Qualche giorno fa i
“fratelli formaggiai” avevano in offerta speciale il “piacentinu
di Enna”. Il prezzo era davvero invitante per un pecorino che è
prodotto di nicchia: 18 o 19; considerato che si trattava di una
forma con più di 4 mesi di stagionatura, un vero affare. Non credo
che la cosa duri: i “fratelli” fanno prezzi così convenienti
quando vogliono invogliare gli adoratori del formaggio che
frequentano il negozio all'assaggio di un prodotto che intendono
inserire nel loro prestigioso assortimento. Il fratello che me l'ha
proposto e venduto insisteva sulla “u” di “piacintinu”, per
sottolineare la sua origine siciliana e il fatto che non ha rapporto
con Piacenza. Spiegava che il nome è legato al fatto che è un cacio
che piace.
La spiegazione l'avevo
sentita un centinaio di volte, ma la cortesia mi obbligava a tacere
la cosa. Dissi che, da siciliano della Sicilia interna appassionato
di pecorini, conoscevo e apprezzavo quel formaggio con pepe e
zafferano e ne ordinai un paio d'etti. Non volli raccontare che,
assai prima del successo nazionale e del riconoscimento del DOP,
molti anni fa, uno zio di mia moglie, un socialista sincero, colto e
bon vivant, palermitano, mi aveva fatto assaggiare quel raro
formaggio. Era stato deputato regionale a Enna, prima per il Psi poi
per il Psiup, e sembrava ben conoscerne l'origine e la storia.
Appresi da lui la leggenda che spesso accompagna la proposta dei
produttori e le illustrazioni dei gastronomi e fa risalire a re
Ruggero il formaggio con lo zafferano. Quanto al nome lo zio Michele
– così lo chiamavamo – congetturava un qualche rapporto con
Piacenza: con l'unità d'Italia s'era diffuso il prestigio del
“parmigiano”, ma nelle campagne dell'Ennese qualcuno –
giustamente – ritenne che il prezioso cacio aromatico e giallino di
quelle contrade potesse accoppiarsi, come fa Piacenza con Parma, col
celebrato formaggio padano, eguagliandolo o addirittura superandolo
in qualità.
La ricetta
Navigando
in rete ho scoperto che “il piacentinu” è consigliato per
arricchire i primi. Non lo sapevo; la pietanza che ho oggi preparata
è nata per caso.
Ero
andato al Mercato coperto di piazza Matteotti, qui a Perugia, a
cercar pesce, ma la pescheria è chiusa. Il Ferragosto rende ancora
più squallido quel luogo un tempo assai vivace. Aperti c'erano solo
una macelleria e due erbivendoli. Da uno dei due, padre di una mia ex
alunna, ho comprato della cicoria selvatica, il tipo più amaro che
più amo.
Ho
preparato delle orecchiette, ispirandomi a quelle pugliesi con la
cima di rapa. La cicoria (l'ho pesata) era quattr'etti dopo la
mondatura e ho calato 160 grammi di orecchiette nella stessa acqua
dove avevo cotto la verdura (dopo averla salata). Mentre si
cuoceva la pasta, io in un padellino bombato ripassavo la cicoria
nell'olio dove avevo sciolto tre filetti di acciuga, imbiondito tre
spicchi d'aglio rosso di Sulmona (poi tolti) e tagliato a rondelline
un peperoncino rosso del tipo non piccante. Ho poi trasferito anche le
orecchiette nel padellino bombato per completare la cottura. Per
l'amalgama ho aggiunto qualche cucchiaio dell'acqua di cottura e sul
finire 60 grammi di “piacintinu” grattugiato. Non so fare i
movimenti col polso che sono tanto di moda, io rimescolo in
continuazione. Ho continuato a rimescolare per un po', dopo aver
tolto dal fuoco, per ottenere una sorta di “mantecatura”. Con
l'amico che era passato a salutarmi e a cui avevo proposto un piatto
di pasta sciuè-sciuè ho ottenuto un successo clamoroso. E anche a me,
scusate l'immodestia, le orecchiette sono sembrate un capolavoro, per
la preparazione certo, per la cicoria, ottima e fresca, ma anche per lo
straordinario apporto del “piacentinu”.
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