Cartesio |
Non tutti sono d’accordo
sul significato da dare al termine di intellettuale. La definizione
che riscuote più consensi designa, in generale, un gruppo
depositario di conoscenze specifiche, e che perciò fa parte della
classe dirigente; ma che è protagonista al tempo stesso di una
funzione critica nei confronti del potere. Ma quando l’uomo di
cultura, il dotto di professione, ha cominciato ad assumere questi
lineamenti?
Prima ancora
dell'Illuminismo, bisogna risalire al Cinque-Seicento. In un’epoca
di conflitti civili e religiosi pressoché continui, di rivolte
popolari e di repressioni feudali, di carestie ed epidemie senza
fine, era inevitabile che al disordine e alla violenza quotidiana si
accompagnasse il bisogno di nuovi princìpi, di certezze assolute,
che permettessero agli uomini di continuare a sperare e a capire.
Borghesia in ascesa
Proprio questo stato di
profonda inquietudine, che portava a dubitare di ogni valore
tradizionale, spiega il successo che le idee di Cartesio riscossero
fin dalla loro prima comparsa, nel 1637. Il sistema cartesiano, e più
ancora lo spirito del filosofo francese — che, partendo dal dubbio
metodico, cercava di offrire una «conoscenza chiara e sicura di
tutto ciò che è utile alla vita», insomma una spiegazione d’
insieme dell’universo — sembrava tagliato su misura per
rispondere alle angosce del tempo. Cartesio aveva voluto ridare
all’uomo delle ragioni di vivere, di lottare e di creare, ponendo
le basi di un nuovo ordine del sapere, fondato sul ripudio di ogni
conoscenza passivamente accettata, sul primato del pensiero e sui
valori della scienza. Per quanto la filosofia cartesiana presentasse
aspetti molto complessi, non riducibili ad un unico denominatore, ad
essa si richiamarono fondamentalmente gli illuministi nel porre le
basi del razionalismo, della ragione indagatrice e costruttrice della
verità.
Quasi negli stessi anni,
in uno scritto pubblicato postumo nel 1653, Bacone chiamava alla
sbarra Aristotele, definendolo «il peggiore dei sofisti, stordito
dalla sua propria inutile sottigliezza, vile ludibrio delle parole»,
e metteva alla berlina Platone tacciandolo da «sfacciato cavillatore
e delirante teologo». Raccomandava inoltre di rivolgersi
direttamente alla natura attraverso l’osservazione e l’esperienza,
gettando a mare gli «idola mentis» del passato, le ragnatele
del sapere pedantesco, in nome della libertà d’indagine, di un
metodo scientifico che fosse figlio del proprio tempo.
Dietro lo sgretolamento
dei princìpi dell’aristotelismo e del suo vecchio cosmo chiuso e
disposto secondo un ordine gerarchico (distrutto dalla rivoluzione
copernicana e dalla nuova fisica di Galileo), nei progressi della
scienza e nella separazione sempre più netta tra verità di fede e
verità di ragione, non si ritrovano soltanto la forza d’urto della
borghesia in ascesa, le sue aspirazioni ad affrancarsi da vincoli e
pregiudizi, e i suoi interessi per un uso pratico del sapere.
All’origine della straordinaria fioritura di idee e di scoperte che
fece del Seicento un’epoca rivoluzionaria sotto il profilo
culturale, vi fu anche quella sorta di sensibilità barocca, tipica
di un’età di transizione, che giustificava intellettualmente il
movimento e la diversità come un’esigenza intima di libertà e di
avventura.
Come spiegare altrimenti
la contraddizione fra la sopravvivenza di un sistema organico come
quello aristotelico, sia pur logoro, e la rapida fortuna di alcune
intuizioni che rivelavano una nuova visione dell’universo,
all’insegna delle leggi del numero e del metodo induttivo? Oppure
il dilemma fra lo scetticismo disincantato dei libertini (o il
tormentato pessimismo dei giansenisti) e la prorompente fiducia del
pensiero razionalista nel potere della ragione umana come pietra di
paragone del vero?
In un’agile antologia
(La condizione dell'intellettuale nel Seicento, Loescher,
1980), che comprende testi di Montaigne, Charron, Bacone, Comenius,
Milton, Galilei, Mersenne, Cartesio, Hobbes, Naudé, Spinoza, Locke,
Leibniz, Boyle, Newton e altri ancora, Lia Mannarino ricostruisce a
grandi linee lo sfondo dei mutamenti politici sociali e culturali del
«grand siècle». Dalle singole testimonianze si può
cogliere l’eccezionale varietà di motivi ideali, il crogiuolo di
tensioni da cui prese vita l’esigenza di un nuovo ordinamento
concettuale unitario: un edificio che avesse per capisaldi
l’autonomia del sapere scientifico e la riforma degli studi, la
libertà d’opinione e di coscienza, ma in cui vi fosse posto anche
per la fede, rinnovata in senso interiore, e per i princìpi della
gerarchia e deH’autorità costituita. Il mondo spiegato dagli
intellettuali del Seicento attraverso «cause meccaniche e naturali»
(legato tuttavia alla concezione di un ente trascendente, ordinatore
del tutto), aperto alle utopie della «città ideale» ma restaurato
intanto nell’alveo della monarchia assoluta, corrispondeva alle
aspettative e agli ideali di una borghesia dinamica e pragmatica,
tesa a conquistare nuove forme di conoscenza e di controllo della
realtà, ma allo stesso tempo preoccupata di preservare alcuni
cardini fondamentali dell’assetto sociale e del sentimento
religioso, infatuata delle leggi e dello Stato
Università
screditate
Dall’analisi di Lia
Mannarino e-merge chiaramente l’itinerario sociale dell’élite
intellettuale seicentesca: una nuova classe che nella maggior parte
dei casi non aveva alle spalle ascendenze feudali o ecclesiastiche e
la cui crescente autonomia riposava sull’agiatezza economica e
sull’esercizio di importanti cariche pubbliche. Furono numerosi, in
effetti, gli uomini di lettere e di scienze che ricoprirono in questo
periodo incarichi di prestigio e di fiducia, in qualità di
consiglieri di Stato e di ministri, di magistrati e di precettori, o
che intrattennero intensi rapporti con principi e personaggi
influenti. La dimestichezza con le Corti e con gli strumenti di
governo si spinse sovente ai limiti dell’ortodossia e del
conformismo politico, in compenso essa consentì ad alcuni esponenti
del mondo culturale di assicurarsi più ampi margini di iniziativa,
al di là delle censure ecclesiastiche e del rituale repressivo della
macchina statale.
Dalla prima metà del Seicento l’interesse per la sperimentazione e per le scienze si diffuse in tutta l’Europa colta, attraverso viaggi, scambi epistolari, riunioni e dibattiti, sempre più numerosi, mentre nuovi cenacoli e accademie, che abbinavano gli aspetti i teorici e pratici del sapere, presero il posto delle vecchie università cadute in abbandono o screditate dalla ripetizione delle antiche dottrine. Anche gli studi classici si avvantaggiarono di questo più ampio confronto di idee e di progetti, cominciando a liberarsi dagli eccessi retorici e da altre pedanterie formali di cui i collegi ecclesiastici e le università patrizie erano gelosi custodi. Si posero così le premesse per un impegno culturale e civile (sempre più denso di petizioni e discussioni pubbliche, di pamphlets e opuscoli) che col tempo avrebbe investito le stesse fondamenta politiche e sociali dell’assolutismo.
Dalla prima metà del Seicento l’interesse per la sperimentazione e per le scienze si diffuse in tutta l’Europa colta, attraverso viaggi, scambi epistolari, riunioni e dibattiti, sempre più numerosi, mentre nuovi cenacoli e accademie, che abbinavano gli aspetti i teorici e pratici del sapere, presero il posto delle vecchie università cadute in abbandono o screditate dalla ripetizione delle antiche dottrine. Anche gli studi classici si avvantaggiarono di questo più ampio confronto di idee e di progetti, cominciando a liberarsi dagli eccessi retorici e da altre pedanterie formali di cui i collegi ecclesiastici e le università patrizie erano gelosi custodi. Si posero così le premesse per un impegno culturale e civile (sempre più denso di petizioni e discussioni pubbliche, di pamphlets e opuscoli) che col tempo avrebbe investito le stesse fondamenta politiche e sociali dell’assolutismo.
la Repubblica, 6 maggio 1980
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