Quanti
sogni, quante speranze e frustrazioni
simboleggia per noi l’uomo
che è lì in piedi,
vicino al marciapiede,
mentre agita le braccia
come un nuotatore solitario?
Rappresenta
ancora
l’inquietante fermento della rivoluzione
che doveva
incendiare tutta l’Americalatina
per redimere gli oppressi e gli
umiliati?
La
Mercedes Benz nera che ci porta
si ferma a pochi passi
dalla sua
gigantesca figura
vestita di verde oliva...
Fidel 1989 - Un comizio sotto pioggia |
L’AVANA, gennaio.
E’ il tramonto
all’Avana e il caldo è umido e appiccicoso. Fidel Castro si gira e
guarda al di sopra della barba lunga e canuta. Ha le guance arrossate
da un’irritazione o forse dalla stanchezza.
Gabriel Garcia Marquez
apre la portiera dell’auto e scende come se fosse a casa sua.
«Vieni che te lo presento» dice, e attraversa la rampa del palazzo
dei convegni. Le guardie mi scrutano con curiosità e penso che per
facilitare il loro lavoro sia meglio non muovere la borsa che porto
sotto il braccio. Cosa sto facendo io in quel posto, mentre vado
incontro all’uomo che tante volte ha commosso il mondo? Garcia
Marquez dice il mio nome e il comandante mi tende una mano pesante
mentre mormora: «Sì sì, ti abbiamo letto, hombre» e i suoi
occhi si fanno piccoli, un po' perplessi di fronte all'intruso.
Osvaldo Soriano |
Alcuni minuti prima, in
uno chalet circondato da giardini, una chiamata ci aveva fatto
lasciare a metà il bicchiere di rum. «Ho un appuntamento urgente»,
mi dice Garcia Marquez e si offre di accompagnarmi fino al palazzo
dei convegni, dove erano riuniti più di 300 intellettuali
latinoamericani per dibattere sull'arte, la scienza e le
comunicazioni, convocati dalla Casa de las Americas.
L’autista oltrepassa la
porta degli invitati, attraverso la quale avrei dovuto entrare, e
gira attorno all’edificio fino a una lunga galleria di cemento e
vetro. Fino a quel momento non avevo mai pensato di conoscere
personalmente Fidel Castro. Nemmeno il capo della rivoluzione cubana
aspettava un visitatore tremante, nervoso, che aveva saltato senza
volere il cerchio della sicurezza, il protocollo e la prassi per
fissare un appuntamento. Faccio un passo indietro, chiedo da dove si
esce da quel pasticcio e un uomo della sicurezza mi mostra la strada
verso il parco. «Dove vai? — chiede il comandante e aggiunge
imperativo — vieni, hombre, rimani un momento».
Saliamo una scala e poi
attraversiamo un corridoio. L'ho chiamato «comandante» e cosi mi
sembra che sia meglio. Il familiare «Fidel» è per i cubani che gli
mostrano le loro case distrutte dal ciclone che una settimana prima
aveva squassato l’isola, o quelli che lo circondano per le strade
della città vecchia per fargli lamentele o dargli consigli.
Ossessionato dalla
precisione
Improvvisamente si ferma,
guarda Garcia Marquez e sospira con complicità: «L’uomo ci ha già
fatto innamorare», esclama. Parla di Florentino Ariza, il
protagonista di L’amore ai tempi del colera che aveva
cominciato a leggere la notte prima (è l'ultimo romanzo dello
scrittore colombiano, pubblicato il mese scorso ndr).
«Mi sono addormentato
alle sette del mattino, ma ho scoperto che usi alcune parole che non
esistono, che non si trovano nel dizionario». Gabo sorride.
Gli piace che l’eroe della Moncada e della Sierra Maestra si sia
rivelato con le sventure di un amore fittizio e impossibile.
«Tetamenta, che parola è questa?», chiede Castro. È già seduto
su un modesto divano in una sala vuota, neutra. «Lo so, gli
scrittori inventano altri mondi, però ti assicuro che quel galeone
pieno d’oro che tu descrivi andrebbe a fondo sicuramente. Ho fatto
il calcolo e non si scappa, con un peso simile si va a fondo».
Fidel Castro è
ossessionato dalla precisione. I suoi discorsi e le sue chiacchiere
sono piene di cifre e di dati che soprendono i suoi interlocutori.
Quando domanda non tollera vaghezze: «Quanti piani ha il centro
culturale di Buenos Aires? Quante stanze? Quante automobili circolano
tutti i giorni sull’autostrada che attraversa la capitale
argentina? E’ impossibile sfuggire a quella fine ragnatela che la
sua voce tende intorno all’ospite assorto. E’ un uomo cordiale,
cosciente che il suo enorme potere intimidisce fino alla paralisi.
Allora, quando mi vede accendere una sigaretta, vuole mostrare una
certa fragilità: «Sono quattro mesi che non fumo, ma non l’ho
ancora detto ufficialmente. Bisogna vedere se sono capace di
resistere. Stiamo facendo una campagna contro il tabacco e devo dare
l’esempio».
L'illusione del
potere
Senza il leggendario
sigaro sembra più vulnerabile. O forse è l’età, quei 59 anni che
racchiudono una delle più formidabili volontà politiche di questo
secolo. Se Nikita Kruscev e John Kennedy sono stati sul punto di far
saltare il mondo, è stato perché quest’uomo si ostinava a
difendere l’orgoglio di un piccolo popolo e perché iniziava a
forzare il cammino della storia. Si ricorda ancora la sua sacra
collera del 1962, quando l’Urss aveva deciso di ritirare da Cuba i
missili puntati verso il territorio nordamericano.
A quell’epoca Che
Guevara era vivo, firmava le banconote che adesso portano il suo
ritratto e tutti i sogni erano possibili per la generazione dei
Beatles. Gli Stati uniti avevano subito sulla spiaggia Giron una
sconfitta che anticipava quella del Vietnam e il continente
cominciava a bruciare di passione rivoluzionaria.
Cos’è rimasto di
quella utopia fervente, spazzata via dai Pinochet, Videla, Banzer e
dall'ordine militare del Brasile e dell'Uruguay? Invecchia la
rivoluzione cubana con i fardelli del pragmatismo e dell’esilio?
Sarebbe troppo comodo e
ingiusto affermarlo. In questo periodo, silenziosamente, Fidel Castro
sta forzando un «aggiornamento» della società precomunista che
pochi credevano possibile. Alti funzionari storici vengono sostituiti
da altri, più aperti a una concezione moderna del socialismo.
Nei giorni in cui si è
svolto il secondo incontro di intellettuali per la sovranità dei
popoli, i delegati di tutta l’America hanno visto salire sul
palco degli eletti sacerdoti e psicanalisti, scienziati esperti di
cibernetica e sarti che hanno imparato da Dior e Pierre Cardin.
Qualcosa comincia a bollire in quell’isola poverissima, che vive
sul piede di guerra, minacciata, vilipesa, condannata per
incomprensione, per comodità o mala fede.
Però niente di questo
emerge nella nostra conversazione.
Almeno non in modo
esplicito. Fidel Castro parla della vecchiaia come se volesse
allontanarla. Evoca i paesi della gerontocrazia e dice, pensoso:
«Speriamo che qui non ci succeda questo». Però, come lotterà
contro il passare del tempo l’uomo che è andato nella sierra con
undici sopravvissuti per fondare il primo stato socialista d’America?
Secondo lui (e forse parla di se stesso) un uomo di settantanni che
stia attento nell’alimentazione, che faccia ginnastica tutti giorni
e non fumi, avrà la forza di uno di quaranta.
«La gente che vive in
tensione muore giovane», dice e mi guarda con gli occhi penetranti,
aggrappato al bracciolo del divano. Gli dico che la mia tensione è
dovuta alla sorpresa dell’incontro e lui ride.
Qualcuno serve un
bicchiere di rum e Fidel Castro non sembra avere fretta. Garcia
Marquez lo guarda in silenzio, come se conoscesse tutti i suoi
segreti. Frey Betto, un prete brasiliano che ha pubblicato un libro
di conversazioni con Castro sulla religione, racconta i suoi incontri
con i vescovi di Cuba. «Non hanno mai capito il senso della storia»,
replica il comandante e allora mi rendo conto che non potrò mai
scrivere quello che sto sentendo perché sono un amico di un amico,
qualcuno a cui si dà fiducia per procura.
Uno degli uomini più
amati e temuti del mondo intero parla adesso del potere,
dell’«illusione del potere», come lui preferisce chiamare la sua
capacità di capire e guidare gli uomini e le idee del suo tempo.
Improvvisamente si volta, mi appoggia un braccio sulla spalla e mi
dice che qualcuno ha voluto ingannarlo con l’intenzione di fare del
bene alla rivoluzione. Lo ripete una volta e una seconda, con calma
didattica, avvicinandosi al sorpreso funzionario, alzando appena il
tono della voce, facendo calcoli sugli impulsi telefonici e le
frequenze della televisione, come se volesse persuaderlo per la
millesima volta che può sapere tutto, leggere tutto, controllare
tutto per proteggersi dalle migliori intenzioni di estranei.
La rivoluzione più
insonne
In pochi minuti ho avuto
l’opportunità di ascoltare quello che non avrei voluto. Mi chiedo
di nuovo che cosa sto facendo lì, sorridendo di fronte a un uomo che
non smette di aizzare le belle coscienze di questo mondo e mi sento
un intruso che per sbaglio è entrato in una camera da letto
sbagliata. Il comandante capisce la situazione e la risolve con una
battuta che affonda come un coltello nell’acqua. Ci sono sei
persone nella stanza e alcune non hanno dormito durante la notte.
Quella cubana è la rivoluzione più insonne della storia perché il
suo capo vuole essere dappertutto contemporaneamente. Sentire, vedere
e giudicare su qualsiasi cosa che tocchi il destino del suo popolo
ribelle. In qualunque angolo dove c’è qualcuno che dorme, Fidel
Castro vigila. Miami è a sole cinquanta miglia e il nemico ha il
braccio lungo e minaccioso. Per questo il comandante va a dormire
quando sorge il sole, quando è sicuro che anche l’ultimo cubano si
è buttato giù dal letto disposto a lavorare per la sopravvivenza.
Però non tutti pensano
che lo sforzo valga la pena. «Non c’è dio che distrugga questa
rivoluzione, né dio che la sistemi», scherzano alcuni scontenti che
avvicinano gli stranieri nella strade dell'Avana. Per loro, la
burocrazia ha creato un sistema di privilegi che neppure lo stesso
Fidel Castro potrebbe eliminare.
Radio Marti,
finanziata dalla Cia, trasmette una versione idillica della vita nel
capitalismo. Non paragona Cuba agli altri paesi dei Caraibi, o
all’America centrale, ma alle società consumistiche più avanzate.
Per un cubano che trionfa
a Miami mille sono sotterrati in un immondezzaio di umiliazione e
miseria, però né Radio Marti né gli esiliati si si
diffondono sul tema. In realtà, lo scontento di molti ha a che
vedere con lo stallo di un’economia monocolturale che permette
appena l’uguaglianza delle opportunità nella scarsità e a volte
nella penuria.
Risolti tutti i problemi
dell’istruzione e della salute (due orgogli della rivoluzione),
persistono gravi carenze negli approvvigionamenti, nell’impiego del
tempo libero e nel pluralismo delle opinioni, come lo si interpreta
nelle democrazie liberali.
Però se non ci sono dei
che rovescino questa rivoluzione, molti cubani sono convinti che
l’uomo che adesso mi sta parlando della finzione letteraria potrà
risolvere l’inerzia burocratica e fare un salto verso una tappa che
metta in marcia nuovi meccanismi di partecipazione. A differenza di
altri leaders, Fidel Castro non ha incoraggiato il culto della
personalità. All’Avana non ci sono monumenti prematuri né slogan
che lo presentino come esempio di tutte le bontà rivoluzionarie e
umane. Quest’uomo è nel cuore della gente e questo neppure il più
esasperato avversario oserebbe negarlo.
Un enorme gatto
insoddisfatto
Pochi giorni dopo il
nostro incontro, la televisione brasiliana ha girato un lungo
reportage e, all’improvviso, gli ha proposto di uscire per strada,
mescolarsi con la gente. Lo spettacolo è impressionante:
riconoscendolo, i cubani si buttano su di lui, espongono le loro
lamentele, propongono soluzioni per questo o quel problema, chiedono
una casa o gli fanno vedere l’abito bianco della sposa. Il
comandante si ferma, spiega, discute, cerca di convincere,
persuadere. Nel suo atteggiamento non c’è il paternalismo né la
compiacenza dei caudillos. Sa dire di no e anche spiegare fino
alla noia le difficoltà dei rivoluzionari indigenti.
Sono passate due ore da
quando è iniziata la conversazione. Si è alzato perché ha un
appuntamento e si attarda sulla porta come se volesse rimanere. Potrò
raccontare di questo sorprendente incontro soltanto se dimentico le
parole e disegno una silhouette nella penombra, un volto nello
specchio umido. Litigando con gli spettri della mia gioventù e il
pesante carico del tempo che ci ha segnato la faccia e indurito il
cuore.
Garcia Márquez parla
un’altra volta della vecchiaia e della morte, così presenti nel
suo nuovo romanzo. Fidel Castro fa un gesto noncurante : ha visto
morire molti, è sopravvissuto con tanto impegno agli attentati, che
è sicuro di incarnare la buona fortuna. Sembra così solitario, così
asettico nella divisa verde e gli stivali lucidi, che sorprenderebbe
vederlo estrarre addirittura un fazzoletto.
Porta ancora con lui la
nostra utopia, il pezzo di storia che ancora non abbiamo percorso per
sconfitta o fatica ideologica? In ogni modo, quest’uomo ha
incarnato gran parte di una speranza fatta di rumore e di furia.
Anche se da vicino sembra un enorme gatto insoddisfatto che vede
avanzare, nella notte e nella nebbia, il fantasma trasparente dei
nostri sogni distrutti.
il manifesto, 12 gennaio
1989
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