12.8.15

Le due virgole del Tao. La Cina di Victor Segalen (Francesco M. Petrone)

Victor Segalen, medico della Marina Coloniale francese e letterato finissimo, di cui c'è già traccia in questo blog ( http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2013/04/segalen-gauguin-e-rimbaud-di-esotismo.html ), nel suo sconvolgente incontro con la Cina agli inizi del Novecento tenta di unificare il passato di leggenda dell'“Impero di Mezzo” con le scosse che sta già provocando il terremoto della storia in una serie di scritti che vanno dal diaristico al romanzesco, passando per il saggistico. Questo tentativo è al centro del saggio di Francesco Maria Petrone, che qui ripropongo in gran parte con un titolo diverso, tratto da una bella rivista che Rosellina Archinto, la mamma di Desideria, pubblicava e dirigeva tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo trascorso. (S.L.L.)
L'Impero cinese è stato un oggetto di curiosità e di fantasia per l’Europa, un’isola di Citera dove rigenerare la cultura occidentale in uno squisito bagno sensuale. E, come nell’imbarco dipinto da Watteau, il festoso eccitamento dei viaggiatori si offusca nella titubanza per l’arcano della meta.
Centinaia di Relazioni della Cina, da Marco Polo in poi, hanno costruito infatti un labirinto di parole dove è facile perdersi. Il vertiginoso repertorio di immagini confonde il lettore che vuole comprendere al di là del trucco esotico.
“La Cina è veramente l’Imperio de’ letterati”, riconosce nel Seicento Daniello Bartoli, sinologo sedentario che riscrive la sua Cina, con una grande prosa barocca, attraverso le carte dei viaggiatori. L’artificio letterario, l’inganno ottico, consiste nel fare coincidere il paese reale con le suggestioni dei suoi visitatori. La distanza smisurata del luogo e la diversità radicale dell’impero orientale garantiscono l’effetto.
L’altra metà del mondo si trasforma in un Impero dei sogni, in un contraltare della Ragione. Sulla scena onirica le immagini della civiltà virtuosa, tanto decantata nel Sei e Settecento, subiscono una metamorfosi il secolo successivo, a causa dell’affare dell’oppio, e appare al loro posto un luogo di perdizione, ma l’incanto resta, le attrazioni si intensificano. La Cina, come un’immensa fumeria, è la droga dell’Occidente, l’ebbrezza tortuosa e smisurata. Per secoli l’hanno raccontata come un giardino di delizie dove si coltivano le buone maniere, i rituali, le cortesie, il “linguaggio dei sentimenti”, la tolleranza, ma all’alba del Novecento esplode la violenza dei Boxers che reagiscono all’assedio occidentale. I sogni degli europei si fanno più inquieti, il giardino cinese è frequentato da personaggi che agiscono nell’ombra.
Quando nel 1909 Victor Segalen, un medico bretone trentunenne, poeta ed esploratore, arriva in Cina per la prima volta, fa appena in tempo ad ammirare l’agonia impalpabile dell’Impero. La Città proibita contiene ormai “solo un gran vuoto, non una maestà”. L’antico centro del mondo nasconde, dentro la sua segretezza, il nulla.
Testimone privilegiato di questo trapasso, Segalen cerca appigli interpretativi nella cultura sinologica appresa a Parigi all’École des langues orientales, ma l’erudizione occidentale resta esitante su quello che realmente accade dietro le cortine della Città proibita. La logica aristotelica è messa a dura prova. Le verità ufficiali e quelle bisbigliate nel quartiere delle Legazioni straniere non spiegano a fondo la liturgia melanconica con cui l’Impero si inabissa. Per un europeo colto e lucido, anche nel centro di Pechino, resta la diffidenza verso le epifanie cinesi. René Leys o il mistero del palazzo imperiale — come è intitolato nella traduzione italiana — è il romanzo di questo dubbio: si può prestare fede a coloro che raccontano l’indicibile? Si può credere a chi racconta di aver varcato le mura della Città proibita? Dietro la cortina sacra c’è un parallelo mondo profano, come racconta l’ambiguo René Leys, o è tutta un’impostura di un falso iniziato che vuole screditare i figli del Cielo?
Il mistero non si svela, le domande che Segalen fa in prima persona a René Leys restano inevase. Aveva chiesto tra l’altro: “Una manciù può o non può essere amata da un europeo (che sarei io)? E può da parte sua circondare questo europeo di quei gesti abituali cui apponiamo per tradizione l’etichetta ‘amore’ solo a causa della povertà della nostra lingua che tutti consideriamo ricca?”
Era un interrogarsi molto acuto sulle differenze che le nostre parole pietosamente coprono. La lingua, dunque, il velo che custodisce una cultura nella intraducibilità, qui si ispessiva ulteriormente e nella sua scrittura, che tradisce la fonetica, si tramutava in una grande muraglia aerea di fronte alla quale agli studiosi occidentali era lecito, ancora una volta, fantasticare irresoluti. Tuttavia, da Leibniz a Pound, gli ideogrammi sono una promessa di redenzione per la scrittura occidentale. I segni cinesi permettono di introdurre elementi nuovi nell’alchimia verbale realizzata da Rimbaud, maestro dei nomadi di quegli anni.
Segalen fa parte della sua confraternita, porta con sé nei pellegrinaggi Une saison en enfer (assieme a Les Fleurs du mal), compone prose pure e pratica, a parte, compromessi mercantili. Prima di andare in Cina è stato a Tahiti e lì ha raccolto le reliquie di Gauguin. Nulla a che vedere con i propagandisti dell’esotismo alla Pierre Loti e con gli attivisti dell’immaginario coloniale. Non è insomma un venditore di immagini cinesi, né un poeta inventore di figure simboliste, ma — è stato detto di lui — un decifratore delle iscrizioni delle stele, un interprete che srotola le sete dipinte, un viaggiatore devoto per cui l’etica riscatta l’esotico. Perciò resta fedele al suo dubbio con il quale conclude la storia di René Leys, scritta dopo che la Rivoluzione ha deposto in una notte l’imperatore e distrutto per sempre il legame tra Cielo e Terra.
Nelle lettere indirizzate alla moglie dalla Cina ritorna quella diffidenza verso le immagini abusate del paese che sta studiando:“La Cina è il paese dei malintesi e delle notizie false”. Oppure:“Ancora una volta, osservare la massima di non accettare nulla sulla Cina, se non si è in grado di verificare di persona. Se non lo si può fare, ebbene, né credere né non credere, riservandosi un atteggiamento misto”.
Allora, se la realtà cinese finisce per diventare, nelle parole degli occidentali, un’invenzione letteraria, che questa invenzione — si propone Segalen — abbia la solennità di un viaggio veramente ai confini di tutto. Equipée (“Scorribanda”), è la sua temeraria operetta che ci restituisce l’idea del viaggio agli antipodi. Sembra scritta con il pennello, alla maniera cinese, rompendo la nostra orizzontalità e producendo così un rovesciamento dell’universo. L’inchiostro di China — come è chiamato secondo l’antica grafia che risale ai primi esploratori portoghesi che la derivarono dalla dinastia Ch’in — è il liquido nobile, odoroso di canfora, che può fare comparire sontuosamente l’indicibile diversità. Le gocce d’inchiostro di Segalen animano la moribonda pagina bianca occidentale e vi fanno rifulgere talvolta lo splendore soffuso della giada: “i miei desideri incorporati nella materia preziosa”.
Il diario di bordo di un viaggio fantastico, del viaggio letterario nella Cina ideogrammata, ha la precisione scrupolosa dei resoconti. “Non dimenticare — aveva scritto un’altra volta alla moglie — che in alta matematica si chiamano immaginari quei numeri a un tempo di una realtà e di una precisione affascinanti.”
Alla prima tappa di questa Scorribanda si assiste all’incenerimento delle vecchie carte: “Ho sempre considerato sospetti o illusori racconti di questo genere: racconti d’avventure, fogli di viaggio, chiacchiere — paffute di parole sincere — di atti che si affermava di aver compiuto in luoghi ben determinati, in giorni elencati. È tuttavia un racconto di tal genere, racconto di viaggi, e d’avventure, che il presente libro propone nelle sue pagine misurate, disposte testa a testa come delle tappe. Ma che si sappia: il viaggio non è ancora compiuto. Non c’è la partenza. Tutto è immobile e sospeso. Si può chiudere a volontà questo libro e liberarsi di quel che segue. Che non si creda affatto di liberarsi, con lo stesso gesto, da questo problema [...] che si impone così: l’immaginario si indebolisce o si rinforza quando si confronta con il reale?”.
Adesso i suoi antichi dubbi, maturati in Cina “costeggiando migliaia di anni morti”, non li pone più a René Leys, ma alla scrittura stessa, alla sua scrittura “cinese”. Alla terza tappa lo troviamo abitare “una camera di porcellana, un palazzo massiccio e brillante dove l’immaginario si sente a proprio agio”. Ma i dubbi penetrano anche nelle pareti di porcellana, il reale si insinua: “se il Reale avesse anche il suo valore verbale e il suo aroma?” “Dov’è il legame, dov’è il luogo di certezza — o d’angoscia — del reale?”
Dov’è la Cina di Segalen? Il sistema di misurazione occidentale non aiuta in questi vasti spazi, “l’assenza di una comune misura umana è fonte di turbamento”, la mappa è intricata da un gioco di specchi con l’Occidente. Nel massimo dello straniamento si entra nel viaggio, lo spazio da attraversare è quello doppio della Cina, dove il reale e l’immaginario procedono come le due virgole del Tao, l’una bianca e l’altra nera, uguali e simmetriche. Qui avviene di “contrapporre la Parola e la Cosa, per la ragione che la parola cinese è un segno, completo in se stesso, esistente, realizzante, differente da ciò che dice, e già assai superiore a quel che si degna di significare”. Attraverso i paradossi cinesi Segalen arriva così al cuore dei problemi occidentali. La sua soluzione meta-letteraria e le sue ossessioni del doppio avranno un lungo seguito per tutto il secolo, anche se non saranno sempre così delicate.
L’Equipée, che si può tradurre anche “impresa folle e disperata”, pretendeva di reintegrare l’immaginario al reale. Non parlava soltanto la voce interiore degli itinerari ascetici, ma le parole riuscivano a offrire i luoghi materiali dell’Impero terreno. “Ci si sente in un altro mondo”, diceva Rémy de Gourmont dei libri di Segalen. Le parole, purificate dalle troppe scorie del pittoresco, potevano raccontare finalmente di una Cina regno utopico dell’armonia tra il mondo fisico e quello spirituale. E Segalen, archeologo delle pietre millenarie ed ermeneuta delle scritte funerarie, riunificava la Cina del passato leggendario con quella contemporanea, scossa dal terremoto della storia. Il luogo delle sue parole mostrava i segni profondi dello scontro temporale con l’eternità, ma senza drammi, con la leggerezza vaporosa della danza.
Al termine del viaggio dalle movenze mistiche non c’è la folgorazione divina (“dov’è il divino? Ho trovato degli uomini...”), bensì “un acquisto imperituro: una conquista del piacere del Diverso”, un piacere che si coglie sul sottofondo della musica “intima e ironica” che accompagna “i due mondi deliberatamente contrapposti”. La geografia di Segalen sconfina nella musica, nel suono sospeso del gong che sintetizza un esaltante sentimento di sorpresa.

Bibliografia
Lettres de Chine, Plon, 1967
René Leys o il mistero del palazzo imperiale, trad. di Clara Lusignoli, Einaudi, 1973
Scorribanda, trad. di Franco Montesanti, Il Melograno, 1980
Le parole perdute, trad. di Cristina Brambilla, Jaca Book, 1982
Peintures, Gallimard, 1983
Les Immémoriaux, Seuil, 1983
Saggio sull’esotismo (un’estetica del diverso) seguito da Saggio sul misterioso, trad, di Franco Marconi, Il Cavaliere Azzurro, 1983


da “leggere” n.6 Novembre 1988

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