Franco Fortini con la moglie Ruth Leiser |
In un ponderoso volume
appare un´importante raccolta di scritti fortiniani (F. Fortini, Un
giorno o l'altro, a cura di M. Marrucci e V. Tinacci,
introduzione di R. Luperini, Quodlibet, pagg. 593, euro 35). La
storia della raccolta è presto detta. Secondo quanto racconta
Luperini nella sua bella (e, direi, nostalgica) introduzione, lui
stesso avrebbe ricevuto dalla vedova di Fortini, Ruth Leiser, un
plico contenente «cinquecento pagine fitte di appunti»: il frutto
di un lavoro compiuto dall'Autore negli ultimi quindici anni della
sua vita, e inteso a ricostruire, secondo le parole di Fortini negli
Appunti per una prefazione, non un «archivio», non una
raccolta di «documenti», ma una «autobiografia»: una sorta di
vittoriniano Diario in pubblico, come ancora Fortini lo
definisce in una lettera a Giulio Bollati del 2 maggio 1987, posta in
epigrafe al volume (e già questo suscita qualche stupore, siccome si
potrebbe dire, - e lo stesso Fortini lo dice - che non esistano due
personalità più diverse di Vittorini e Fortini, anche nella
costruzione e trattazione della propria autobiografia: ma tant'è,
qualche elemento di chiarezza lo si acquisirà forse più avanti).
Trattasi dunque di opera
tipicamente incompiuta e, soprattutto nella parte finale, come
lasciano supporre le due curatrici, affastellata e caotica, cui non
presiede alcun ne varietur da parte dell'Autore: sì da dar
luogo a un caso abbastanza estremo (e perciò tanto più
interessante) di filologia della contemporaneistica. Pare a me che le
due curatrici, Marrucci e Tinacci, se la siano cavata piuttosto bene,
approfittando anche del fatto che gran parte del materiale era già
contenuto - e parzialmente ordinato - in quattro floppy-disk
registrati da Letizia Gozzini, collaboratrice di Fortini, a loro
volta confrontati puntualmente per l'occasione con l'ampio materiale
cartaceo conservato nel benemerito Archivio Franco Fortini
dell'Università di Siena (dove, ricordiamolo, Fortini aveva a lungo
e scrupolosamente insegnato).
Naturalmente, in lavori
del genere, che non pretendono alla compiutezza (del resto, anch'essa
tante volte aleatoria!) dell'edizione critica o diplomatica, tanti
sono gli interrogativi su cui si vorrebbe tornare a discutere. Io li
ridurrei qui sostanzialmente a tre: 1) la disposizione dei «pezzi»,
per quanto ufficialmente autenticata dall'Autore (di cui per altro
non esiste da questo punto di vista alcuna giustificazione
soggettiva) avrebbe potuto probabilmente esser fatta oggetto - cammin
facendo - di qualche informazione e spiegazione in più; 2)
l'individuazione dei luoghi originari dei «pezzi», quando ce ne
fossero, consegnata alle venti pagine delle Note, appare
davvero un po' troppo avara rispetto all'alto numero complessivo dei
«pezzi» pubblicati: poco comprensibile, in modo particolare, si
rivela la linea di distinzione fra «pezzi» già editi e «pezzi»
inediti; 3) la presente edizione si conclude con i materiali del
1978, avverte una scarna noticina a p. XXI delle introduzioni:
sarebbe stato il caso, - invece di affidarsi tout court
all'attendibilità delle curatrici - fornire una descrizione più
precisa dello stato dei materiali dopo quella data e fino alla morte
dell'Autore, del resto sedici anni tutt'altro che poveri di scritti,
interventi, prese di posizione e polemiche da parte sua.
Come che sia, il libro è
meritorio e importante, non solo perché riporta l'attenzione su di
un Autore oggi troppo poco frequentato (non casualmente, come
vedremo), ma soprattutto perché consente di ri-misurare la sua
ragguardevole presenza (contestata e contestabile, ovviamente) nel
panorama letterario e politico-culturale italiano del Novecento. Ha
ragione Romano Luperini ad attirare l'attenzione sul valore di senhal
del titolo da lui prescelto per quest'opera composita e volutamente
provocatoria: Un giorno o l´altro (che per altro è un calco
da un verso veneto di Noventa) insiste sull'importanza della
temporalità e del trascorrere del tempo - nella posizione
fortiniana: «Sempre dall'ieri al domani; sempre l'oggi in bilico fra
passato e futuro, fra memoria e mutamento» (R. Luperini, pag. IX).
Anche il titolo di Una volta per sempre, la raccolta delle sue
poesie fra il 1938 e il 1973, è da inserire evidentemente in questa
serie.
Osserverei che, man mano
che il tempo passava, e le situazioni si facevano più difficili,
invece, paradossalmente, di semplificarsi, la dialettica passato -
presente-futuro, che in Fortini presiede fra l'altro alla sua nozione
di classico, tendeva tuttavia a sincronizzarsi su di un presente
sempre più ossessivo.
Ricorderò che, nelle
pagine finali di quel libro straordinario che è I cani del Sinai
(1967), lo scrittore osservava: «Il nostro lavoro non ha luogo. Non
tutto, ma molto può accadere. E poi non ho più voglia di spiare
quel che accadrà ma solo di fare quel che posso ora per ora».
Dunque, un'autobiografia.
Ma, ovviamente, un´autobiografia non narrativa: bensì ricostruita
sui materiali di volta in volta elaborati nel tempo. Essi, per
chiarezza ancora maggiore, vengono disposti cronachisticamente anno
per anno: trentaquattro dal 1945 al 1978. In questi medesimi anni (se
teniamo anche noi come termine ad quem il 1978) appaiono tutte
le opere fondamentali di Franco Fortini: le grandi raccolte
saggistiche; Dieci inverni (1957), Verifica dei poteri
(1965), Saggi italiani (1974), Questioni di frontiera
(1977); la raccolta poetica che, come già s´è ricordato, riassume
quanto in quel campo fino ad allora aveva realizzato, Una volta
per sempre (1978); persino il meglio della sua produzione
satirica ed epigrammatica, L'ospite ingrato (1966).
Ora, le domande sono due:
cosa cercava di fare Fortini, ipotizzando una storia soggettiva della
sua esperienza, che andasse al di là di quella straordinaria, per
certi versi insuperabile «autobiografia implicita», contenuta nelle
sue opere testè richiamate e nel dibattito pubblico, intensissimo,
che sempre le ha precedute e sempre le ha seguite? E quali effetti
ulteriori ne ha conseguito, ed è dato ora a noi valutare e
apprezzare? Azzarderò due risposte.
Confrontando la «serie
pubblica» (quella delle opere già edite) con quella di Un giorno o
l'altro, si direbbe che Fortini abbia voluto descrivere la «storia
interna» di quel percorso: la serie delle motivazioni profonde, i
conflitti, i problemi esistenziali, persino le dolorose rinunce, cui
l'«esposizione pubblica», pur così ricercata e voluta, s'ispirava
e al tempo stesso lo esponeva. Facciamo un passo indietro per capirlo
meglio. Nel saggio Il senno di poi, che apre a mo´ di
prefazione Dieci inverni, egli scriveva: «La costante del
lavoro nostro, voglio dire il mio e di alcuni amici, è stata quella
di operare perché si formasse un inizio, un frammento di società
nuova, un modo di «essere insieme»». Altrove, tornando sul
medesimo argomento, ragionerà che non è sufficiente cambiare il
mondo in termini economici o, se si vuole, materialistico-storici:
bisogna porsi l'obiettivo di cambiarne il modo d'essere, cioè la
cultura, cioè, in termini più radicali, l'antropologia.
Questo programma, in
un'Italia (un'Europa? un mondo?) dove la forma più consolidata di
trasformazione è la corruzione, corre il rischio di apparire
sovranamente anacronistico, - cosa che del resto non avrebbe affatto
imbarazzato il nostro Autore. Infatti, negli Appunti per una
prefazione, Fortini, tanto per esser chiaro fino in fondo, anche,
verrebbe voglia di dire, con attitudine postuma, dichiara di non
volersi rivolgere a nessun common reader e tanto meno agli
esponenti della «cosiddetta repubblica intellettuale», ma - si deve
supporre - solo a quei lettori che siano in grado di sorbirne l'amaro
calice e perfino di gradirlo. Insomma: Un giorno o l´altro
mostra quel che sta (è stato) dietro i libri saggistici, le raccolte
di poesie e gli interventi polemici dichiarati: la riflessione e il
colloquio con le fonti per lui più importanti (Sartre, Gramsci,
Lukàcs, Brecht, Weil), l´intreccio spesso arroventato dei rapporti
con gli amici-nemici (Vittorini, Calvino, Pasolini, Sereni, Guiducci,
e poi Montale, Luzi, Cases, Anceschi, Capitini), la rappresentazione
dei momenti di sconforto, di depressione, d'irritazione, - e di
stizza.
E gli effetti di questa
lunga rivisitazione? Alterni. Ci sono pagine bellissime, soprattutto
quelle sui suoi auctores. Di qualche pagina si sarebbe fatto
volentieri a meno. Com´è noto, il temperamento, - quello
intellettuale in primo luogo, ma anche quello caratteriale, - di
Fortini rappresenta la singolare confluenza di un autentico
illuminismo marxista, di un intenso utopismo d'origine probabilmente
ebraica (per quanto mitigato e arginato da un inflessibile laicismo,
fonte anch'esso per lui d'innumerevoli censure) e di un autentico
rigorismo protestante, che si manifestava anche nei modi spogli della
vita quotidiana e nei rapporti molto diretti con le persone. Aggiungi
un Narciso poetico di notevolissime proporzioni. Sul piano privato
questa ricchissima (e contraddittoria) miscela si manifestava a volte
nelle forme di un acceso risentimento e di una nevrotica
intolleranza, acuite dal sentimento permanente di non essere
abbastanza riconosciuto nonostante i suoi meriti. Questo di fatto era
vero: ma ci si stupiva talvolta che egli non capisse che, dato il
radicalismo delle posizioni assunte, era anche inevitabile.
Infine, il caso
personale. Dai brani che mi riguardano, raccolti in questo volume, si
direbbe che Fortini abbia guardato a me come ad un pericoloso
eversore e ne abbia preso, talvolta con durezza, le distanze. La
storia, raccontata per intero, sarebbe più complessa. Cercherò di
riassumerla qui in forma aneddotica. Quando agli inizi degli anni ‘60
mettemmo in piedi - mentore e promotore indispensabile Raniero
Panzieri, - la redazione dei «Quaderni Rossi», Fortini da un certo
momento in poi prese a frequentarla: fatto oggetto da parte nostra di
una scandalosa indifferenza, che nei più sfrontati arrivava fino
alla più aperta derisione. Fra quei trentenni esagitati e il
quarantacinquenne Fortini, che già allora si dichiarava sconfitto
più volte, non c'era né omogeneità di esperienze né comunanza di
prospettive. Del resto, ci sono momenti in cui è più giusto
rimarcare le differenze che le affinità: se si vuole crescere.
Negli anni successivi
questa divaricazione, espressa inizialmente nelle forme più tipiche
del ribellismo giovanile, prese un andamento più teorico nella
denuncia della sopravvivenza in Fortini delle vecchie forme (per
quanto rivisitate da un punto di vista critico) della «battaglia
culturale» («fine della battaglia culturale», appunto). In una
lunga recensione, quasi un saggio, al suo Verifica dei poteri,
intitolata L'uomo, il poeta, declinavo l´impossibilità,
l´illusione, la patologia di continuare a pensare che poesia,
critica e letteratura potessero essere tramite, strumento, occasione,
metafora, simbolo di un discorso direttamente politico e ne invocavo
l'assoluta peculiarità, - insomma, al tempo stesso,
l'autosufficienza linguistica e il limite pratico invalicabile.
Significava negare
l'essenza più profonda del tentativo fin allora portato avanti da
Fortini. Molti degli appunti polemici presenti in Un giorno o
l'altro si riferiscono a questo episodio e a questa fase.
Poi le cose andarono
diversamente: non solo per Fortini; ma anche per il mio, per il
nostro, tentativo di andare oltre anche rispetto a lui (che per molti
anni aveva svolto il ruolo di polo estremo della criticità).
L'oltranza giovanile della «fine della battaglia culturale» si è
confrontata successivamente con quelle condizioni che solitamente si
definiscono «più avanzate», in cui, per così dire, era diventato
illusorio dividersi intorno al tema se una «battaglia culturale»
poteva essere oppure no un momento necessario, anzi indispensabile,
di una battaglia politica (antropologica) più generale, siccome di
«battaglia culturale» non c'era più traccia, né buona né
cattiva: semplicemente se l'era divorata lo sviluppo, cioè
l'inesorabile liquidatore di ogni tipo di battaglia, non solo
culturale, ma anche politica e sociale (con una conseguente,
terribile torsione antropologica, allora inimmaginabile).
Quando questo fu chiaro.
Fortini ed io capimmo che era venuto meno il motivo del contendere e
ci scoprimmo dalla stessa parte. Gli ultimi anni suoi, anche dolorosi
e contraddistinti da una solitudine crescente (lo avevano abbandonato
a folate molti dei suoi più giovani estimatori e persino adulatori,
convolati a giuste nozze con il sistema e con i suoi danarosi
diadochi), hanno visto manifestarsi una crescente comunità
d'intenti. Verso dove?
Difficile dirlo? Più
facile dire da dove, anzi, più esattamente, lontano da dove. In
questo senso la lezione fortiniana, al di là delle singole
affermazioni e del linguaggio fortemente datato, è ancora viva: chi
sta troppo accosto alle cose, le cose lo afferrano e se lo pappano.
Ma questa è la storia dei nostri giorni.
«La Repubblica» 19-08-2006
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