18.8.15

Fieramosca, un cavaliere per l'Italia (Giovanni Tesio)

Gino Cervi veste i panni del protagonista nel film "Ettore Fieramosca"
I libri, gli spartiti, la tavolozza, il violoncello. Una caricatura del Fischietto rappresenta Massimo d’Azeglio che sale le scale del Ministero carico come un somaro e la didascalia suggerisce maliziosa: «Con la conoscenza di tanti mestieri, se non sarà Massimo in tutto, qualche cosa farà!!!».
Come dubitarne? Pittore non della domenica, scrittore di romanzi storici (l'Ettore Fieramosca,1833; il Niccolò de’ Lapi, 1841, un terzo sulla Lega Lombarda, incompiuto), pubblicista e autore di opuscoli e pamphlet che fecero rumore come Gli ultimi casi di Romagna (1846) o I lutti di Lombardia (1848), memorialista di razza con I miei ricordi (fermi al ‘46 e pubblicati postumi nel ‘67), uomo di Stato e galantuomo per universale ammissione, «Barba Massimo omnibus» (per rispetto e riverenza) è certo una delle figure di spicco del nostro Risorgimento.
Se non fu un politico di pura razza (e tuttavia, il «ciula» di Cavour è giudizio ingrato), fu politico per necessità. La sua figura non cede nemmeno al controcanto della cognata Costanza, moglie del fratello Roberto, che in una lettera al figlio Emanuele scritta nel dicembre del ‘48 giudica senza acrimonia: non sarà mai capace di fare se non ciò che lo diverte. Quanto alla conferma, non resta che l’imbarazzo della scelta, come mostra l’Epistolario che dall’officina egregiamente puntuale di Georges Virlogeux esce presso il Centro Studi Piemontesi- Ca de Studi Piemontèis (di questi giorni il settimo volume, che comprende il ‘51 e il ‘52, due anni critici per le responsabilità ministeriali).
Non a caso, quando viene votato per la prima volta alla Camera dagli elettori del collegio di Strambino, il neo-eletto si piega ad accettare il mandato, ma un po’ imputa la sua inettitudine parlamentare agli intrighi dei mestatori («Povera Italia! Che stracci, che stracci!»), un po’ chiama in causa il proprio carattere («Io sono il polo opposto del tipo impiegato, e per me la legatura di lavoro fisso, a ora fissa, in luogo fisso, è un impossibile»), facendo infine appello alle solide barriere antiretoriche della serietà così tipicamente piemontese.
Suo è uno dei detti più memorabili su cui il nostro infinito Risorgimento ha ancora bisogno di contare: «Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani». In questa strettissima formula la massima non fu mai pronunciata (nei Miei ricordi ci si va molto vicini), ma la sostanza resta, perché l’ex primo ministro di Vittorio Emanuele II sapeva benissimo - per aver donato alla causa il suo contributo di sangue sul Monte Berico nella prima delle tre guerre per l’Indipendenza - che l’Italia era nata di parto podalico e che avrebbe avuto il suo da fare ad amalgamare le più stridenti diversità.
Il contributo forse più congeniale l’Azeglio tuttavia lo ha dato con l’opera letteraria, e soprattutto con l'Ettore Fieramosca, un libro di culto (al suo apparire una vera e propria «apoteosi»), che torna ora nell’edizione per la Bur approntata con la solita competenza da Guido Davico Bonino. Pur avendo goduto a suo tempo dell’apprezzamento del Manzoni, si tratta di un romanzo abbastanza occasionale, pieno di incongruenze e sproporzioni, che del resto lo stesso autore non ha esitato ad ammettere con franchezza.
Pencolante tra storia e feuilleton, tra il puntiglio di un amore grifagno e la più confusa ragion di Stato, la trama si consuma intorno a una giostra passata alle cronache del ‘500 come la «disfida di Barletta» a suo tempo combattuta da cavalieri francesi e dal «fiore della gioventù italiana». Un episodio trascurabile che sullo sfondo delle «guerre d’Italia» viene piegato a fare da pretesto per ben remote fierezze nazionali.
Da un lato c’è un Cesare Borgia immerso nelle trame d’un tenebrore d’accatto che passa attraverso le storie trafficate di un nerissimo dissimulatore e di un efferato «masnadiere». Dall’altro lato c’è una donna, Ginevra di Monreale (sposa del «traditore» Grajano d'Asti) cui Ettore Fieramosca presta tutta la sua devozione di cavaliere intemerato. Ciò significa che da un lato corre il troncone più propriamente sentimentale e dall’altro quello ideologico.
Tra l’uno e l’altro, tra il candore non più virginale di una futuribile donna d’Italia e le voglie crudeli del Valentino, tutta un’epopea di veleni, morti apparenti, travestimenti, trafugamenti, scambi di persona, equivoci, tranelli, sotterranei, prigioni, feste, tornei, chiese, monasteri, marine, chiari di luna e persino un’innamorata serva saracina sapiente in pozioni miracolose.
Un vero e proprio garbuglio, che trova appunto la sua quadra nel motivo politico-culturale dell’identità nazionale. Nella saldatura un po’ dilettantesca delle parti, un romanzo di successo che restò a lungo nelle letture delle patrie lettere. Ce n’è quanto basta per conferire romanzescamente al personaggio del Fieramosca ogni più alta e perfetta investitura: l'eroe eponimo, romantico e randagio che va incontro alla sua fine oscura e favolosa dietro la fine della donna che ha amato con onestà e purezza di cuore.

Non importa dire qui l’equivoco che fece di Grajano un fellone astigiano piuttosto che - com’è stato dimostrato - un combattente francese. Ciò che importa è che la storia ruoti intorno al suo tradimento come una taccia da risarcire. In tempi - come quelli d’oggi - in cui tornano aggressivamente ad affacciarsi troppe identità regionali, anche il romanzo d’esordio dell’Azeglio - quasi a dispetto della sua lontananza - torna per suggerire una sua impensabile attualità.

Tuttolibri La Stampa, 14 maggio 2011

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