Promosso dal mensile
L'altra pagina, la rivista
altotiberina di orientamento “no-global” animata e diretta dal
prete Achille Rossi, si svolgerà a Città di Castello il 12 e
13 settembre un convegno dal titolo La parabola del cibo.
In una sorta di “controexpò” economisti, agronomi, agricoltori,
antropologi e cittadini consapevoli, spesso impegnati in movimenti
sociali, si confronteranno con questioni come la perdurante
sottoalimentazione di grandi popolazioni, collegata al potere sempre
meno contrastato delle “multinazionali del cibo” che dominano il
mercato e determinano una caduta di qualità anche nelle regioni
dell'abbondanza, a scapito della salute dei più.
Il
mio amico e compagno Maurizio Fratta, collaboratore della rivista, mi
ha inviato – con licenza di “postazione” sul blog - due suoi
articoli usciti nel numero di luglio-agosto de “L'altra pagina”.
Quello che segue, il cui titolo originario è Sovranità
alimentare, è la trascrizione
di un celebre passo omerico preceduta da una interpretazione. Io
trovo il brano assai bello, ma la lettura attualizzante non mi
convince. A me sembra che il pasto che Circe offre ai compagni di
Ulisse sia essenzialmente un'esca, visto che nasconde il veleno che
rende maiali, come il verme della lenza nasconde l'amo. Il cibo
attrae, come nella celebre fiaba di Hansel e Grethel, perché
l'antica Grecia (come la Germania medievale o come l'Ottocento
italiano coi padroni grassi e i lavoratori denutriti) era una società
in cui si soffriva la fame, ma il sortilegio che attua la
sottomissione, l'annullamento psichico o la distruzione del catturato avviene con altri mezzi:
cattivo non è il cibo, ma il farmaco di Circe.
“Posterò”
a parte l'altro testo di Fratta, politico-vegetariano, interessante e
utile a un dibattito spregiudicato. (S.L.L.)
L’idea di soggiogare e
dominare l’altro facendogli assumere cibo affonda le sue radici nel
mito. L’episodio di Circe e dei compagni di Ulisse narrato nel X
canto dell’Odissea è sin troppo noto. Singolare il fatto che, una
volta ingerito il formaggio, la farina d’orzo ed il miele mescolati
insieme al vino e ad un infuso offerti dalla maga, i compagni di
Ulisse perdano il ricordo della patria ancor prima di essere
trasformati in porci per poi cibarsi tutti alla stessa maniera.
“Come quando i cani
scodinzolano al padrone che torna
da un pranzo, perché
porta ogni volta dei buoni bocconi;
cosi i lupi dalle forti
unghie e i leoni scodinzolavano
ad essi: temettero,
quando videro le orribili fiere.
Si fermarono davanti alle
porte della dea dai bei riccioli,
sentivano Circe che
dentro con voce bella cantava,
intenta a un ordito
grande, immortale, come le dee
sanno farli, sottili e
pieni di grazia e di luce.
E cominciò fra essi a
parlare Polite, capo dei forti,
che mi era tra i compagni
il più caro e fidato:
«O cari, qui dentro,
intenta a un grande ordito,
canta in modo perfetto –
ne risuona tutta la casa
– una dea o una donna:
su presto, gridiamo».
Disse così, ed essi con
grida chiamarono.
Lei subito uscita aprì
le porte lucenti
e li invitò: la
seguirono tutti senza sospetto.
Indietro restò
Euriloco: pensò che fosse una trappola.
Li guidò e fece sedere
sulle sedie e sui troni:
formaggio, farina d’orzo
e pallido miele mischiò
ad essi col vino di
Pramno; funesti farmaci
mischiò nel cibo,
perché obliassero del tutto la patria.
Dopoché glielo diede e
lo bevvero, li toccò subito
con una bacchetta e li
rinserrò nei porcili.
Dei porci essi avevano il
corpo: voci e setole
e aspetto. Ma come in
passato la mente era salda.
Così essi furono
chiusi, piangenti, e Circe
gli gettò da mangiare
le ghiande di leccio, di quercia
e corniolo , che mangiano sempre i maiali stesi sulla terra”.
e corniolo , che mangiano sempre i maiali stesi sulla terra”.
"L'Altra pagina", luglio-agosto 2015
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