20.8.15

Un uomo-contro. L'autobiografia postuma di Fortini (Alberto Asor Rosa)

Franco Fortini con la moglie Ruth Leiser
In un ponderoso volume appare un´importante raccolta di scritti fortiniani (F. Fortini, Un giorno o l'altro, a cura di M. Marrucci e V. Tinacci, introduzione di R. Luperini, Quodlibet, pagg. 593, euro 35). La storia della raccolta è presto detta. Secondo quanto racconta Luperini nella sua bella (e, direi, nostalgica) introduzione, lui stesso avrebbe ricevuto dalla vedova di Fortini, Ruth Leiser, un plico contenente «cinquecento pagine fitte di appunti»: il frutto di un lavoro compiuto dall'Autore negli ultimi quindici anni della sua vita, e inteso a ricostruire, secondo le parole di Fortini negli Appunti per una prefazione, non un «archivio», non una raccolta di «documenti», ma una «autobiografia»: una sorta di vittoriniano Diario in pubblico, come ancora Fortini lo definisce in una lettera a Giulio Bollati del 2 maggio 1987, posta in epigrafe al volume (e già questo suscita qualche stupore, siccome si potrebbe dire, - e lo stesso Fortini lo dice - che non esistano due personalità più diverse di Vittorini e Fortini, anche nella costruzione e trattazione della propria autobiografia: ma tant'è, qualche elemento di chiarezza lo si acquisirà forse più avanti).
Trattasi dunque di opera tipicamente incompiuta e, soprattutto nella parte finale, come lasciano supporre le due curatrici, affastellata e caotica, cui non presiede alcun ne varietur da parte dell'Autore: sì da dar luogo a un caso abbastanza estremo (e perciò tanto più interessante) di filologia della contemporaneistica. Pare a me che le due curatrici, Marrucci e Tinacci, se la siano cavata piuttosto bene, approfittando anche del fatto che gran parte del materiale era già contenuto - e parzialmente ordinato - in quattro floppy-disk registrati da Letizia Gozzini, collaboratrice di Fortini, a loro volta confrontati puntualmente per l'occasione con l'ampio materiale cartaceo conservato nel benemerito Archivio Franco Fortini dell'Università di Siena (dove, ricordiamolo, Fortini aveva a lungo e scrupolosamente insegnato).
Naturalmente, in lavori del genere, che non pretendono alla compiutezza (del resto, anch'essa tante volte aleatoria!) dell'edizione critica o diplomatica, tanti sono gli interrogativi su cui si vorrebbe tornare a discutere. Io li ridurrei qui sostanzialmente a tre: 1) la disposizione dei «pezzi», per quanto ufficialmente autenticata dall'Autore (di cui per altro non esiste da questo punto di vista alcuna giustificazione soggettiva) avrebbe potuto probabilmente esser fatta oggetto - cammin facendo - di qualche informazione e spiegazione in più; 2) l'individuazione dei luoghi originari dei «pezzi», quando ce ne fossero, consegnata alle venti pagine delle Note, appare davvero un po' troppo avara rispetto all'alto numero complessivo dei «pezzi» pubblicati: poco comprensibile, in modo particolare, si rivela la linea di distinzione fra «pezzi» già editi e «pezzi» inediti; 3) la presente edizione si conclude con i materiali del 1978, avverte una scarna noticina a p. XXI delle introduzioni: sarebbe stato il caso, - invece di affidarsi tout court all'attendibilità delle curatrici - fornire una descrizione più precisa dello stato dei materiali dopo quella data e fino alla morte dell'Autore, del resto sedici anni tutt'altro che poveri di scritti, interventi, prese di posizione e polemiche da parte sua.
Come che sia, il libro è meritorio e importante, non solo perché riporta l'attenzione su di un Autore oggi troppo poco frequentato (non casualmente, come vedremo), ma soprattutto perché consente di ri-misurare la sua ragguardevole presenza (contestata e contestabile, ovviamente) nel panorama letterario e politico-culturale italiano del Novecento. Ha ragione Romano Luperini ad attirare l'attenzione sul valore di senhal del titolo da lui prescelto per quest'opera composita e volutamente provocatoria: Un giorno o l´altro (che per altro è un calco da un verso veneto di Noventa) insiste sull'importanza della temporalità e del trascorrere del tempo - nella posizione fortiniana: «Sempre dall'ieri al domani; sempre l'oggi in bilico fra passato e futuro, fra memoria e mutamento» (R. Luperini, pag. IX). Anche il titolo di Una volta per sempre, la raccolta delle sue poesie fra il 1938 e il 1973, è da inserire evidentemente in questa serie.
Osserverei che, man mano che il tempo passava, e le situazioni si facevano più difficili, invece, paradossalmente, di semplificarsi, la dialettica passato - presente-futuro, che in Fortini presiede fra l'altro alla sua nozione di classico, tendeva tuttavia a sincronizzarsi su di un presente sempre più ossessivo.
Ricorderò che, nelle pagine finali di quel libro straordinario che è I cani del Sinai (1967), lo scrittore osservava: «Il nostro lavoro non ha luogo. Non tutto, ma molto può accadere. E poi non ho più voglia di spiare quel che accadrà ma solo di fare quel che posso ora per ora».
Dunque, un'autobiografia. Ma, ovviamente, un´autobiografia non narrativa: bensì ricostruita sui materiali di volta in volta elaborati nel tempo. Essi, per chiarezza ancora maggiore, vengono disposti cronachisticamente anno per anno: trentaquattro dal 1945 al 1978. In questi medesimi anni (se teniamo anche noi come termine ad quem il 1978) appaiono tutte le opere fondamentali di Franco Fortini: le grandi raccolte saggistiche; Dieci inverni (1957), Verifica dei poteri (1965), Saggi italiani (1974), Questioni di frontiera (1977); la raccolta poetica che, come già s´è ricordato, riassume quanto in quel campo fino ad allora aveva realizzato, Una volta per sempre (1978); persino il meglio della sua produzione satirica ed epigrammatica, L'ospite ingrato (1966).
Ora, le domande sono due: cosa cercava di fare Fortini, ipotizzando una storia soggettiva della sua esperienza, che andasse al di là di quella straordinaria, per certi versi insuperabile «autobiografia implicita», contenuta nelle sue opere testè richiamate e nel dibattito pubblico, intensissimo, che sempre le ha precedute e sempre le ha seguite? E quali effetti ulteriori ne ha conseguito, ed è dato ora a noi valutare e apprezzare? Azzarderò due risposte.
Confrontando la «serie pubblica» (quella delle opere già edite) con quella di Un giorno o l'altro, si direbbe che Fortini abbia voluto descrivere la «storia interna» di quel percorso: la serie delle motivazioni profonde, i conflitti, i problemi esistenziali, persino le dolorose rinunce, cui l'«esposizione pubblica», pur così ricercata e voluta, s'ispirava e al tempo stesso lo esponeva. Facciamo un passo indietro per capirlo meglio. Nel saggio Il senno di poi, che apre a mo´ di prefazione Dieci inverni, egli scriveva: «La costante del lavoro nostro, voglio dire il mio e di alcuni amici, è stata quella di operare perché si formasse un inizio, un frammento di società nuova, un modo di «essere insieme»». Altrove, tornando sul medesimo argomento, ragionerà che non è sufficiente cambiare il mondo in termini economici o, se si vuole, materialistico-storici: bisogna porsi l'obiettivo di cambiarne il modo d'essere, cioè la cultura, cioè, in termini più radicali, l'antropologia.
Questo programma, in un'Italia (un'Europa? un mondo?) dove la forma più consolidata di trasformazione è la corruzione, corre il rischio di apparire sovranamente anacronistico, - cosa che del resto non avrebbe affatto imbarazzato il nostro Autore. Infatti, negli Appunti per una prefazione, Fortini, tanto per esser chiaro fino in fondo, anche, verrebbe voglia di dire, con attitudine postuma, dichiara di non volersi rivolgere a nessun common reader e tanto meno agli esponenti della «cosiddetta repubblica intellettuale», ma - si deve supporre - solo a quei lettori che siano in grado di sorbirne l'amaro calice e perfino di gradirlo. Insomma: Un giorno o l´altro mostra quel che sta (è stato) dietro i libri saggistici, le raccolte di poesie e gli interventi polemici dichiarati: la riflessione e il colloquio con le fonti per lui più importanti (Sartre, Gramsci, Lukàcs, Brecht, Weil), l´intreccio spesso arroventato dei rapporti con gli amici-nemici (Vittorini, Calvino, Pasolini, Sereni, Guiducci, e poi Montale, Luzi, Cases, Anceschi, Capitini), la rappresentazione dei momenti di sconforto, di depressione, d'irritazione, - e di stizza.
E gli effetti di questa lunga rivisitazione? Alterni. Ci sono pagine bellissime, soprattutto quelle sui suoi auctores. Di qualche pagina si sarebbe fatto volentieri a meno. Com´è noto, il temperamento, - quello intellettuale in primo luogo, ma anche quello caratteriale, - di Fortini rappresenta la singolare confluenza di un autentico illuminismo marxista, di un intenso utopismo d'origine probabilmente ebraica (per quanto mitigato e arginato da un inflessibile laicismo, fonte anch'esso per lui d'innumerevoli censure) e di un autentico rigorismo protestante, che si manifestava anche nei modi spogli della vita quotidiana e nei rapporti molto diretti con le persone. Aggiungi un Narciso poetico di notevolissime proporzioni. Sul piano privato questa ricchissima (e contraddittoria) miscela si manifestava a volte nelle forme di un acceso risentimento e di una nevrotica intolleranza, acuite dal sentimento permanente di non essere abbastanza riconosciuto nonostante i suoi meriti. Questo di fatto era vero: ma ci si stupiva talvolta che egli non capisse che, dato il radicalismo delle posizioni assunte, era anche inevitabile.
Infine, il caso personale. Dai brani che mi riguardano, raccolti in questo volume, si direbbe che Fortini abbia guardato a me come ad un pericoloso eversore e ne abbia preso, talvolta con durezza, le distanze. La storia, raccontata per intero, sarebbe più complessa. Cercherò di riassumerla qui in forma aneddotica. Quando agli inizi degli anni ‘60 mettemmo in piedi - mentore e promotore indispensabile Raniero Panzieri, - la redazione dei «Quaderni Rossi», Fortini da un certo momento in poi prese a frequentarla: fatto oggetto da parte nostra di una scandalosa indifferenza, che nei più sfrontati arrivava fino alla più aperta derisione. Fra quei trentenni esagitati e il quarantacinquenne Fortini, che già allora si dichiarava sconfitto più volte, non c'era né omogeneità di esperienze né comunanza di prospettive. Del resto, ci sono momenti in cui è più giusto rimarcare le differenze che le affinità: se si vuole crescere.
Negli anni successivi questa divaricazione, espressa inizialmente nelle forme più tipiche del ribellismo giovanile, prese un andamento più teorico nella denuncia della sopravvivenza in Fortini delle vecchie forme (per quanto rivisitate da un punto di vista critico) della «battaglia culturale» («fine della battaglia culturale», appunto). In una lunga recensione, quasi un saggio, al suo Verifica dei poteri, intitolata L'uomo, il poeta, declinavo l´impossibilità, l´illusione, la patologia di continuare a pensare che poesia, critica e letteratura potessero essere tramite, strumento, occasione, metafora, simbolo di un discorso direttamente politico e ne invocavo l'assoluta peculiarità, - insomma, al tempo stesso, l'autosufficienza linguistica e il limite pratico invalicabile.
Significava negare l'essenza più profonda del tentativo fin allora portato avanti da Fortini. Molti degli appunti polemici presenti in Un giorno o l'altro si riferiscono a questo episodio e a questa fase.
Poi le cose andarono diversamente: non solo per Fortini; ma anche per il mio, per il nostro, tentativo di andare oltre anche rispetto a lui (che per molti anni aveva svolto il ruolo di polo estremo della criticità). L'oltranza giovanile della «fine della battaglia culturale» si è confrontata successivamente con quelle condizioni che solitamente si definiscono «più avanzate», in cui, per così dire, era diventato illusorio dividersi intorno al tema se una «battaglia culturale» poteva essere oppure no un momento necessario, anzi indispensabile, di una battaglia politica (antropologica) più generale, siccome di «battaglia culturale» non c'era più traccia, né buona né cattiva: semplicemente se l'era divorata lo sviluppo, cioè l'inesorabile liquidatore di ogni tipo di battaglia, non solo culturale, ma anche politica e sociale (con una conseguente, terribile torsione antropologica, allora inimmaginabile).
Quando questo fu chiaro. Fortini ed io capimmo che era venuto meno il motivo del contendere e ci scoprimmo dalla stessa parte. Gli ultimi anni suoi, anche dolorosi e contraddistinti da una solitudine crescente (lo avevano abbandonato a folate molti dei suoi più giovani estimatori e persino adulatori, convolati a giuste nozze con il sistema e con i suoi danarosi diadochi), hanno visto manifestarsi una crescente comunità d'intenti. Verso dove?
Difficile dirlo? Più facile dire da dove, anzi, più esattamente, lontano da dove. In questo senso la lezione fortiniana, al di là delle singole affermazioni e del linguaggio fortemente datato, è ancora viva: chi sta troppo accosto alle cose, le cose lo afferrano e se lo pappano. Ma questa è la storia dei nostri giorni.

«La Repubblica» 19-08-2006

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