone il rispetto della parola data ed è al di sopra
di tutti gli altri dèi; i vari aggettivi che accompagnano il suo
nome ricordano i numerosi episodi della sua attività benefica e la
molteplicità delle sue mansioni.
Dal nome di Venere, dea
di origini oscure, patrona dell'amore e della fecondità, derivano
termini contraddittori come venia (indulgenza, grazia) e
venerari (mostrare venerazione) ma anche venenum, il
veleno: e ancora non si conosceva l'Aids. A questa immagine erotica
si contrappone la vergine Vesta austeramente velata, custode del
fuoco che ardeva perenne nel focolare della comunità ed era il
simbolo dell'eternità di Roma. Alle Vestali, scelte a sette anni da
famiglie patrizie, era d'obbligo la castità fino a quarant'anni, la
vigilanza sul fuoco, la preparazione della mola salsa, un
impasto di farro e di sale che si cospargeva sulla testa delle
vittime condotte al sacrificio (donde il termine immolare).
Le Vestali in origine
erano due, poi tre, poi salirono a sette; adempivano a vari doveri
civici, vegliavano sul Palladio, pregavano per la salute pubblica,
custodivano testamenti e documenti importanti. La loro funzione di
difesa della stabilità di Roma era valida fino a che non venivano
meno al voto di castità; se questo «sconcio» si verificava,
risultava contaminata l’immagine ideale di donna ligia al dovere
che la Vestale rappresentava, e la colpevole di «incestum»
era punita con la morte. Ma poiché non si può toccare una vergine
col ferro la sventurata veniva condotta in lettiga chiusa nel campus
sceleratum dove era sepolta viva; le si lasciava pane e acqua per
sopravvivere ventiquattro ore; il seduttore veniva giustiziato a
nerbate.
Condanne simili furono
emesse per lo più in momenti di isterismo religioso e di grave
turbamento psichico per la paura di nemici incombenti, come durante
la III guerra punica o quella di Giugurta, la calata dei Cimbri e
Teutoni. Il caso si ripetè ancora sotto Domiziano nel I secolo e
forse per l’ultima volta nel III, sotto Caracalla. Tutta la
comunità si sente violata nella vergine: le pene inflitte dalla
Chiesa alle monache sedotte e ai loro amanti furono altrettanto
efferate.
Dèi ed esseri umani la
cui storia sconfina nella leggenda — gli eroi di Livio e di
Virgilio — sono presentati in brevi e ingenue sceneggiate in un
volume a intento esplicitamente divulgativo di Rosa Agizza, Miti e
leggende nell’antica Roma (Newton Compton). I personaggi sono
presentati come attori sulla scena e recitano le loro vicende in modo
vivace, ma, ahimè, in pessimo italiano: la piccola Emilia è eletta
Vestale, ma la fierezza dei suoi per l’onore di quella scelta
«tanto stridore faceva con la sua ingenua pena». Nel ricordare,
anni dopo, la condanna a morte d’una compagna, la stessa Emilia
rabbrividiva «al rimbombante ricordo delle sue grida».
Mercurio, dio delle merci, accompagna negli Inferi le ombre;
affascinato da una fanciulla che Giove gli ha affidato, ne ammira «la
delicatezza dei magnifici lineamenti impreziositi da ieratica
rassegnazione». La dea Feronia era «d'una bellezza
straordinaria la cui dimensione superlativa non veniva ridimensionata
dalla benché minima ombra di corruzione interiore» (vale a
dire, non usava trucco). «Esculapio rivela essere l'esempio
eclatante dell’affermazione a Roma della moda greca». E altre
gemme come queste.
A prescindere dall’uso
sorprendente della lingua, l’autrice ha raccolto notizie utili
anche per il grosso pubblico. Da questo libro si desume infatti che
quelle figure arcaiche sono presenti anche in chi non le conosce;
d’un farmaco miracoloso si dice che è «una panacea», ma pochi
sanno che questo era il nome della figlia di Esculapio; non c’è
chi non usi espressioni come aspetto marziale, forza erculea,
bellezza giunonica, calma olimpica, sostanza afrodisiaca, Giove
Pluvio e così via: sono vene d’acqua viva, scaturite dalle falde
della cultura classica, infiltrate nelle coscienze; sono schegge del
mondo antico inserite nella compagine del nostro.
“la Repubblica”, 28
marzo 1987
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