12.8.15

Circe e la sovranità alimentare (m.f.)

Promosso dal mensile L'altra pagina, la rivista altotiberina di orientamento “no-global” animata e diretta dal prete Achille Rossi, si svolgerà a Città di Castello il 12 e 13 settembre un convegno dal titolo La parabola del cibo. In una sorta di “controexpò” economisti, agronomi, agricoltori, antropologi e cittadini consapevoli, spesso impegnati in movimenti sociali, si confronteranno con questioni come la perdurante sottoalimentazione di grandi popolazioni, collegata al potere sempre meno contrastato delle “multinazionali del cibo” che dominano il mercato e determinano una caduta di qualità anche nelle regioni dell'abbondanza, a scapito della salute dei più.
Il mio amico e compagno Maurizio Fratta, collaboratore della rivista, mi ha inviato – con licenza di “postazione” sul blog - due suoi articoli usciti nel numero di luglio-agosto de “L'altra pagina”. Quello che segue, il cui titolo originario è Sovranità alimentare, è la trascrizione di un celebre passo omerico preceduta da una interpretazione. Io trovo il brano assai bello, ma la lettura attualizzante non mi convince. A me sembra che il pasto che Circe offre ai compagni di Ulisse sia essenzialmente un'esca, visto che nasconde il veleno che rende maiali, come il verme della lenza nasconde l'amo. Il cibo attrae, come nella celebre fiaba di Hansel e Grethel, perché l'antica Grecia (come la Germania medievale o come l'Ottocento italiano coi padroni grassi e i lavoratori denutriti) era una società in cui si soffriva la fame, ma il sortilegio che attua la sottomissione, l'annullamento psichico o la distruzione del catturato avviene con altri mezzi: cattivo non è il cibo, ma il farmaco di Circe.
“Posterò” a parte l'altro testo di Fratta, politico-vegetariano, interessante e utile a un dibattito spregiudicato. (S.L.L.)
L’idea di soggiogare e dominare l’altro facendogli assumere cibo affonda le sue radici nel mito. L’episodio di Circe e dei compagni di Ulisse narrato nel X canto dell’Odissea è sin troppo noto. Singolare il fatto che, una volta ingerito il formaggio, la farina d’orzo ed il miele mescolati insieme al vino e ad un infuso offerti dalla maga, i compagni di Ulisse perdano il ricordo della patria ancor prima di essere trasformati in porci per poi cibarsi tutti alla stessa maniera.

“Come quando i cani scodinzolano al padrone che torna
da un pranzo, perché porta ogni volta dei buoni bocconi;
cosi i lupi dalle forti unghie e i leoni scodinzolavano
ad essi: temettero, quando videro le orribili fiere.
Si fermarono davanti alle porte della dea dai bei riccioli,
sentivano Circe che dentro con voce bella cantava,
intenta a un ordito grande, immortale, come le dee
sanno farli, sottili e pieni di grazia e di luce.
E cominciò fra essi a parlare Polite, capo dei forti,
che mi era tra i compagni il più caro e fidato:
«O cari, qui dentro, intenta a un grande ordito,
canta in modo perfetto – ne risuona tutta la casa
– una dea o una donna: su presto, gridiamo».
Disse così, ed essi con grida chiamarono.
Lei subito uscita aprì le porte lucenti
e li invitò: la seguirono tutti senza sospetto.
Indietro restò Euriloco: pensò che fosse una trappola.
Li guidò e fece sedere sulle sedie e sui troni:
formaggio, farina d’orzo e pallido miele mischiò
ad essi col vino di Pramno; funesti farmaci
mischiò nel cibo, perché obliassero del tutto la patria.
Dopoché glielo diede e lo bevvero, li toccò subito
con una bacchetta e li rinserrò nei porcili.
Dei porci essi avevano il corpo: voci e setole
e aspetto. Ma come in passato la mente era salda.
Così essi furono chiusi, piangenti, e Circe
gli gettò da mangiare le ghiande di leccio, di quercia
e corniolo , che mangiano sempre i maiali stesi sulla terra”.

"L'Altra pagina", luglio-agosto 2015

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