Victor Segalen, medico della Marina Coloniale francese e letterato
finissimo, di cui c'è già traccia in questo blog (
http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2013/04/segalen-gauguin-e-rimbaud-di-esotismo.html
), nel suo sconvolgente incontro con la Cina agli inizi del Novecento
tenta di unificare il passato di leggenda dell'“Impero di Mezzo”
con le scosse che sta già provocando il terremoto della storia in
una serie di scritti che vanno dal diaristico al romanzesco, passando
per il saggistico. Questo tentativo è al centro del saggio di
Francesco Maria Petrone, che qui ripropongo in gran parte con un
titolo diverso, tratto da una bella rivista che Rosellina Archinto,
la mamma di Desideria, pubblicava e dirigeva tra gli anni Ottanta e
Novanta del secolo trascorso. (S.L.L.)
L'Impero cinese è stato un oggetto di curiosità e di fantasia per
l’Europa, un’isola di Citera dove rigenerare la cultura
occidentale in uno squisito bagno sensuale. E, come nell’imbarco
dipinto da Watteau, il festoso eccitamento dei viaggiatori si offusca
nella titubanza per l’arcano della meta.
Centinaia di Relazioni della Cina, da Marco Polo in poi, hanno
costruito infatti un labirinto di parole dove è facile perdersi. Il
vertiginoso repertorio di immagini confonde il lettore che vuole
comprendere al di là del trucco esotico.
“La Cina è veramente l’Imperio de’ letterati”, riconosce nel
Seicento Daniello Bartoli, sinologo sedentario che riscrive la sua
Cina, con una grande prosa barocca, attraverso le carte dei
viaggiatori. L’artificio letterario, l’inganno ottico, consiste
nel fare coincidere il paese reale con le suggestioni dei suoi
visitatori. La distanza smisurata del luogo e la diversità radicale
dell’impero orientale garantiscono l’effetto.
L’altra metà del mondo si trasforma in un Impero dei sogni, in un
contraltare della Ragione. Sulla scena onirica le immagini della
civiltà virtuosa, tanto decantata nel Sei e Settecento, subiscono
una metamorfosi il secolo successivo, a causa dell’affare
dell’oppio, e appare al loro posto un luogo di perdizione, ma
l’incanto resta, le attrazioni si intensificano. La Cina, come
un’immensa fumeria, è la droga dell’Occidente, l’ebbrezza
tortuosa e smisurata. Per secoli l’hanno raccontata come un
giardino di delizie dove si coltivano le buone maniere, i rituali, le
cortesie, il “linguaggio dei sentimenti”, la tolleranza, ma
all’alba del Novecento esplode la violenza dei Boxers che
reagiscono all’assedio occidentale. I sogni degli europei si fanno
più inquieti, il giardino cinese è frequentato da personaggi che
agiscono nell’ombra.
Quando nel 1909 Victor Segalen, un medico bretone trentunenne, poeta
ed esploratore, arriva in Cina per la prima volta, fa appena in tempo
ad ammirare l’agonia impalpabile dell’Impero. La Città proibita
contiene ormai “solo un gran vuoto, non una maestà”. L’antico
centro del mondo nasconde, dentro la sua segretezza, il nulla.
Testimone privilegiato di questo trapasso, Segalen cerca appigli
interpretativi nella cultura sinologica appresa a Parigi all’École
des langues orientales, ma l’erudizione occidentale resta
esitante su quello che realmente accade dietro le cortine della Città
proibita. La logica aristotelica è messa a dura prova. Le verità
ufficiali e quelle bisbigliate nel quartiere delle Legazioni
straniere non spiegano a fondo la liturgia melanconica con cui
l’Impero si inabissa. Per un europeo colto e lucido, anche nel
centro di Pechino, resta la diffidenza verso le epifanie cinesi. René
Leys o il mistero del palazzo imperiale — come è intitolato
nella traduzione italiana — è il romanzo di questo dubbio: si può
prestare fede a coloro che raccontano l’indicibile? Si può credere
a chi racconta di aver varcato le mura della Città proibita? Dietro
la cortina sacra c’è un parallelo mondo profano, come racconta
l’ambiguo René Leys, o è tutta un’impostura di un falso
iniziato che vuole screditare i figli del Cielo?
Il mistero non si svela, le domande che Segalen fa in prima persona a
René Leys restano inevase. Aveva chiesto tra l’altro: “Una
manciù può o non può essere amata da un europeo (che sarei io)? E
può da parte sua circondare questo europeo di quei gesti abituali
cui apponiamo per tradizione l’etichetta ‘amore’ solo a causa
della povertà della nostra lingua che tutti consideriamo ricca?”
Era un interrogarsi molto acuto sulle differenze che le nostre parole
pietosamente coprono. La lingua, dunque, il velo che custodisce una
cultura nella intraducibilità, qui si ispessiva ulteriormente e
nella sua scrittura, che tradisce la fonetica, si tramutava in una
grande muraglia aerea di fronte alla quale agli studiosi occidentali
era lecito, ancora una volta, fantasticare irresoluti. Tuttavia, da
Leibniz a Pound, gli ideogrammi sono una promessa di redenzione per
la scrittura occidentale. I segni cinesi permettono di introdurre
elementi nuovi nell’alchimia verbale realizzata da Rimbaud, maestro
dei nomadi di quegli anni.
Segalen fa parte della sua confraternita, porta con sé nei
pellegrinaggi Une saison en enfer (assieme a Les Fleurs du
mal), compone prose pure e pratica, a parte, compromessi
mercantili. Prima di andare in Cina è stato a Tahiti e lì ha
raccolto le reliquie di Gauguin. Nulla a che vedere con i
propagandisti dell’esotismo alla Pierre Loti e con gli attivisti
dell’immaginario coloniale. Non è insomma un venditore di immagini
cinesi, né un poeta inventore di figure simboliste, ma — è stato
detto di lui — un decifratore delle iscrizioni delle stele, un
interprete che srotola le sete dipinte, un viaggiatore devoto per cui
l’etica riscatta l’esotico. Perciò resta fedele al suo dubbio
con il quale conclude la storia di René Leys, scritta dopo che la
Rivoluzione ha deposto in una notte l’imperatore e distrutto per
sempre il legame tra Cielo e Terra.
Nelle lettere indirizzate alla moglie dalla Cina ritorna quella
diffidenza verso le immagini abusate del paese che sta studiando:“La Cina è il paese dei malintesi e
delle notizie false”. Oppure:“Ancora una volta, osservare la
massima di non accettare nulla sulla Cina, se non si è in grado di
verificare di persona. Se non lo si può fare, ebbene, né credere né
non credere, riservandosi un atteggiamento misto”.
Allora, se la realtà cinese finisce per diventare, nelle parole
degli occidentali, un’invenzione letteraria, che questa invenzione
— si propone Segalen — abbia la solennità di un viaggio
veramente ai confini di tutto. Equipée (“Scorribanda”), è
la sua temeraria operetta che ci restituisce l’idea del viaggio
agli antipodi. Sembra scritta con il pennello, alla maniera cinese,
rompendo la nostra orizzontalità e producendo così un rovesciamento
dell’universo. L’inchiostro di China — come è chiamato secondo
l’antica grafia che risale ai primi esploratori portoghesi che la
derivarono dalla dinastia Ch’in — è il liquido nobile, odoroso
di canfora, che può fare comparire sontuosamente l’indicibile
diversità. Le gocce d’inchiostro di Segalen animano la moribonda
pagina bianca occidentale e vi fanno rifulgere talvolta lo splendore
soffuso della giada: “i miei desideri incorporati nella materia
preziosa”.
Il diario di bordo di un viaggio fantastico, del viaggio letterario
nella Cina ideogrammata, ha la precisione scrupolosa dei resoconti.
“Non dimenticare — aveva scritto un’altra volta alla moglie —
che in alta matematica si chiamano immaginari quei numeri a un tempo
di una realtà e di una precisione affascinanti.”
Alla prima tappa di questa Scorribanda si assiste
all’incenerimento delle vecchie carte: “Ho sempre considerato sospetti o illusori racconti di questo genere: racconti
d’avventure, fogli di viaggio, chiacchiere — paffute di parole
sincere — di atti che si affermava di aver compiuto in luoghi ben
determinati, in giorni elencati. È tuttavia un racconto di tal
genere, racconto di viaggi, e d’avventure, che il presente libro
propone nelle sue pagine misurate, disposte testa a testa come delle
tappe. Ma che si sappia: il viaggio non è ancora compiuto. Non c’è
la partenza. Tutto è immobile e sospeso. Si può chiudere a volontà
questo libro e liberarsi di quel che segue. Che non si creda affatto
di liberarsi, con lo stesso gesto, da questo problema [...] che si
impone così: l’immaginario si indebolisce o si rinforza quando si
confronta con il reale?”.
Adesso i suoi antichi dubbi, maturati in Cina “costeggiando
migliaia di anni morti”, non li pone più a René Leys, ma alla
scrittura stessa, alla sua scrittura “cinese”. Alla terza tappa
lo troviamo abitare “una camera di porcellana, un palazzo massiccio
e brillante dove l’immaginario si sente a proprio agio”. Ma i
dubbi penetrano anche nelle pareti di porcellana, il reale si
insinua: “se il Reale avesse anche il suo valore verbale e il suo
aroma?” “Dov’è il legame, dov’è il luogo di certezza — o
d’angoscia — del reale?”
Dov’è la Cina di Segalen? Il sistema di misurazione occidentale
non aiuta in questi vasti spazi, “l’assenza di una comune misura
umana è fonte di turbamento”, la mappa è intricata da un gioco di
specchi con l’Occidente. Nel massimo dello straniamento si entra
nel viaggio, lo spazio da attraversare è quello doppio della Cina,
dove il reale e l’immaginario procedono come le due virgole del
Tao, l’una bianca e l’altra nera, uguali e simmetriche. Qui
avviene di “contrapporre la Parola e la Cosa, per la ragione che la
parola cinese è un segno, completo in se stesso, esistente,
realizzante, differente da ciò che dice, e già assai superiore a
quel che si degna di significare”. Attraverso i paradossi cinesi
Segalen arriva così al cuore dei problemi occidentali. La sua
soluzione meta-letteraria e le sue ossessioni del doppio avranno un
lungo seguito per tutto il secolo, anche se non saranno sempre così
delicate.
L’Equipée, che si può tradurre anche “impresa folle e
disperata”, pretendeva di reintegrare l’immaginario al reale. Non
parlava soltanto la voce interiore degli itinerari ascetici, ma le
parole riuscivano a offrire i luoghi materiali dell’Impero terreno.
“Ci si sente in un altro mondo”, diceva Rémy de Gourmont dei
libri di Segalen. Le parole, purificate dalle troppe scorie del
pittoresco, potevano raccontare finalmente di una Cina regno utopico
dell’armonia tra il mondo fisico e quello spirituale. E Segalen,
archeologo delle pietre millenarie ed ermeneuta delle scritte
funerarie, riunificava la Cina del passato leggendario con quella
contemporanea, scossa dal terremoto della storia. Il luogo delle sue
parole mostrava i segni profondi dello scontro temporale con
l’eternità, ma senza drammi, con la leggerezza vaporosa della
danza.
Al termine del viaggio dalle movenze mistiche non c’è la
folgorazione divina (“dov’è il divino? Ho trovato degli
uomini...”), bensì “un acquisto imperituro: una conquista del
piacere del Diverso”, un piacere che si coglie sul sottofondo della
musica “intima e ironica” che accompagna “i due mondi
deliberatamente contrapposti”. La geografia di Segalen sconfina
nella musica, nel suono sospeso del gong che sintetizza un esaltante
sentimento di sorpresa.
Bibliografia
Lettres de Chine, Plon, 1967
René Leys o il mistero del palazzo imperiale, trad. di Clara
Lusignoli, Einaudi, 1973
Scorribanda, trad. di Franco Montesanti, Il Melograno, 1980
Le parole perdute, trad. di Cristina Brambilla, Jaca Book,
1982
Peintures, Gallimard, 1983
Les Immémoriaux, Seuil, 1983
Saggio sull’esotismo (un’estetica del diverso) seguito da
Saggio sul misterioso, trad, di Franco Marconi, Il Cavaliere
Azzurro, 1983
da “leggere” n.6 Novembre 1988
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