A volte il passato non è
nemmeno passato. Se qualcuno riannoda i fili di tante esistenze
sparpagliate dentro una generazione considerata sconfitta, ma non
arresa. Perché è stata testimone di un momento apicale, il '68, che
ha fatto sentire a milioni di esseri umani che la barra della storia
può essere alzata; tanto che ora non può rassegnarsi a restare
dentro la prigione di questo presente non-sense e alla deriva.
Così un libro che si
vuole rigorosamente storico, nella periodizzazione degli eventi e dei
protagonisti, perfino nel titolo, Da Moro a Berlinguer. Il Pdup
dal 1978 al 1984, di Valerio Calzolaio e Carlo Latini con
prefazione di Luciana Castellina (Ediesse), alla fine più che un
saggio di storia diventa uno strumento d’interpretazione del
presente-prigione. Dal quale non si esce senza un segnale forte che
può arrivare dal futuro. Oppure dal passato. Da una origine che
renda evidente quel che ci è stato rubato o che abbiamo dissipato:
la possibilità di pensare a una trasformazione rivoluzionaria dello
stato delle cose presenti. Tornando a pensare in politica. Che nel
frattempo è degenerata in un vuoto artificiale, dove predomina
l'attitudine a servire l’immutabile condizione del mercato e del
potere che ne deriva. Per dirla con Bruno Trentin, siamo passati
dall'interrogarci su una originale transizione al socialismo
direttamente all’ideologia della governabilità comunque, dalla
necessaria rimessa in discussione dei rapporti sociali di produzione,
alla sostenibilità comunque del capitalismo e delle sue presunte
leggi. Dov’è cominciato tutto questo e dove e quando si è
spezzato per una generazione di donne e uomini questo filo che
caratterizzava l’esistenza di ciascuno e la sua appartenenza, in
movimento, ad una storia?
In cerca di unità
Su questo scarto epocale
s’interroga l’importante lavoro storico-politico di Calzolaio e
Latini. Forse c’è nel libro un eccesso di storicismo, se si
chiamano in causa in nomi di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer
inscrivendovi dentro l’intera epoca che va dal 1978 al 1984, tutta
intera la fase che va dagli anni Settanta agli anni Novanta. Ma di
fatto sono i due nomi che scandiscono l’epoca anche se non ne
riducono certo la complessità. Affrontata in una prima, breve, parte
che analizza l’humus fondativo del Pdup, dagli anni Sessanta, con
gli studenti del '68 e gli operai del ’69, alla radiazione del
gruppo del Manifesto dal Pci (già Aldo Garzia aveva tentato
un’analisi storica a fine anni ’70); poi c’è l’epoca della
strategia della tensione e delle le stragi di Stato, l’unificazione
tra il gruppo del Manifesto e il Partito di unità proletaria; ancora
la nascita delle Brigate rosse, il dispiegarsi del compromesso
storico, la crescita del Pci e dell’unità sindacale. Fino al
sequestro di Aldo Moro durante la legislatura che vedeva nascere la
solidarietà nazionale. Fino alla rottura con “il manifesto”
giornale guidato da Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Valentino
Parlato. Quindi una seconda parte che tratteggia il contributo
specifico del Pdup, anche in campo editoriale - nacque la preziosa
rivista “Pace e Guerra” della quale fu protagonista Luciana
Castellina -, dalle leghe dei disoccupati all'impegno pacifista
contro la guerra, in particolare contro l’installazione del missili
Usa in Sicilia, a Comiso, nel 1981, contro i blocchi militari
contrapposti. Stavolta insieme a quel Pci che pure aveva scelto dieci
anni prima la protezione dell'ombrello della Nato; senza dimenticare
l’origine del movimento antinucleare ed ecologista - prima di
Cemobyl - e la nascita dei primi strumenti di critica allo
sviluppismo e al fabbrichismo per un nuovo modello di sviluppo
sostenibile di fronte alla devastazione ambientale emergente. Infine,
ed è il limite temporale del saggio, la terza ed ultima parte
sull’anno fatale 1984, con lo scontro tra il craxismo dominante,
l’attacco alla scala mobile e la morte di Enrico Berlinguer.
I limiti dello
sviluppo
Tutto questo nell'ottica
dell’unità della sinistra e dello strumento del governo come
istanze decisive del cambiamento, entrambe fondate sui nuovi
movimenti e sulle nuove necessità espresse nella crisi del sistema
capitalistico. Giacché le specificità del Pdup nella sua storia
furono proprio la sottolineatura dei limiti dello sviluppo e
un’attenzione politica ai temi dell’ecologia, alla questione di
genere che prima con la stagione del divorzio e dei diritti civili,
poi con il femminismo svelava per tutti il privato dentro
l’intoccabile, fino ad allora, sfera della politica. Con uno stile
nel fare politica, assolutamente antiminoritario, secondo
l’insegnamento: pensare come se tutto dipendesse da noi. Questa era
la modalità. Ispirata soprattutto, nel periodo che va dal 1978 al
1984, da Lucio Magri, il segretario del Pdup, cuore e a mente di
questa operativa «rifondazione comunista», la rifondazione
necessaria che stava scritta nelle Tesi per il comunismo del
Manifesto del 1971. Così, ben prima del Partito della Rifondazione,
arrivato forse troppo tardi e troppo presto, e comunque dopo troppe
sconfìtte sulle quali, a partire dall’89, si è davvero poco
riflettuto. Nonostante la ricerca incessante su un nuovo comunismo
possibile di Lucio Magri. Che vide attraversamenti, risalite e
divisioni: con il rientro all’inizio degli anni Ottanta nel Pci,
quando Berlinguer sembrò forse consapevole, a quel punto, del
fallimento del compromesso storico; e poi, dopo la sua morte
improvvisa, con la ripresa di dialogo con la realtà da cui il Pdup
era nato, cioè con “il manifesto” con cui attivò la nuova
pubblicazione della “Rivista del Manifesto”.
Serve davvero questa storia recente di un partito di sinistra o è solo un’autoanalisi nostalgica per militanti attempati? No, è utile adesso, ai giovani. Anzi è urgente sapere che c’è stato un periodo non concluso che ha affrontato gli stessi identici nodi dell’attualità politica. Che invece del totem della parola «crescita» metteva in primo piano la questione della transizione ad una società superiore, ad un altro modello di vita e di sviluppo. Scrivono Calzolaio e Latini nel libro (che aspetta un sequel?): «La storia del Pdup testimonia il tentativo di coniugare cambiamenti necessari e cambiamenti possibili, dopo avere indagato le ragioni oggettive dei primi ed avere sperimentato nell’agone politico i secondi». Quell’agone politico non c’è più e resta un territorio magmatico, ma con nuovi movimenti che chiedono un’alternativa di società. E chi lavora come fa il libro contro la dispersione delle volontà, ha fatto davvero il passo più importante.
Serve davvero questa storia recente di un partito di sinistra o è solo un’autoanalisi nostalgica per militanti attempati? No, è utile adesso, ai giovani. Anzi è urgente sapere che c’è stato un periodo non concluso che ha affrontato gli stessi identici nodi dell’attualità politica. Che invece del totem della parola «crescita» metteva in primo piano la questione della transizione ad una società superiore, ad un altro modello di vita e di sviluppo. Scrivono Calzolaio e Latini nel libro (che aspetta un sequel?): «La storia del Pdup testimonia il tentativo di coniugare cambiamenti necessari e cambiamenti possibili, dopo avere indagato le ragioni oggettive dei primi ed avere sperimentato nell’agone politico i secondi». Quell’agone politico non c’è più e resta un territorio magmatico, ma con nuovi movimenti che chiedono un’alternativa di società. E chi lavora come fa il libro contro la dispersione delle volontà, ha fatto davvero il passo più importante.
il manifesto, 28 marzo 2015
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