Gino Cervi veste i panni del protagonista nel film "Ettore Fieramosca" |
I libri, gli spartiti, la
tavolozza, il violoncello. Una caricatura del Fischietto rappresenta
Massimo d’Azeglio che sale le scale del Ministero carico come un
somaro e la didascalia suggerisce maliziosa: «Con la conoscenza di
tanti mestieri, se non sarà Massimo in tutto, qualche cosa farà!!!».
Come dubitarne? Pittore
non della domenica, scrittore di romanzi storici (l'Ettore
Fieramosca,1833; il Niccolò de’ Lapi, 1841, un terzo
sulla Lega Lombarda, incompiuto), pubblicista e autore di opuscoli e
pamphlet che fecero rumore come Gli ultimi casi di Romagna
(1846) o I lutti di Lombardia (1848), memorialista di razza
con I miei ricordi (fermi al ‘46 e pubblicati postumi nel
‘67), uomo di Stato e galantuomo per universale ammissione, «Barba
Massimo omnibus» (per rispetto e riverenza) è certo una delle
figure di spicco del nostro Risorgimento.
Se non fu un politico di
pura razza (e tuttavia, il «ciula» di Cavour è giudizio ingrato),
fu politico per necessità. La sua figura non cede nemmeno al
controcanto della cognata Costanza, moglie del fratello Roberto, che
in una lettera al figlio Emanuele scritta nel dicembre del ‘48
giudica senza acrimonia: non sarà mai capace di fare se non ciò che
lo diverte. Quanto alla conferma, non resta che l’imbarazzo della
scelta, come mostra l’Epistolario che dall’officina
egregiamente puntuale di Georges Virlogeux esce presso il Centro
Studi Piemontesi- Ca de Studi Piemontèis (di questi giorni il
settimo volume, che comprende il ‘51 e il ‘52, due anni critici
per le responsabilità ministeriali).
Non a caso, quando viene
votato per la prima volta alla Camera dagli elettori del collegio di
Strambino, il neo-eletto si piega ad accettare il mandato, ma un po’
imputa la sua inettitudine parlamentare agli intrighi dei mestatori
(«Povera Italia! Che stracci, che stracci!»), un po’ chiama in
causa il proprio carattere («Io sono il polo opposto del tipo
impiegato, e per me la legatura di lavoro fisso, a ora fissa, in
luogo fisso, è un impossibile»), facendo infine appello alle solide
barriere antiretoriche della serietà così tipicamente piemontese.
Suo è uno dei detti più
memorabili su cui il nostro infinito Risorgimento ha ancora bisogno
di contare: «Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani». In
questa strettissima formula la massima non fu mai pronunciata (nei
Miei ricordi ci si va molto vicini), ma la sostanza resta,
perché l’ex primo ministro di Vittorio Emanuele II sapeva
benissimo - per aver donato alla causa il suo contributo di sangue
sul Monte Berico nella prima delle tre guerre per l’Indipendenza -
che l’Italia era nata di parto podalico e che avrebbe avuto il suo
da fare ad amalgamare le più stridenti diversità.
Il contributo forse più
congeniale l’Azeglio tuttavia lo ha dato con l’opera letteraria,
e soprattutto con l'Ettore Fieramosca, un libro di culto (al suo
apparire una vera e propria «apoteosi»), che torna ora
nell’edizione per la Bur approntata con la solita competenza da
Guido Davico Bonino. Pur avendo goduto a suo tempo dell’apprezzamento
del Manzoni, si tratta di un romanzo abbastanza occasionale, pieno di
incongruenze e sproporzioni, che del resto lo stesso autore non ha
esitato ad ammettere con franchezza.
Pencolante tra storia e
feuilleton, tra il puntiglio di un amore grifagno e la più confusa
ragion di Stato, la trama si consuma intorno a una giostra passata
alle cronache del ‘500 come la «disfida di Barletta» a suo tempo
combattuta da cavalieri francesi e dal «fiore della gioventù
italiana». Un episodio trascurabile che sullo sfondo delle «guerre
d’Italia» viene piegato a fare da pretesto per ben remote fierezze
nazionali.
Da un lato c’è un
Cesare Borgia immerso nelle trame d’un tenebrore d’accatto che
passa attraverso le storie trafficate di un nerissimo dissimulatore e
di un efferato «masnadiere». Dall’altro lato c’è una donna,
Ginevra di Monreale (sposa del «traditore» Grajano d'Asti) cui
Ettore Fieramosca presta tutta la sua devozione di cavaliere
intemerato. Ciò significa che da un lato corre il troncone più
propriamente sentimentale e dall’altro quello ideologico.
Tra l’uno e l’altro,
tra il candore non più virginale di una futuribile donna d’Italia
e le voglie crudeli del Valentino, tutta un’epopea di veleni, morti
apparenti, travestimenti, trafugamenti, scambi di persona, equivoci,
tranelli, sotterranei, prigioni, feste, tornei, chiese, monasteri,
marine, chiari di luna e persino un’innamorata serva saracina
sapiente in pozioni miracolose.
Un vero e proprio
garbuglio, che trova appunto la sua quadra nel motivo
politico-culturale dell’identità nazionale. Nella saldatura un po’
dilettantesca delle parti, un romanzo di successo che restò a lungo
nelle letture delle patrie lettere. Ce n’è quanto basta per
conferire romanzescamente al personaggio del Fieramosca ogni più
alta e perfetta investitura: l'eroe eponimo, romantico e randagio che
va incontro alla sua fine oscura e favolosa dietro la fine della
donna che ha amato con onestà e purezza di cuore.
Non importa dire qui
l’equivoco che fece di Grajano un fellone astigiano piuttosto che -
com’è stato dimostrato - un combattente francese. Ciò che importa
è che la storia ruoti intorno al suo tradimento come una taccia da
risarcire. In tempi - come quelli d’oggi - in cui tornano
aggressivamente ad affacciarsi troppe identità regionali, anche il
romanzo d’esordio dell’Azeglio - quasi a dispetto della sua
lontananza - torna per suggerire una sua impensabile attualità.
Tuttolibri La Stampa, 14 maggio 2011
Nessun commento:
Posta un commento