Renzo Foa |
Come si sa, ampiamente
ricambiato nel disamore, Occhetto non amava e non ama Massimo
D'Alema, che era – nei piani di Natta e di altri – il candidato
alla successione nella guida del Pci, saltando Occhetto stesso, cui si
rimproverava una qualche dismisura, un eccesso di vanità e
protagonismo, e tutta la generazione di Occhetto.
Nell'aprile del 1988,
quando a Perugia Natta fu colpito da infarto, Occhetto forzò per la propria successione, ottendendone (forse) le dimissioni; D'Alema, che era
in quel tempo direttore de “l'Unità”, non si oppose, scegliendo
di condizionare il nuovo segretario. Occhetto lo collocò in
segreteria e, dopo la svolta della Bolognina di fine 89, gli conferì
il ruolo privilegiato di coordinatore, ma ottenne che, nel percorso
di scioglimento del Partito, la direzione de “l'Unità” venisse
attribuita a Renzo Foa, meno legato all'apparato e alla storia del
Pci. Foa aveva alle spalle una carriera di giornalista (negli anni Ottanta
redattore capo e con D'alema vicedirettore de “l'Unità”), ma soprattutto era figlio
di Vittorio, figura storica dell'azionismo e testa pensante della
sinistra critica non comunista. Ad Occhetto Renzo Foa, che assunse la
direzione nell'estate del 1990, dava pertanto più garanzie di una decisa
rottura con il passato.
Foa si dimostrò più
realista del re: la redazione de “l'Unità” restava assai
composita, espressione dei diversi orientamenti presenti nel partito, ma negli editoriali del direttore e
nella sollecitazione di collaborazioni esterne manifestò un
indirizzo non già postcomunista o socialdemocratico, ma decisamente
anticomunista.
Come lui stesso più tardi rivelò, il campione dell'anticomunismo giornalistico, Indro Montanelli, fondatore e direttore del “Giornale”, gli mandò un fax nel 1991, ov’è scritto: “Caro Foa, tra le tante cose su cui dobbiamo metterci d’accordo è, ogni tanto, di non essere d’accordo su qualcosa, altrimenti saremmo sbranati dai nostri”.
Renzo Foa ebbe poi una precipitosa deriva a destra: finì con lo scrivere per “il Giornale” di Berlusconi esaltando la figura di “statista” del Cavaliere, per poi passare alla fronda di Casini e Adornato col giornale “Liberal”, per poi morire tra le braccia dei preti e specialmente di Monsignor Rino Fisichella, espressione della Chiesa più retriva e intrigante.
Come lui stesso più tardi rivelò, il campione dell'anticomunismo giornalistico, Indro Montanelli, fondatore e direttore del “Giornale”, gli mandò un fax nel 1991, ov’è scritto: “Caro Foa, tra le tante cose su cui dobbiamo metterci d’accordo è, ogni tanto, di non essere d’accordo su qualcosa, altrimenti saremmo sbranati dai nostri”.
Renzo Foa ebbe poi una precipitosa deriva a destra: finì con lo scrivere per “il Giornale” di Berlusconi esaltando la figura di “statista” del Cavaliere, per poi passare alla fronda di Casini e Adornato col giornale “Liberal”, per poi morire tra le braccia dei preti e specialmente di Monsignor Rino Fisichella, espressione della Chiesa più retriva e intrigante.
Emblematico della
direzione di Foa è l'articolo che segue. Per l'ottantesimo
anniversario di Tolstoj si commissiona un articolo a Igor Sibaldi,
che s'intende di letteratura russa, ma non è uno specialista
sull'autore di "Guerra e pace" (nel
“pezzo”, com'era prevedibile, dice poco di lui e niente della sua
opera); è piuttosto un ammiratore di Solzhenitsyn, di cui condivide
le pulsioni mistico-reazionarie (Sibaldi è studioso di miracoli e
“angelologo”) e soprattutto l'anticomunismo viscerale. Arriva a
prendersela perfino con Gorbaciov, che al tempo era ancora a capo del
Pcus e, tra molte contraddizioni, tentava una riforma del sistema
sovietico.
L'articolo che qui “posto” a mio avviso vale poco, anche se qualche notizia curiosa vi si ritrova, ma è emblematico di un momento preciso, quello in cui Occhetto e con lui molti “svoltisti” smaniavano di liberarsi - come se fosse “zavorra” - non solo del comunismo, ma della storia del movimento operaio, il momento in cui si sdoganava perfino la reazione pur di demonizzare il comunismo e dare corpo alla propria abiura. (S.L.L.)
L'articolo che qui “posto” a mio avviso vale poco, anche se qualche notizia curiosa vi si ritrova, ma è emblematico di un momento preciso, quello in cui Occhetto e con lui molti “svoltisti” smaniavano di liberarsi - come se fosse “zavorra” - non solo del comunismo, ma della storia del movimento operaio, il momento in cui si sdoganava perfino la reazione pur di demonizzare il comunismo e dare corpo alla propria abiura. (S.L.L.)
Quel profeta di
Tolstoj
Solzhenitsyn l’ha presa
da Tolstòj, quella lunga barba patriarcale che si è fatto crescere
da quando abita nel Vermont: e in atteggiamenti tolstoiani, fin
troppo tolstoiani, Solzhenitsyn ama farsi fotografare. In primi piani
intensi, burberi - un po’ da santino, un po’ da icona. Oppure
seduto su un tronco abbattuto, con una radura sullo sfondo: e con gli
stivali di cuoio morbido, alti, e la casacca larga, sempre burbero. O
ancora, al tavolo di lavoro, in una prospettiva specialissima che
ricorda tanto gli schizzi a carboncino che il pittore Repin faceva di
Tolstoj, mentre Tolstòj correggeva le bozze.
E fa bene, Solzhenitsyn.
Quelle sue foto sono una citazione, anzi più ancora: sono un modo
molto immediato di esplicitare una sua intenzione precisa, onesta e
coraggiosa: replicare Tolstòj, appunto. Non il Tolstòj romanziere
(che è difficilissimo da imitare), ma il Tolstòj polemista: il
Tolstòj che alla fine del secolo scorso si scagliava, in articoli,
saggi, lettere aperte, proclami, contro i padroni dell'impero russo
-lo zar, il sinodo, la burocrazia, la stampa lealista, i
latifondisti. Anche Solzhenitsyn oggi scrive articoli e lettere
aperte contro i padroni dell’Urss: Gorbaciov, il partito, la
burocrazia, l'intellighenzia chiacchierona e confusa, l’apparato
economico - non meno latifondista e non meno rovinoso dei grandi
possidenti prerivoluzionari. E anche lo stile dei suoi scritti
politico-morali - imperioso, austero, pieno di odio e di amore - e
perfino la tonalità dei titoli, Solzhenitsyn li prende ancor sempre
in prestito da Tolstòj. E insisto: fa bene, Solzhenitsyn.
La storia si ripete,
infatti: e occorre che anche gli uomini si ricordino quali risposte
alla storia è importante ripetere. Tolstòj, cent’anni fa,
argomentò (con straordinaria caparbietà: dal 1880 al 1910) una
serie di risposte mirabili, che scossero fin nelle fondamenta non
soltanto l’impero russo ma tutta quanta la cultura occidentale.
Disse appunto ciò che oggi sta ripetendo Solzhenitsyn: si dia subito
la terra ai contadini, si dia subito la libertà a tutte le
popolazioni dell’impero che vogliono staccarsi dal giogo di Mosca,
si elimini la chiesa di Stato (oggi Solzhenitsyn dice: si elimini il
partito), si elimini il governo centralizzato (allora lo zar, oggi
ancor sempre il partito nei suoi vari trasformismi) e si permetta lo
sviluppo di una democrazia autentica, strutturata in tante piccole
unità territoriali. Tolstòj aggiungeva altresì: basta con le
tasse, basta con il servizio militare, basta con la scuola di Stato.
Solzhenitsyn questo non lo dice: non ancora: forse riuscirà a dirlo
tra un po’; o forse gli pare un po’ troppo. Tant’è. Tolstòj
lo diceva splendidamente. E già prima che il sinodo lo scomunicasse
(nel 1901), chiedeva a chiare lettere che lo si venisse ad arrestare,
nella sua tenuta a Jasnaja Poljana: che lo si mandasse ai lavori
forzati o magari anche al patibolo, per incitazione alla rivolta.
«Per me», diceva, «sarà una liberazione: meglio questo, che non
vivere nel mondo che voi avete costruito».
Nessuno lo arrestò mai:
dopo Guerra e pace e Anna Karenina il conte Lev Tolstòj
era troppo famoso, troppo amato in tutto il mondo.
Così, i suoi articoli,
saggi e lettere aperte continuavano a fare il giro del mondo (proprio
come oggi quelli di Solzhenitsyn). In Russia, circolavano in copie
ciclostilate o dattiloscritte. All’estero, venivano stampati in
russo da qualche esule tolstoiano (in Inghilterra, in Svizzera), e
puntualmente, in capo a un mese venivano ripubblicati dai maggiori
quotidiani dei cinque continenti, e poi in brossure, e in antologie
cheandavano a ruba.
Uno dei suoi lettori più
entusiasti fu Gandhi, che gli scriveva firmandosi «vostro
discepolo», e strutturava la sua teoria della non-violenza sui
presupposti della «non-resistenza al male», esposti da Tolstòj in
una lunga serie di scritti ivi compresi un paio di voluminosi
trattati. C’era Thomas Edison, che gli mandò un fonografo perché
Tolstòj incidesse le proprie tirate profetiche e il suo pubblico, in
tutto il mondo, potesse ascoltarne la voce (e la registrazione - del
1908 - si è conservata: è una voce netta, energica, sferzante, con
una vezzosa pronuncia aristocratica della lettera «zh»: “Nel'zjà
tak zhit!” - “Non si può vivere così!”, comincia il brano
registrato). C’erano i cattolici modernisti italiani, che inviarono
una delegazione a Tolstòj (Semeria e Minocchi, nel 1903), e Tolstòj
li trattò malissimo. Malissimo fu trattato anche Rilke, quando andò
lui pure in pellegrinaggio nella tenuta di Tolstòj, insieme a Lou
Salomè: aspettarono il loro turno, tra decine di visitatori illustri
e di pellegrini russi (che ai primi del Novecento avevano messo la
casa di Tolstòj nel loro itinerario abituale tra i luoghi santi
della Rus’), e quando finalmente li si fece entrare, Tolstòj
dedicò loro soltanto qualche minuto, e poi se ne andò sdegnato.
C’era Pascoli, che gli dedicò un intero poemetto ( Tolstòj,
in Poemi italici): cominciava
Cercava sempre, ed era
ormai vegliardo:
Cercava ancora, al
raggio della vaga
lampada, in terra, la
caduta dramma...
e finiva con un ideale
incontro tra San Francesco, Dante, Garibaldi e Tolstòj.
La caduta dramma (cfr.
Luca 15,8-9).
Tolstòj cercava
sostanzialmente due cose: cambiare il mondo, e cambiare se stesso.
Dedicava a entrambe la medesima passione, e ansia, ed energia, e alla
prima cosa giunse ben più vicino che non alla seconda. Non soltanto
per quel che riguardava la pars destruens delle sue polemiche
(giacché è indubbio che il fenomeno Tolstòj, la presa che gli
attacchi tolstoiani ebbero sulle masse russe contribuirono alla
destabilizzazione che sfociò poi nella rivoluzione), ma anche per la
pars construens. Tolstòj ebbe infatti una quantità
considerevole di discepoli. È un episodio poco noto della storia
russa, reso noto nei dettagli solo di recente con la pubblicazione
del volume Vospominanija krest'jan-tolstovtsev, 1910-1930 gg.
(Memorie di contadini tolstoiani, 1910-1930,
Mosca 1989). In Russia
presero forma, fin dai primi del ’900, numerose comuni tolstoiane,
impegnate cioè nella realizzazione dei precetti economici, morali,
sociali, che Tolstòj aveva tratto dal Vangelo: le prime di queste
comuni ebbero breve durata, pochi anni, le altre, dal 1910 in poi,
prosperarono - nella Russia centrale e in Siberia. Divennero grosse
comunità autosufficienti, pacifiche, ospitali - fino a che lo
stalinismo ne fece piazza pulita, negli stessi anni in cui l’enorme
produzione saggistica tolstoiana cessava di venir ripubblicata in
Occidente, dove né gli Stati fascisti, né quelli «liberi»
potevano più permettersi di lasciarla circolare.
La seconda cosa, invece -
cambiare se stesso - fu sempre il suo tormento. Tolstòj era, in
tutto il suo essere, un aristocratico russo vecchio stile, altero,
viziato come un bambino e smisuratamente ricco, e tutto ciò gli
ripugnava. La ricchezza, la fama, il titolo nobiliare, lo rendevano
parte integrante di ciò che la sua fede furibonda nel Vangelo gli
faceva detestare: voleva e doveva diventare povero, e non ci
riusciva. I suoi sforzi per riuscirci, i suoi progetti di fuga da
casa, che a tanti suoi lettori paiono ipocriti, suscitano in realtà
molta pena e molta tenerezza. Morì, come si sa, la prima volta che
provò a realizzare davvero quel progetto di fuga, lo stroncò una
polmonite, in una stazioncina ferroviaria - nella casa del
capostazione. Il 7 novèmbre 1910, a 83 anni. Quasi che il suo
immenso amore per sè stesso fosse insorto disperatamente contro
quell’estremo, disperato tentativo dell’io di cambiare sè stesso
per amore del Vangelo.
Altro che ipocrisia. Lo
dice così bene Elias Canetti, in Potere e sopravvivenza
(Adelphi, Milano, 1974. pag. 138): «Proprio le contraddizioni di
Tolstòj lo rendono sommamente credibile. È l’unica figura del
passato che nei tempi nostri si possa prendere sul serio». È uno
specchio che ereditiamo: Russia a parte, in Tolstòj si esprime la
contraddizione fondamentale che chiunque si trova ad affrontare
quando riflette con onestà ai guai, allo sfacelo del mondo in cui
vive: la disperante fatica di cambiare sè stessi alimenta la volontà
di cambiare il mondo - e questa volontà non esiste senza quella
fatica disperante. È uno specchio, Tolstòj, un'espressione del
limite della natura umana: espressione che in lui prende forma di
perenne ricerca di superamento, più ancora: prende forma di sfida -
e si infrange contro se stessa. Fin qui noi siamo, ancor oggi. (Igor
Sibaldi )
l'Unità, 9 novembre 1990
l'Unità, 9 novembre 1990
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